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FRANCESCO CANDREVA: LETTERATO E PATRIOTA SPEZZANESE

Post n°8 pubblicato il 28 Marzo 2012 da KARROS1957

Francesco Candreva: letterato e patriota spezzanese

(di Francesco Marchianò)

Da oltre un lustro si è concluso l’anno deradiano dedicato al centenario della scomparsa di Gerolamo De Rada (1814-1903), vate della lingua albanese, che nel corso della sua lunga e travagliata esistenza si dedicò ad un’instancabile attività politico-letteraria che lo portò più volte ad intrattenere rapporti con gli intellettuali di Spezzano Albanese.1

Fin da giovane De Rada aveva legami con cospiratori spezzanesi, infatti nella sua Autobiologia egli narra di aver preso parte ad un tentativo insurrezionale nel 1837 assieme ad alcuni di loro. Il moto fallì poiché alcuni di questi congiurati perirono nel colera che imperversava in quel periodo nel Regno.2

Ma i legami fra De Rada e gli intellettuali spezzanesi non erano solo di carattere politico ma anche culturale come si evince dalla corrispondenza epistolare che egli scambiava con loro.

Fra questi emerge la figura del dott. Francesco Candreva (1813-1872), una personalità finora poco nota del quale noi tenteremo di ricostruire e quindi delineare, per la prima volta, la figura politica e culturale per farlo assurgere al novero di coloro che hanno dato un contributo notevole alla cultura arbëreshe ed al Risorgimento.

Francesco Candreva nacque nel 1813 da Giovanni Andrea e Caterina Mortati, entrambi appartenenti a famiglie altolocate e benestanti. La madre era la figlia del “dottore di legge” D. Angelo Mortati (1771-1817), massone, rivoluzionario filo francese ed appaltatore della polvere da sparo.

Terminati gli studi primari, come tutti i figli appartenenti alle famiglie abbienti del paese, si recò a studiare presso il Collegio Italo-greco di S. Adriano in S. Demetrio Corone dove, tenendo conto della data di nascita, fu compagno di studi di Gerolamo De Rada.

Studi che entrambi poi proseguirono a Napoli, capitale del Regno, in cui i due giovani amici, Francesco e Gerolamo, si formeranno politicamente e laurearono rispettivamente in medicina e lettere.

Francesco, ritornato a Spezzano Albanese, nel febbraio 1844 convola a nozze con la benestante D. Rachele Tarsia dalla quale ebbe le figlie Letterina Saurella Amalia (1853) e Letizia Rosina Lucrezia (1856).3

Nel paese il Candreva si dedica alla professione medica ed all’attività politica diventandone sindaco negli anni ’40. Durante la sua amministrazione il dott. Candreva provvede alla costruzione del cimitero e, nel 1843, essendo insufficienti le sorgenti attorno il paese che si ingrandiva, faceva sistemare la fontana della contrada Prato dotandolo di tetto e lavatoio.4

Inoltre, nel 1847, il sindaco Candreva, “che aveva tanto a cuore il bene del paese”, si interessa a sistemare le strade interne del paese ed in modo particolare quella che attualmente collega la chiesa parrocchiale con quella di S. Maria di Costantinopoli, chiamata allora Spasjaturi (il passeggio) perché i notabili del paese vi

recavano a fare rilassanti passeggiate e conversazioni .5

Intanto gli avvenimenti politici del 1848, con le conseguenti rivoluzioni, hanno il loro riflesso nella cittadina che il Comitato di Salute Pubblica di Diamante individuerà come luogo di concentramento delle forze rivoluzionarie e quindi uno dei campi di battaglia della Calabria citeriore.6

Per la sua posizione strategica nel paese, nella metà del mese di giugno 1848, giungono reparti calabro-siculi del numero di oltre 2mila volontari dotati di 18 pezzi di artiglieria campale al comando del generale piemontese Ignazio Ribotti7.

I volontari bivaccano nel paese, ospiti di famiglie o accampati con tende negli spiazzi interni, e posizionano i cannoni nel Ponte dell’Intavolato da cui dominano la Piana di Sibari e le strade che collegano la Calabria con Puglia e Basilicata, dove erano concentrate le truppe borboniche.

Il sindaco Candreva, che aveva aderito senza esitazione alla Rivoluzione, si prodiga ad approvvigionare i volontari e nel contempo vuole evitare disagi e pericoli alla popolazione pregando il generale Ribotti di istituire ronde armate, per il mantenimento dell’ordine pubblico, ed un Comitato di Salute Pubblica per affrontare il problemi relativi al mantenimento delle forze irregolari presenti nel paese.8

Ma l’acume politico del Candreva ed il suo fervore rivoluzionario si erano già manifestati nel febbraio del 1848 quando, per evitare gravi dissidi fra la popolazione che parteggiava per gli esponenti delle solite famiglie locali, propose in un’affollata assemblea come comandante della Guardia Nazionale il giovane Vincenzo Luci.9

Preso totalmente dalla lotta il Candreva partecipa alla compagna militare e politica in corso procedendo al disarmo delle gendarmerie di Cosenza, Santo Stefano di Rogliano, Paola, Castrovillari, Carpanzano, Montalto Uffugo e Spezzano Albanese.10

Nel frattempo i soldati borbonici, dopo aver occupato Castrovillari, tentano una sortita verso le alture di Spezzano Albanese all’alba del 22 giugno ma, scoperti dalle sentinelle, vengono respinti a colpi di cannone mentre le donne ed giovani del paese accorrono coraggiosamente a dar manforte ai siciliani con spiedi e forconi11.

L’euforia della vittoria nel campo di battaglia spezzanese, che impressionò allora tutta l’opinione pubblica del Regno, provocò il saccheggio della masseria del Marchese Gallo e scene di entusiasmo che sfociarono nello stupro di una fanciulla intenta ai lavori nei campi.

Il giorno successivo il Candreva inoltra un’altra missiva al Ribotti chiedendo l’istituzione di una ronda armata per garantire l’ordine pubblico ed “ovviare ai possibili disordini presso le bettole de’ venditori, da obbligarsi a far nuovi provvedimenti per le truppe nazionali, assistere allo smercio delle carni e della neve per l’equa distribuzione …”12.

Dopo una settimana il Ribotti risponde comprendendo le preoccupazioni del sindaco e lo invita a costituire un comitato al quale, però, aderiranno soltanto “i Signori Magnocavallo, Rinaldi, Roviti, Nemoianni e Clero”13.

Alla fine del giugno 1848 gli avvenimenti non volgono a favore della Rivoluzione calabrese ed i suoi dirigenti allora invitano i sindaci a fornire un’aliquota di Guardie Nazionali da inviare al valico di Campotenese per contrastare le truppe del Lanza e del Busacca penetrati, rispettivamente da Rotonda e Sapri14.

Ai principi di luglio, fallita la Rivoluzione, i Borboni diedero inizio alla repressione ed ai processi che colpirono tutte le categorie sociali. Si istruì anche il processo contro Francesco Candreva al quale furono contestate le seguenti imputazioni: “Di attentati ad oggetto di distruggere e cambiare il Governo, ed eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità reale; per essersi riunito in Comitato, in maggio 1848 in Castrovillari, Saracena, Cassano, Amendolara, Santa Sofia, San Demetrio, Santa Domenica emettendo a somiglianza del Comitato centrale, disposizioni governative”.15

Non sappiamo se il Tribunale lo condannò al carcere ma di sicuro il Candreva venne destituito dalla carica di sindaco esercitando la professione di medico.

Ma dopo circa un decennio nuovi eventi si preparano in Italia ed anche in questo piccolo lembo di terra che non era affatto avulso dalla realtà politica e culturale nazionale ed internazionale.

Nel luglio 1860 a Spezzano Albanese, Vincenzo Luci ed altri patrioti tornati dal carcere borbonico disarmano la gendarmeria borbonica ed organizzano un comitato che deve fornire i nominativi della costituenda Guardia Nazionale. Uno di questi è il medico Francesco Candreva!16

Il suo nominativo in seguito non comparirà più in comitati politici o cittadini, perché altri personaggi, imposti dal nuovo ordine, erano apparsi sulla scena e che certamente non davano più spazio alle vecchie generazioni pur ancora ricche di nobili ideali e di progetti!

Ma il nome di Francesco Candreva appare spesso nelle lettere che De Rada invia a d. Paolo e G. A. Nociti ed in cui traspaiono i sentimenti di stima ed affetto che il Vate nutriva per il suo compagno di studi e di lotta.17

Ma il Candreva non era solo un medico ed un politico! In una serie di lettere, reperite dal prof. Ahmet Kondo negli archivi statali di Tirana, risulta che il De Rada aveva corrispondenza con tutti gli intellettuali arbëreshë.

Nell’elenco viene citato anche il nostro illustre compaesano che sembra essere stato il primo traduttore del Milosao come si evince da una sua lettera indirizzata al De Rada il 25 febbraio 1841: “ Carissimo amico […] Voi mi ringraziate della mia soddisfacente traduzione delle vostre prime poesie albanesi del Milosao, ed io di ricambio ve ne rendo i miei debiti ringraziamenti del vostro nobile gradimento. ….”18

La lettera continua con una serie di considerazioni e apprezzamenti critici del Candreva sulle poesie del Vate: “In esse vi trovo molta fantasia poetica, nobile scopo di liberi sentimenti patriotici, ed ingenuità di stile patetico originale. Ecco un esempio alla mia osservativa […] non vi è poeta al mondo, che non avesse toccato le fibre amorose del cuore. Eppure, tranne i pochi grandi originali, gli altri non hanno fatto e non fanno che essere pedissequi schiavi ella imitazione. Ma voi nel primo canto di Serafina scriveste dell’innamoramento di una maniera originalissima; e quei che lo considera bene, in quell’azzurro fazzoletto cagione prima dell’innamoramento vi trova quanto mai di bello, di delicato, di nuovo e di patetico si puote immaginare …”.19

Purtroppo, per mancanza di documenti e per la sua prematura scomparsa avvenuta nel 1872, null’altro possiamo dire su questa limpida figura di intellettuale spezzanese, sul dott. Francesco Candreva, che ha saputo fondere in un unicum coerente la professione di medico, di abile amministratore, di uomo politico, di combattente, di poeta e critico.

NOTE

1 Per avere un quadro dettagliato sulle relazioni fra De Rada e gli intellettuali spezzansi si consiglia di leggere tutti i numeri di “URI”

dell’anno 2003 o collegarsi con il sito www.arbitalia.it

2 G. De Rada, Autobiologia, I periodo, pag, 22, Cosenza, 1898.

3 Archivio parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo in Spezzano Albanese (Cs).

4 A. Serra, Spezzano Albanese nelle vicende sue e dell’Italia (1470-1945), Spezzano Albanese 1987.

5 G. A. Nociti, Platea, 1860, ms. inedito.

6 Documenti storici riguardanti l’insurrezione calabra preceduti dalla storia degli avvenimenti di Napoli del 15 maggio, Stab. Tip.

Dell’Araldo, Napoli 1849.

7 Ibidem, pag. 543. Il dato è desunto da una lettera mutila di G. A. Nociti al suo amico spezzanese Alessandro Nemoianni di

Francavilla.

8 Ibidem, pag. 320

9 G. A. Nociti, op. cit.

10 Giuseppe Carlo Siciliano, Gli Arbërshë per lItalia , in “URI”, organo del Bashkim Kulturor Arbëresh di Spezzano Albanese (Cs),

A. III, n° 1, nuova serie, Gennaio- Febbraio 1999.

11 F. Cassiani- L. Cucci, Gli Spezzanesi ne la Rivoluzione Italiana, Castrovillari,1907, pag. 7.

12 Documenti storici…, pag.234.

13 Ibidem, pag. 461.

14 Ibidem, pag. 363. Il comandante della GN Luci era impegnato in Sila mentre il sottocapo rimasto nel paese era G. Luci che partì

per Campotenese con 37 volontari.

15 G. C. Siciliano, op. cit.

16 G. A. Nociti, op. cit.

17 Ibidem.

18 Cfr. Ahmet Kondo, Aspekte të lëvizjes kombëtare, Shtepia botuese “8 Nëntori”, Tirana, 1988; Michelangelo La Luna, Girolamo

De rada: il vate albanese, in “Zjarri- Rivista di cultura albanese”, Anno XXIX, n° 38, pag. 63 e seg.

19 Michelangelo La Luna, op. cit.

 
 
 

Spezzano Albanese e la rivolta proletaria del 1861

Post n°7 pubblicato il 28 Marzo 2012 da KARROS1957

Spezzano Albanese e la rivolta proletaria del 1861

(di Francesco Marchianò)

Subito dopo lo sbarco dei Mille, Giuseppe Garibaldi proclamando la propria dittatura sull’Italia Meridionale emanava anche una serie di riforme atte ad alienarsi il consenso delle masse meridionali che fino allora erano rimaste insensibili ai cambiamenti in corso nella Penisola o erano deluse dalla sua politica che imponeva l’arruolamento obbligatorio (Salemi, 15 maggio1860).

Punti di forza del programma di Garibaldi erano la libertà, l’abolizione dei dazi sul macinato e, soprattutto, l’assegnazione delle terre demaniali ai nullatenenti e a coloro che avrebbero partecipato all’impresa garibaldina.

In realtà il problema demaniale nell’ex Regno delle Due Sicilie era stato già affrontato nel decennio francese (1806-1815) da Giuseppe Bonaparte prima, e dal suo successore Gioacchino Murat, dopo. Infatti, nell’agosto 1806 venne abolita la feudalità, nonostante le resistenze da parte dell’aristocrazia latifondista meridionale, ma la distribuzione delle terre ai poveri non fu mai attuata pienamente.

Lo studioso meridionalista Giustino Fortunato, in una sua brillante analisi sull’argomento, afferma che i latifondisti, per la maggior parte baroni, sfruttando il "principio di proprietà", usurparono le quote di feudo non contestate dalle Università (gli odierni comuni).

Le terre feudali, invece, destinate al demanio comunale perché fossero assegnate in quote ai cittadini più poveri, nel tempo vennero invece usurpate dai piccoli proprietari borghesi, detentori del potere locale, che incamerarono pure i beni ecclesiastici confiscati con le leggi eversive del 1861.

Questa situazione, che vide contrapposti i ceti poveri ai latifondisti si risolse spesso in rivolte e scontri con il potere centrale che fece poco o nulla per far valere i diritti delle classi meno abbienti.

E nulla cambiò dopo il passaggio di Garibaldi: in Sicilia, a Bronte, nel luglio del 1860 i contadini, guidati dal responsabile della Guardia Nazionale, l’avvocato e patriota Nicola Lombardo, occuparono le terre e, sfuggiti al suo controllo, si diedero anche allo sterminio dei galantuomini (borghesi liberali). La rivolta fu subito repressa nel sangue dalle Camicie Rosse comandate da Nino Bixio, inviato apposta da Garibaldi che vedeva quel moto come un atto che avrebbe compromesso i suoi impegni politici con Vittorio Emmanuele II.

Nella provincia di Cosenza il pro-dittatore Donato Morelli, latifondista silano che aveva subito il carcere nel 1848, abolì subito le leggi del proclama di Salemi a suo uso e consumo nonché dei suoi consimili (i baroni Campagna, Frugiuele, Guzzolini, Boscarelli, ecc…), molti dei quali si riciclarono nel nuovo regime sabaudo detenendo posti di responsabilità.

Nel 1861 tutta la provincia di Cosenza, era in rivolta per lo scontento apportato dai Savoia che, non solo, abrogarono subito le disposizioni di Garibaldi, ma imposero la leva di massa, diedero avvio allo smantellamento delle poche ma floride industrie borboniche ed asfissiarono la produzione della seta condotta a livello familiare dai contadini poveri.

Questa situazione, accresciuta da problemi endemici tipici del Meridione, portarono a rivolte legittimiste, in altre parole miranti a riportare sul trono Francesco II di Borbone, appoggiate o no da bande di briganti, o a rivolte dettate unicamente dalla miseria, dai diritti negati e da soprusi.

Anche nel mandamento di Spezzano Albanese scoppiarono dei moti di duplice natura: a Tarsia e S. Lorenzo del Vallo la rivolta tendeva alla restaurazione dei Borboni, mentre in Spezzano Albanese i poveri occuparono delle terre ritenute usurpate da alcuni proprietari terrieri (2).

La cittadina arbëreshe, in verità, aveva una tradizione di lotte miranti all’ottenimento dei diritti sulle terre feudali risalente al periodo francese, se non prima, e che giunse a termine nel 1840 quando queste furono assegnate legalmente all’Università (comune). L’economia di molte famiglie meno abbienti spezzanesi, di quel periodo e fino a circa mezzo secolo fa, dipendeva in parte dall’estrazione della radice di liquirizia ("rrënja") che cresceva spontanea, abbondante e di ottima qualità nella pianura bagnata dai fiumi Coscile ed Esaro e che ricadevano nei fondi feudali della Mensa Arcivescovile di Cosenza, di Saetta e Rajetto nel territorio di Spezzano di Tarsia (3).

Circa un mese prima che Garibaldi sbarcasse in Calabria, nel luglio del 1860, la cittadinanza spezzanese, per garantire l’ordine pubblico, propose la costituzione della Guardia Nazionale, di oltre 400 unità con a capo il patriota Vincenzo Luci, col grado di maggiore, coadiuvato da un nutrito nucleo di giovani liberali (4).

La Guardia Nazionale spezzanese si scontrò poi con le bande di briganti che, dalla Sila e dal Pollino, minacciavano la vita dei cittadini compiendo scorrerie nelle campagne circostanti, taglieggiando i benestanti e assalendo le carrozze postali che transitavano lungo la Strada Consolare (ora SP ex SS19) (5).

Oltre al fenomeno del brigantaggio le autorità della Calabria Citeriore dovettero ben presto fronteggiare le rivolte contadine che nel 1861 scoppiarono in tutti i suoi distretti mettendo in pericolo il nuovo ordine costituito dai Piemontesi o, meglio, dal neo Regno d’Italia.

Da queste rivolte non rimase immune il nostro paese dove, passata l’enfasi garibaldina, illuse le aspirazioni più immediate delle classi povere, le sacche di miseria andavano aumentando fino a quando il 5 aprile 1861 centinaia di spezzanesi, per la maggior parte donne, scesero nella pianura sottostante ("te sheshet") per occupare le terre di alcuni proprietari terrieri, accusati di aver usurpato il demanio pubblico, ed estirpando la radice di liquirizia.

Quest’avvenimento allarmò e scosse le autorità civili e militari, già impegnate nella repressione negli altri distretti, che con uno scambio alacre di telegrammi e missive imponevano il ripristino dell’ordine con ogni mezzo nella cittadina.

Il giorno seguente il Governatore della Calabria Citra, Luigi Vercillo, con un telegramma suggeriva al suo pari grado di Castrovillari di premere sulle autorità spezzanesi (Sindaco, Giudice e GN) ad "agire energicamente". Intanto il Vercillo informava anche il Dicastero dell’Interno e Polizia che la GN spezzanese, invitata dal sindaco Domenico Luci e dal giudice Fasolo ad intervenire, "si è denegata" facendo causa comune con i rivoltosi, quindi si dovette ricorrere a quella esigua di S. Lorenzo del Vallo, e nel frattempo si richiedeva l’invio di reparti regolari e la costituzione di una nuova GN.

Il successivo 7 aprile il Vercillo fa sapere al Dicastero che un "telegramma spedito da un tal Marini al Direttore dei Dazii Indiretti risulta, che l’anarchia in quel comune è completa. Ánno invaso le proprietà comunali, ed anche delle particolari su pretesto di appartenere al comune. ….".

In realtà furono occupate proprio le terre di Luca Marini, patriota, membro della GN e ufficiale postale e, come vedremo in seguito, anche quelle di altri possidenti. Il Governatore preme verso le autorità di polizia di intervenire tempestivamente perché teme "che i movimenti anarchici e rivoltosi che si versano ora sulla pretenzione delle terre demaniali non tarderanno ad avere uno scopo più reo, essendo risaputo stati trascorsi di questa fatta van sempre più crescendo ed imperversando".

Lo stesso giorno Vercillo scrive al Maggiore dei Carabinieri di Cosenza, Pasquale Mileti, informandolo dei fatti e pregandolo di inviare immediatamente nel paese una forza di una sessantina di uomini, da affiancare alla truppa, ed invitandolo a far prevalere con la ragione l’autorità del Governo e presidiare il telegrafo.

Quello stesso giorno il Sindaco, dichiarandosi contro l’occupazione, non responsabile dei fatti e dimissionario, assicura che la situazione è più calma mentre il Governatore lo esorta affinché "la Forza e la giustizia stiansi vigili a punire i trasgressori". Nel contempo questi invita il Luci di informare la cittadinanza che il Dicastero dell’Interno si sta adoperando a far giungere nel paese i Commissari ripartitori per la definizione dei limiti e che i trasgressori, oltre ad incorrere nei rigori della legge, "saranno esclusi dalla divisione delle terre".

L’8 aprile il Governatore Vercillo comunica al Giudice Fasolo che in Spezzano Albanese presto giungeranno rinforzi e funzionari competenti, come un ispettore di polizia, affinché insieme si "proceda, se il bisogno lo richieda agli arresti di coloro che si fanno promotori di pubblico disordine e di anarchia".

Il 9 aprile, il Maggiore Mileti telegrafa al Governatore che in Spezzano Albanese è giunto un distaccamento di Carabinieri, comandato dal Cap. Beniamino De Fiore, e che presto si darà avvio a lavori pubblici per impiegare coloro che ancora persistono nell’occupazione delle terre. Però, non convinto di queste misure, l’ufficiale prega il Vercillo di inviare un telegramma agli spezzanesi "che valga a calmare l’effervescenza".

Cosa che prontamente viene da lui fatta, ma non in questo senso, perché con un’informativa al Giudice e all’Ispettore di PS, Sarri, egli li invita ad iniziare subito l’istruttoria verso i promotori della rivolta e al disarmo "prudente" dei Garibaldini non appartenenti alla GN. Intanto il Vercillo provvede che per i lavori pubblici l’Intendente spedisca la pratica per assegnare un buono di 300 £.

Il Maggiore Mileti, che sembra avere più buon senso delle autorità civili, invita il cap. De Fiore, che presidia il paese la cui popolazione sembra calma, a far leva sul patriottismo degli Albanesi esortandoli ad avere fiducia perché "Il Governo del Re d’Italia provvederà a tutto; dian tempo". Ma sappiamo bene come risposero i Savoia, e non solo loro, dal 1861 in poi, ai problemi del Meridione!

Ma la quiete in Spezzano Albanese dura poco! Il 10 successivo, il Cap. De Fiore spedisce al suo superiore il seguente dispaccio: "La popolazione ad ogni persuasiva non voluto desistere dal pensiero di continuare l’occupazione delle Terre, e scavo di radici. In punto si muove sopra luogo con la Forza".

I discorsi patriottici non fanno breccia negli stomaci vuoti e sulla volontà decisa degli Spezzanesi creando grossi problemi al Governatore Vercillo che fa sapere che "offerti dè lavori ai proletarii del Comune di Spezzano Albanese vi si sono denegati, e stamani sono corsi novellamente alla devastazione dei terreni Demaniali". Ma la sua collera cresce perché la GN continua a condividere la causa dei rivoltosi e non collabora affatto con l’insufficiente forza militare. Ma nonostante questa impasse il governatore fa sapere che "E’ stato arrestato un Capoplebe e si farà di tutto per arrestare gli altri", mentre il Mileti lo informa che "la popolazione di Spezzano Albanese vista la forza si è data alla fuga; è stato fatto qualche arresto".

Mancano notizie sui giorni 11 e 12 aprile, ma sicuramente vi saranno stati degli scontri, fra le forze repressive e gli occupanti, conclusi con arresti e la fuga alla macchia di molti di questi. Il 13, infatti il Governatore ad un dispaccio del sindaco Luci risponde dicendo che chiederà clemenza per loro alle autorità competenti se consegneranno le armi "come principale attestato di obbedienza e pentimento. Le quali armi saranno poi ridonate ad eccezione dei più compromessi".

Il 14 aprile il Governatore Vercillo, scrive al Segretario Generale dell’Interno e Polizia, Silvio Spaventa, rassicurandolo che la situazione spezzanese evolve verso il meglio perché "La truppa, gli arresti, il disarmo dei Garibaldini non compresi nella Guardia Nazionale ànno prodotto un grandissimo effetto sullo spirito pubblico. Il Sindaco in nome di tutti mi à fatto istanza che impetrassi il perdono per essi da S.R. il Luogotenente" [il Principe Umberto, N.d.A]. Inoltre il funzionario chiedeva anche la soppressione della GN "che chiamata al servizio per l’ordine pubblico si è ricusata…", volontà che esprimeva anche al giudice Fasolo incaricato dell’istruttoria.

Il 15 aprile, il Governatore scrive al sindaco di aver inoltrato alle autorità superiori la clemenza per gli arrestati, dei quali, però, non si cita il nome.

Con un telegramma del 19 Aprile, Spaventa invita il Vercillo ad agire con prudenza vista la situazione di sommossa generale del Cosentino e "…senza riordinare la Guardia Nazionale di Spezzano servitevi dei buoni per domare i tumulti del Circondario di Rose".

In quei giorni il sindaco Luci, facendosi interprete della popolazione e del clero spezzanesi, scrive addirittura a Costantino Nigra affinché interceda presso il Principe Umberto per far liberare quei popolani "che nel numero di mille avendo invaso taluni terreni creduti comunali, sono stati in parte imprigionati, e parte renduti latitanti"…. (lettera da Napoli del 20 aprile del sostituto di Spaventa al Governatore della Provincia di Cosenza).

Sempre il 20 del mese il Giudice Fasolo invia al Governatore Vercillo il seguente dettagliato rapporto:

" Signore,

Nei giorni 5,6,7,8 e 10 di questo mese più centinaia di persone di Spezzano Albanese, fra le quali erano molte donne e molti giovanotti, col pretesto d’impossessarsi de’ terreni che si crede siano stati usurpati al Comune da diversi proprietari di qui, si recarono in terreni a costoro pertinenti, e, armata mano, abbattendone i limiti e i fossi circostanti, si permisero svellerne circa 160 cantaja di radice liquirizia, del valore di Ducati 500. Fecero ciò specialmente in danno di D. Luca Marini e di Michelangelo Diodato.

Questi fatti che in certo modo alterarono e suscitarono un allarme nello spirito pubblico richiamarono a sé la mia attenzione ed io ne trasmisi rapporto immediato a Lei ed al S. Procurator Generale del Re presso la Gran Corte Criminale della Provincia.

Indi a ciò fu qui spedito non solo il delegato di pubblica sicurezza di Castrovillari, ma anche un contingente di uomini armati per poter reprimere la audacia de’ turbolenti.

Nel giorno 10 del mese i turbolenti istessi, facendo appello alle vantate ragioni del comune, si erano recati per lo solito fine di svellerne la radice liquirizia, ad un terreno di un tale Domenico Cassiano quando ecco il delegato di Pubblica Sicurezza, avvalendosi del braccio degli armati sopravvenuti prima che quelli mettan mano alla devastazione, ne arresta 16, che poscia con incartamento opportunamente compilato spedisce a me non prima del giorno 18. Io intanto mi sono occupato della debita istruzione per rassegnarla alla gran Corte Criminale di questa Provincia. Il Giudice Fasolo".

Sempre in quei giorni il sindaco Luci comunica che l’ordine e la tranquillità regnano nel paese al comandante delle truppe regolari Materazzo ed al nuovo governatore, Antonino Plutino, il quale il giorno successivo chiede alle autorità i nomi dei promotori e lo stato delle indagini. Il sindaco risponde che si tratta di "poveretti" facendo appello alla clemenza del Plutino che perentoriamente reitera quanto sopra richiesto anche giorni dopo considerando gli istigatori di "vedute reazionarie" (dispacci del 26 aprile e 1 maggio 1861).

Da questo momento tutta la vicenda si tinge di giallo perché nell’incartamento compare un foglio anonimo, non allegato a documenti ufficiali, in cui si può leggere a chiare lettere:

"Nomi e cognomi de’ veri promutori de’ disordini avvenuti in Spezzano Albanese

Nicola Marchianò (6)

Vincenzo Marchianò (7)

+ Alessandro Marchianò (8)

Vincenzo Gallo

Lorenzo Diodato

Michelangelo Diodato

Nel reclamo pel condono della pena che potrà loro essere inflitta, il solo Alessandro Marchianò non vi à messo firma.

21 maggio

Si conservi per ora".

Nell’incartamento segue una lettera (8 luglio 1861) anonima de "I fedelissimi sudditi di Sua Maestà Vittorio Emmanuele Re d’Italia" di contenuto fortemente anticlericale e di denuncia nella persona di Mons. Pietro Cilento, Vescovo di Rossano, e che sicuramente sarà determinante a deviare l’indagine verso le frange clericali filoborboniche forse nel tentativo di scagionare i presunti, ed importanti, sobillatori (9).

Ed infine il 29 agosto 1861 il Dicastero dell’Interno e della Polizia di Napoli comunica al Governatore Plutino di non aver ricevuto ancora informazioni circa "gl’invasori del demanio comunale" e di provvedere subito in merito.

Il carteggio termina in questa data. Forse si conoscerà l’epilogo della vicenda solo dopo ulteriori ricerche in altre sedi.

E’ certo che durante e dopo i moti di aprile si assistette al cambio di governatore, al barone Vercillo successe il garibaldino Plutino e, a livello locale, al Luci successe un ben più deciso Alessandro Nociti che, benché fratello dell’Arciprete D. Paolo, sarà determinante nell’arresto del reazionario vescovo Cilento.

Ma perché durante tutta la durata della rivolta non si cita neanche una volta il nome del comandante la GN, il Maggiore Vincenzo Luci? Chi erano i promotori di questa rivolta e perché l’indagine fu certamente, prima archiviata ("Si conservi per ora") e poi insabbiata?

Il Maggiore Luci, ardimentoso patriota e garibaldino, non era insensibile ai problemi che attanagliavano le misere popolazioni meridionali, specie a quelle dei propri compaesani che lo veneravano per le sue doti umane. Può darsi che egli abbia condiviso l’azione dei rivoltosi, nonostante l’incarico, non vedendovi tentativi di restaurazione borbonica e tenendosi perciò in disparte, come d’altronde si evince dal carteggio.

Circa i promotori della rivolta ignoriamo se i loro nomi vennero fatti per vendetta o perché realmente aizzarono la popolazione contro il nuovo ordine costituito. Ma se ignoriamo chi fosse Vincenzo Gallo, dei Diodati possiamo dire che erano, e sono tuttora, proprietari di vasti fondi nelle prospicienti colline e pianure lambite dal Coscile.

Moltissimo, invece, si può dire dei Marchianò, e sorprende il loro ruolo in questa sommossa, essendo essi appartenenti ad una famiglia agiata e di trascorsi massonici e liberali.

Nicola Marchianò era, all’epoca dei fatti, segretario comunale, nonché genitore dei due indiziati: il sacerdote d. Vincenzo e Alessandro. Ma era anche suo figlio il patriota Giuseppe Marchianò (10) che, dopo aver subito persecuzioni e carcere durante il periodo borbonico, ricoprì per propria richiesta la carica a Segretario di 1 classe nel Ministero di Grazia e Giustizia a Napoli, poi a Torino e Firenze.

Molto probabilmente il Ministro Spaventa sottopose l’incartamento relativo ai fatti di Spezzano Albanese a Giuseppe Marchianò che, vedendo comparire i nomi dei propri congiunti e temendo ripercussioni negative per la propria carriera, molto probabilmente fece cadere nel dimenticatoio l’episodio che fu, forse per questo motivo, anche trascurato dalla storiografia locale.

Solo Alessandro Marchianò non firmò la richiesta di condono, come risulta nel prezioso documento, ma preferì la via dell’emigrazione in Argentina, come fecero allora migliaia di Meridionali portati alla miseria, o costretti al brigantaggio, dal governo dei Savoia.

NOTE

1 Si tratta di un episodio inedito, completamente ignorato dagli storici locali: il Nociti forse avrà stilato la cronaca sul suo Diario relativo a quell’anno mentre il Cassiani ed il Serra non hanno condotto approfondite ricerche di archivio ma si sono basati generalmente sulla Platea(1860) del Nociti che risulta spesso inaffidabile.

2 A Tarsia e S. Lorenzo del Vallo le rivolte erano guidate rispettivamente dal Focaracci e dal sacerdote Manes, elementi reazionari che parteggiavano per il ritorno dei Borboni sul trono di Napoli.

3 Già nell’anno 1800 alcuni cittadini di Spezzano di Tarsia avevano arrecato danni nelle terre della Mensa Arcivescovile di Cosenza rivendicandone la proprietà. Per quanto riguarda la questione demaniale circa i fondi feudali di Saetta e Rajetto appartenenti ai Sanseverino s’interessò l’avv. Cesare Marini (1792-1865) di S. Demetrio Corone, ma esercitante nel foro di Cosenza, difensore dei fratelli Bandiera nel 1844. (v. bibliografia). Negli atti giuridici ed amministrativi, il nostro paese è registrato con la denominazione di Spezzano di Tarsia, mentre l’attuale risale al 1811.

4 Nel 1827 venne istituita nel Regno delle Due Sicilie la Guardia Urbana che aveva il compito di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza nei comuni. Nel 1848, Re Ferdinando II, per arginare le rivolte contadine istituì la Guardia Nazionale, formata da proprietari terrieri e ceti abbienti, per garantire la difesa dei beni. Abolita dopo la Rivoluzione, venne riproposta nel luglio 1860 da Francesco II che si illudeva di arginare moti rivoluzionari. In realtà le GN fecero causa comune con i garibaldini. Durante il brigantaggio, la GN divenne mobile per vigilare sulla sicurezza dei comuni e delle campagne e garantire il presidio diurno e notturno dei paesi. Vincenzo Luci (1826-1898) fu a capo della GN nel 1848 e dal 1860 fino al termine dell’emergenza brigantaggio. Noto come "il Maggiore", fu incarcerato dal 1852 al ’59, prese parte a tutte le campagne di guerra del Risorgimento, amico personale di Garibaldi ed altri patrioti, non esitò a criticare apertamente le scelte del Re e come consigliere provinciale nel 1866 denunciò la mafia degli appalti delle strade della provincia. Inizialmente monarchica, delusa dalla politica nazionale sabauda, la sua fede poi evolse verso l’ideologia libertaria anarchica di Bakunin.

5 Nel territorio del nostro mandamento sconfinavano spesso le bande dei Saracinari di Carlo De Napoli e quella di Antonio Franco nelle quali eccelleva talvolta come gregario e capobanda il famigerato brigante Angelo Maria Cucci (1809-1863) denominato dai suoi compaesani Kuçarjeli e nei tribunali militari noto come "lo Spezzanese".

6 Nicola Marchianò (Spezzano Albanese, 1801-1890), segretario comunale durante il periodo borbonico e unitario, fu accusato di sedizione. Coniugato con Mariangela Chiurco ebbe numerosissima prole. Era proprietario di terreni e di un mulino ad acqua in Contrada Bagni.

7 Vincenzo Cesare Marchianò (Spezzano Albanese 1836-Napoli 1910), figlio di Nicola e Mariangela Chiurco. Sacerdote.

8 Alessandro Salomone Marchianò (Spezzano Albanese 1842 – Argentina ?), figlio di Nicola e Mariangela Chiurco. Nel 1860, giovanissimo, era inquadrato nel battaglione Luci delle Camicie Rosse spezzanesi.

9 Mons. Pietro Cilento (Napoli 1806- Rossano 1877). Prelato sensibile ai bisogni della Chiesa locale e delle classi umili ma di idee apertamente filoborboniche. Propagandista acceso contro il nuovo corso politico.italiano soprattutto durante il plebiscito dell’ottobre 1860 viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Cosenza. Scarcerato viene nuovamente arrestato in seguito ad una denuncia anonima partita da Spezzano Albanese.

10 Giuseppe Marchianò (Spezzano Albanese 1830 – Napoli 1902). Figlio di Nicola e Mariangela Chiurco. Patriota e giurista. Partecipò giovanissimo alla Rivoluzione calabrese del 1848, sottoposto a vigilanza poliziesca dai Borboni nel 1852, subì il carcere duro (1856 -1860) essendo stato accusato di complicità nel tentato regicidio di Agesilao Milano. Ferito gravemente dai soldati borbonici in un vile agguato nel 1860, partecipò al comitato insurrezionale di Napoli e poi alle battaglie di Casertavecchia e Capua. Dopo il 1861 rivestì importanti incarichi statali.

 
 
 

La fine del Casale di Palazzo in un saggio di Domenico A. Cassiano

Post n°6 pubblicato il 26 Marzo 2012 da KARROS1957

Domenico A. Cassiano e la fine del Casale di Palazzo

(di Francesco Marchianò)

Le ricerche storiche sugli insediamenti albanesi nel Meridione d’Italia proseguono grazie alla tenacia di studiosi che, estendendo il loro campo di indagine anche in archivi privati, portano alla luce importanti documenti contenenti notizie inedite che permettono di scrivere ex novo le vicende dei profughi arbëreshë dal XV sec. in poi.

Recenti pubblicazioni, curate da validi e consumati esperti come Petta, Mazziotti, Sarro e Mandalà  – hanno illustrato agli appassionati di storia albanese falsità storiche che per secoli sono passate per verità venendo citate in bibliografie di nuovi testi e tesi di laurea.

Al novero di questi seri studiosi bisogna affiancare, senza ombra di dubbio, un instancabile ed appassionato cultore di storia patria, autore di pregevoli saggi su personaggi e vicende calabresi ed albanesi, il prof. Domenico Antonio Cassiano, già docente di storia negli istituti superiori e legale nei più importanti fori della Calabria.

Una delle sue ultime pubblicazioni (2009) ha riguardato la tragica e breve parabola di un minuscolo insediamento arbëresh nella Sibaritide, il Casale di Palazzo, collocato nel quadro più ampio dell’economia e della politica dell’epoca, XVI sec., offrendoci in vivo affresco di quella che era la vita degli albanesi nel Vicereame di Napoli, in modo specifico di quelli della destra Crati (S. Sofia, S. Demetrio Corone, Macchia Albanese, S. Cosmo Albanese, Vaccarizzo Albanese e S. Giorgio Albanese).

L’Autore, nel corso delle sue ricerche, ha reperito, tra le carte del notaio Persiani un atto che narra la tragedia avvenuta tre anni prima, nel 1547, nei pressi della cittadina citata ad opera dei pirati turchi che infestavano il Mediterraneo e che non disdegnavano di allearsi con la Francia, allora nemica della nascente potenza spagnola in Europa, o venire a compromessi con feudatari per compiere “lavori sporchi” a danno di singoli individui o comunità.

Il Cassiano identifica il casale di Palazzo, citato già in un elenco di tassazioni del 1543, in una zona compresa fra i comuni di Corigliano Calabro e S. Giorgio Albanese, oggi nota come “Serra Palazzo” nelle carte topografiche di quel territorio.

Le capitolazioni redatte, nel settembre 1509, informano che gli arbëreshë di Palazzo, dei quali non si conosce né dove e quando fossero giunti in questa terra, si erano insediati nel feudo ecclesiastico di “S. Maria de Ligno Crucis”, similmente ai loro compatrioti di S. Demetrio, S. Sofia, Acquaformosa, Lungro, etc… accolti in feudi badiali (Cap. I).

Essi erano sottoposti alle leggi feudali dell’epoca, spesso molto dure, abitando in misere abitazioni, erette con mattoni di paglia e fango, coabitando in promiscuità con gli animali domestici o da lavoro.

Né la loro condizione migliorò con il matrimonio di Erina Castriota con Pietro A. Sanseverino, la quale viveva negli agi come tanti nobili o ricchi albanesi, compreso Giovanni Castriota figlio di Skanderbeg, che avevano scelto di vivere a Venezia, Napoli, Milano, Urbino o Venezia.

I papàs, assieme alle mogli e figli, condividevano la miseria con i propri fedeli zappando la terra, dissodando terreni, arginando torrenti, costituendo una vera e propria ricchezza per i feudatari che avevano visto i propri possedimenti spopolati da carestie e terremoti (Cap. II).

I feudi, compresa la plebe che vi lavorava, venivano venduti o permutati e quindi sottoposti a nuove leggi, tassazioni e ricatti che costringevano gli Albanesi a bruciare i “pagliara” o condurre una vita nomade nella piana sibaritica o nella Valle del Crati, pericolose sia per la malaria che per le comitive di banditi che le infestavano.

Ma anche gli Albanesi, costretti dalla circostanze, non disdegnavano di delinquere rappresentando un pericolo per i casali calabresi circostanti tanto che decreti reali e vicereali imponevano ai capi villaggio di cingersi di mura o di costituire vere e proprie milizie di persone oneste per dare la caccia ai “forbanditi”. Nel 1569-’70 la Sibaritide è colpita da una grave carestia che provoca centinaia di morti, tanto che Erina Castriota-Sanseverino ordinò la previdente costituzione di magazzini per l’ammasso di grano e granaglie in previsione di calamità (Cap. III).

Difficili, inoltre, erano i rapporti fra gli Albanesi ed il clero latino che mal vedeva la presenza dei papàs sposati, contadini e che non pagavano tasse né ai feudatari e né alle mense arcivescovili. Il Marafioti ci ha tramandato la descrizione del misero villaggio arbëresh in cui non esistono nobili  e nessuno sa scrivere ad eccezione del caloiero o di cui vuol seguirne le orme.

Il Cassiano a tal proposito sottolinea con fermezza: “I principi ed i signori albanesi, emigrati in Europa ed in Italia, non andarono a popolare i casali, ma trovarono conveniente sistemazione nelle città, servendo nella burocrazia e nell’esercito, inserendosi tra i gruppi dirigenti della Penisola ed assimilandosi ad essi, abbracciando la religione cattolica e differenziandosi dal popolo minuto, mandato a servire i signori feudali italiani nei villaggi semivuoti, che possono essere considerati alla stregua di veri e propri ghetti che, forse proprio a causa di tale oggettiva situazione, si vennero a trovare nella necessità di aggrapparsi alla tradizione, strenuamente difendendola, contestando ogni tentativo di annichilimento dei modi resi possibili dalle circostanze”.

Le zone di provenienza dei profughi albanesi fa ritenere, senza alcun dubbio, che la loro fede era legata alla Chiesa d’Oriente e che erano sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo ortodosso di Ocrida. Inizialmente, secondo i dettami del Concilio di Firenze (1439) essi erano visti come cristiani ma le cose mutarono radicalmente con il Concilio di Trento che cominciò a considerali eretici, soprattutto sulla base di relazioni che i vescovi delle diocesi meridionali inviavano alla Santa Sede circa le consuetudini del clero e dei fedeli arbëreshë.

Inizialmente i papi vietarono severamente ai vescovi ordinanti di Ocrida di visitare i paesi albanesi, pena il carcere, poi Clemente VIII impose la creazione di un vescovo ordinante greco ma dipendente da Roma confermando la superiorità e l’unità del cattolicesimo.

Nei paesi arbëreshë, i papàs alfabetizzavano in lingua greca ed istruivano alle pratiche religiose i clerici che, al pari del sacerdote erano considerate persone di rilievo nel casale ed erano esentati dalle tasse, beneficio che veniva esteso agli eredi anche dopo la loro morte.

I vescovi latini di ritorno dalle visitationes effettuate nei casali albanesi stendevano relazioni negative sul comportamento del clero greco e dei fedeli, soprattutto in quel che concernevano la Quaresima, la Pasqua ed altre osservanze stridenti con la pratica religiosa latina.

Spesso i vescovi latini, in combutta con il feudatario e le autorità dei casali, imponevano con la violenza il rito latino come accade in alcune comunità ed in modo cruento a Spezzano Albanese, il cui parroco don Nicola Basta morì in carcere pur di non abiurare la fede ortodossa (1666) (cap. IV).

Crisi demografica, calamità naturali e banditismo avevano sconvolto la Calabria del sec. XV devastandone l’economia la quale, però, riprese vigore con la venuta degli Albanesi che trovarono inizialmente dimora in grotte naturali o costruendo dimore provvisorie (pagliai e tuguri) spostandosi nei dintorni della piana di Sibari in cerca di lavori stagionali e luoghi migliori dove costruire, come faranno in avvenire, case “de calce et de arena”.

Per sopravvivere gli Albanesi non esitarono a dare la caccia ai numerosi briganti, spesso anche albanesi, ottenendo dalle autorità ricompense e lodi. La loro povertà era così estrema che il potere reale impose agli esattori di non riscuotere troppe tasse oppure a provvedere alla loro rateizzazione!

La situazione di miseria spingeva molti Arbëreshë a delinquere non solo ai danni delle popolazioni calabresi ma anche di quelle albanesi tanto che le cronache dell’epoca riportano omicidi avvenuti nei piccoli casali.

Questo contesto ci presenta una popolazione che per vivere si dà alla macchia, al latrocinio, a bruciare le proprie miserabili dimore pur di non pagare le tasse oppure a sottostare alle dure condizioni di corvées imposte dai feudatari, quindi si trattava di gente povera e non di “nobili signori”,  di miseri contadini venuti in ancor più misere zone del Meridione a piccole ondate migratorie e non guidati da condottieri che una falsa tradizione ha tramandato fino a qualche decennio fa!

Il Cassiano sostiene che tra la fine del XVI sec. e la metà di quello successivo cominciarono a delinearsi le prime abitazioni, con pochi vani soprastanti, con le strade e stradine e con immancabile orto dove coltivare il gelso e le piante necessarie per la piccola e fragile economia domestica.

Nel frattempo si intensificavano le relazioni commerciali con i paesi vicini, i matrimoni, i contratti di lavoro con i feudatari laici ed ecclesiastici e piccoli proprietari terrieri con benefici per i bracciali che non di rado si arricchivano dando origine alla “borghesia rurale” dei paesi arbëreshë.

L’Autore, citando il catasto onciario del Decennio francese, descrive la piramide sociale, consolidatasi già nel Cinquecento, ponendo alla base i brazzali,  poi i custodi di animali ed i foresi, coloni, massari ed artigiani divisi in varie categorie, poi più su i civili (benestanti), professionisti, ecclesiastici e qualche “nobile”.

Da ciò si deduce che i casali arbëreshë dipendevano da un sistema agro-pastorale in cui i contadini coltivavano gelseti, oliveti e vigna, grano e colture promiscue mentre gli allevatori ovini, bovini e suini, mentre scarsi erano le botteghe artigiane ed il commercio (Cap. V).

Il quadro economico ci presenta un popolo povero, giunto nel Meridione senza guide, senza punti di riferimento, un popolo sbandato mentre il principe Giovanni Castriota godeva degli agi della corte napoletana. L’Autore smitizza alcuni topoi che descrivevano gli Arbëreshë come eroi, come nobili fuggiti dall’Albania in quanto di condizione abbiente che permetteva loro di pagare il naviglio che li trasbordava in Italia assieme alla servitù. Falsi risultano la presenza di Demetrio Reres, già contestato dallo Zangari (1940), falso risulta il “Manoscritto di Agostino Tocci”, falsa risulta la tradizione dei “nobili coronei”!

Su questo argomento l’Autore si sofferma ampiamente e con dovizia di particolari, come già fatto nei precedenti capitoli, sostenendo che “… lo studio delle fonti dimostra che le poche migliaia di abitanti della città di Corone non erano albanesi, essendo la popolazione costituita da greci e da un rilevante numero di discendenti italiani, detti gasmuli, una specie di meticci orientali”.

Gli Albanesi vivevano nelle campagne attorno alla città e che erano stati accolti dalla Serenissima alla fine del XIII sec. con lo scopo di ripopolare i territori di Nauplia e dell’Eubea. Essi, però, erano malvisti dalla popolazione veneta poiché dediti all’abigeato, alla rapina e facili alla rissa essendo di indole turbolenta. In seguito Venezia inquadrò molti albanesi, abili cavalieri, nelle milizie stradiote utilizzandoli nelle varie guerre contro i Turchi ed in Italia.

Citando varie fonti coeve, il Cassiano sostiene che la città non venne affatto liberata da Carlo V ma consegnata ai Turchi in base a precedenti accordi o per un ammutinamento della guarnigione spagnola.

Sul numero di questi profughi esistono fonti storiche discordanti (1500 o 5000) che presentano una popolazione composta da greci ortodossi, latini e albanesi dei villaggi ribellatisi ai Turchi in fuga da loro possibili e crudeli rappresaglie.

Alcuni profughi coronei furono inviati in Lucania dall’ammiraglio Andrea Doria un cui parente aveva ereditato da lui il feudo di Melfi, quindi essi furono inviati in territori dove potevano essere ben accolti con le dovute credenziali.

L’Autore sostiene che la distribuzione dei profughi avvenne con criteri discriminatori in base all’appartenenza sociale: i ricchi nei grandi centri e la massa dei poveri nei vecchi e miseri casali del Meridione a coltivare le terre dei feudatari!

Carlo V non a tutti i Coronei concesse l’esenzione fiscale, consistente in una somma variabile tra i 10 e i 70 ducati e né esistono documenti che attribuiscono ad essi qualsiasi titolo nobiliare.

Solo nel XVIII sec. alcune famiglie arbëreshe, raggiunta una buona posizione socio-economica, aggiunsero al proprio cognome “de’ Coronei” per “appagare la propria vanità e di avere un pennacchio per avere più autorità nelle comunità contadine di residenza”.

Secondo il Mandalà il mito della nobiltà coronea venne creato a Mezzojuso, colonia albanese della Sicilia, e poi propagato da Pompilio Rodotà nella sua monumentale opera sul rito greco.

Il Cassiano, inoltre fornisce al lettore, un nutrito elenco di coronei sussidiati, dal 1578 al 1593, abitanti per la maggior parte a Napoli, Palermo e Barletta. In seguito il loro numero divenne esiguo, per decesso o trasferimento, fino ad estinguersi del tutto (Cap. VI).

Infine l’Autore, dopo tali premesse storiche, economiche e religiose, affronta il triste argomento della scomparsa del casale di Palazzo sottolineando che l’episodio avvenne la domenica mattina del 23 febbraio 1547, quando tre imbarcazioni gettarono le ancore alla fonda di Corigliano.

Riportando in corsivo la narrazione contenuto in un atto del citato notaio Persiani di Corigliano (1550), si evince che la popolazione di casale, in mancanza di una chiesa, era riunita in un pianoro per seguire la messa quando venne circondata dai Turchi, trasbordata nelle navi e forse venduta come schiava nei vari mercati d’Oriente.

I pochi abitanti rientrati trovarono il casale disabitato, con i pagliai bruciati, le poche case abbattute mentre intatti erano i terreni coltivati a grano ed altro.

Il Cassiano, tenendo conto del giorno di domenica, parla di un vero e proprio ipotizzando che “L’incursione fu organizzata preventivamente con il sicuro concorso di persone del posto, che mal sopportavano i forestieri, che vivevano tranquillamente, dediti al lavoro nei campi loro assegnati, oppure interessati al rientro economico della vendita del prodotto del saccheggio e degli stessi albanesi, certamente venduti come schiavi”.

Inoltre egli prosegue affermando che probabilmente informatori dei ceti più bassi della popolazione coriglianese, avendo in odio il Barone locale, e simpatizzando per l’Islam avessero fornito ai Turchi ogni appoggio.

Lo Zangari, che aveva reperito e pubblicato le tassazioni del 1543, ci ha tramandato i cognomi di questi sfortunati arbëreshë: Bardo, Baffi, Brunetto, Comestabulo, Lopez, Pageres, Pisani, Scura e Zingaro.

I sopravvissuti alla razzia si sono poi sparsi nei vari paesi albanesi circostanti facendo perdere così ogni traccia di se portandosi sempre nel cuore la tragedia che aveva colpito il piccolo casale di Palazzo (Cap. VII).

Scheda del libro:

Domenico Antonio Cassiano, Il paese scomparso – Greco-albanesi in Val di Crati (sec. XV-XVIII). Ideologia e miti, Editrice Libreria “Aurora”, Corigliano Scalo (Cs), gennaio 2009.

 
 
 

Gjitonia: luogo fisico e sociale nella comunità arbëreshe.

Post n°5 pubblicato il 24 Marzo 2012 da KARROS1957

 

Gjitonia: luogo fisico e sociale nella comunità arbëreshe.

(di Francesco Marchianò)

 

Kush ë pa shpi, ë pa gjitoni” (“Chi è senza casa, non ha vicinato”) recita un breve ma significativo proverbio arbëresh che vuole sottolineare l’importanza di possedere un luogo fisico dove ritrovarsi per svolgere le funzioni quotidiane domestiche (shpia = la casa) e, soprattutto, dove operare le funzioni di scambio sociale (gjitonia=il vicinato).

Attenendomi alla gjitonia come luogo fisico, con riferimento alla comunità di S. Cosmo Albanese-Strighàri, riporto qui di seguito due interessanti osservazioni avanzate molti anni fa (1988) dall’architetto Piera Oranges: «L’elemento minimo del tessuto urbanistico è la “gjitonia”, spazio che viene compreso tra tre o quattro case abitate da famiglie tra le quali si instaurano rapporti e vincoli di grande interesse antropologico[…]». Con questa affermazione la Oranges vuole significare i primordi della gjitonia quando gli albanesi, vivendo in miserrime condizioni economiche, non esitavano ad aiutarsi l’un l’altro.

Ma con l’evoluzione socio-economica dei paesi arbëreshë, fine sec. XVII ed inizi del XVIII, la gjitonìa si trasforma in un nucleo produttivo precapitalistico: « […] Nel momento in cui gli albanesi si organizzarono all’interno del territorio loro assegnato e cominciarono ad usufruire del territorio da loro coltivato, ecco che emergono uomini che sicuramente si sono messi a capo dei vari gruppi di profughi (rappresentati da coloro che provenivano da un rango sociale più elevato).Costoro e per intelligenza e per dominio e per astuzia diventano ben presto i benestanti ed i proprietari di quasi tutte le terre.

Di questo fenomeno l’insediamento di S. Cosmo Albanese è la più chiara dimostrazione; esso è denunciato con estrema chiarezza, a livello urbanistico ed architettonico. Nella seconda fase di sviluppo dell’insediamento, evidenziato dallo studio metodologico sul lungocrinale (attualmente Via A. Gramsci) si determina un tessuto seriale formato da un lato da una serie di palazzotti signorili e dall’altro da edilizia di base con duplice funzione (in particolare serviva da abitazione per coloro che erano al diretto servizio del signorotto, e in parte a deposito e lavorazione dei prodotti della terra).

Urbanisticamente, ecco, che risalta lo stesso fenomeno verificatosi all’interno del primo nucleo: la “gjitonia”, questo spazio compreso tra tre o quatto case ora appartiene ad un solo proprietario.

Quindi una gjitonia caratterizzata non più da motivazioni solidaristiche, ma da interessi economici, sotto il controllo del proprietario.»

Lasciando da parte le fredde considerazioni tecniche accetto la prima definizione e mi piace entrare nel merito della gjitonìa come elemento sociale costitutivo del paese katundi.

Consultando un vocabolario risulta che il lemma gjitonia derivi dalla lingua greca che, come l’albanese, pur essendo indoeuropea non appartiene a nessun ceppo linguistico. Nella lingua greca gjitonìa < ή γειτονία cioè “vicinato” e ό γειτων “il vicino”. Ma il greco non riesce a spiegare questo etimo!

E se noi, invece, facessimo provenire gjitonìa dall’albanese? Se lo facessimo provenire da “gjithë ton” cioè “tutto nostro”? Sarà forse una forzatura ma spiega un concetto fondamentale insito nella gjitonìa che è appunto la comunanza, la condivisione.

Mettendo da parte queste criticabilissime considerazioni linguistiche, la gjitonìa per la mia generazione, che è cresciuta agli inizi del boom economico italiano rimane uno dei momenti formativi dell’esistenza. La generazione vissuta nei paesi arbëreshë tra il 1950 –’70, ha visto gli ultimi bagliori di un mondo agro-pastorale che si avviava ad una lenta ed inesorabile trasformazione economica e sociale.

Vivere nel ricordo significa che non si vive bene nel presente, purtroppo questa falsa modernità spinta all’eccesso sta cancellando le differenze culturali, linguistiche e sociali omologando tutto e tutti cancellando secoli di storia e di civiltà di antiche comunità e di singoli individui.

Ritornando alla gjitonìa essa era il luogo fisico della condivisione, era tenere la porta di casa aperta perché nessuno estraneo vi entrava perché controllato dai vicini, era scambiarsi il lievito naturale per fare il pane, insomma offrirsi piccoli beni senza chiedere nulla in cambio, la gjitonìa era tutto.

I ricordi personali sul mio vicinato sono vari, alcuni ricordano momenti belli ed altri brutti, ma che vedevano sempre la presenza dei vicini. Qui di seguito offro dei flashs.

Momento bello era d’inverno quando si ammazzava il maiale. Più che un’uccisione, purtroppo violenta di un animale domestico, era un rito cui partecipavano i membri della famiglia e le persone più intime del vicinato. Dopo aver inviato un assaggio di pietanza a tutto il vicinato, la sera a casa si faceva una grande tavolata per la gioia di tutti gli invitati che mangiavano le carni del maiale cucinate in vari e gustosi modi.

E quando si avvicinava la festa di S. Giuseppe alla cui vigilia si accendeva il falò, circa un mese prima tutti i bambini, i giovani e donne della gjitonìa si recavano negli uliveti a raccogliere le frasche della potatura per ammassarle nello spiazzo della gjitonìa di appartenenza. Poi durante il falò si andava a vedere qual’era quello più grande (“Simbjet fanoin më i madhë e i bukur e bën te gjitonia e Sqinit!”).

Poi Pasqua con i dolci cotti nel forno del vicinato, la preparazione dell’altare per il Corpus Domini e cercarlo di farlo più bello degli altri. Mi ricordo. Inoltre, che alla vigilia della festa di S. Giovanni mia madre andava a raccogliere nei campi germogli ancora acerbi di cardo che abbrustoliva ed offriva alle ragazze del vicinato. Dalla loro fioritura, dopo questo trattamento, si traeva l’auspicio se quelle giovinette si sposassero o no.

E quando poi chiuse le scuole a frotte ci si costituiva in bande per fare la guerra con i bambini degli altri vicinati o si organizzavano vari giochi negli spiazzi davanti alle case o nella vicina campagna.

A settembre, dopo la raccolta ed immagazzinamento del frumento, le donne si sedevano davanti ad una spianatoia (qastìeri) per pulire il grano dai semi di erbe infestanti e si ingannava il tempo e la noia dell’operazione facendo raccontare alle donne più anziane fatti avvenuti nel passato o favole.

Poi arrivava ottobre, la preparazione ed il lavaggio delle botti preludevano la vendemmia che veniva pure anticipata dall’invio ai vicini di un paniere pieno di uve pregiate e quando il mosto era maturo nelle botti non mancava anche di inviare ai vicini la bottiglia di vino novello.

La gjitonìa era stare di sera davanti alla porta di casa per sfuggire alla calura dell’interno, tanto allora non passavano auto, e parlare di tanti fatti del passato o permettersi qualche pettegolezzo se passava qualcuno/a che aveva commesso qualche atto del tipoo: “Ndrì, e sheh ktë ç’shkoi nani? Dhëndrri e ngapoi me njeter e nani e lëreu!” oppure muovere critiche sull’abbiligamento o sul modo di incedere: ” Ku vate i gjet kta tirqë ki ktu?” o “Kjo ecën sikur ësht’e çanë ve!” .

Altro momento forte erano le nozze di qualche ragazza: tutte le vicine accorrevano ad aiutarla nella vestizione, a distribuire dolci e confetti, ad esporre la coperta più bella del corredo come lo si fa ancora oggi nelle processioni dei santi. E così via tanti e tanti momenti….

Poi non mancavano, purtroppo, anche quelli brutti come, per es., la scomparsa di qualcuno. Già durante l’agonia i vicini si alternavano a vegliare il moribondo ed aiutavano i parenti in alcune incombenze. A decesso avvenuto c’era sempre la donna più esperta del vicinato che aiutava a vestire il defunto, a far rispettare i riti, ad avvisare il sacerdote. La presenza alla veglia funebre era di obbligo e poi, a fine esequie, a turno e per più giorni i vicini preparavano da mangiare alla famiglia colpita dal lutto.

Concludendo la gjitonìa era un piccolo mondo, con aspetti negativi e positivi, era un’atmosfera particolare, irripetibile e magica.

Io penso che la gjitonìa, come entità umana, sia morta o, meglio, l’abbiamo fatta morire andando ad abitare in claustrofobici appartamenti di anonimi palazzoni sbandierati come il raggiungimento di uno status symbol (“Ndrì, ime bilë u martua e vat’e mbet te nj’apartemend! Ma apartamend!”) oppure in enormi ville circondate da recinti per far capire a tutti che non si ha bisogno di nessuno perché stiamo bene (soprattutto economicamente).

Proprio ieri leggevo in un sito internet che si intende tutelare con una legge apposita, come per la lingua, anche la gjitonìa, ed ho amaramente concluso che nessuna legge potrà mai farlo se le viuzze non risuonano più degli schiamazzi di torme di monelli, se i nostri paesi si stanno svuotando dei fermenti vitali che sono i giovani, se le antiche case delle gjitonie sono vuote e cadono ormai a pezzi, se ai legislatori ed amministratori di vario ordine non gliene frega proprio niente di noi!

 
 
 

Spezzano Albanese nella seconda metà del XIX sec.

Post n°4 pubblicato il 24 Marzo 2012 da KARROS1957

Spezzano Albanese nella seconda metà del XIX sec.

(di Francesco Marchianò)

 

Descrivere la realtà della nostra comunità verso la metà o poco più del XIX secolo non è affatto compito arduo poiché esiste una miriade di documenti manoscritti o editi, redatti da autori locali o da illustri personaggi che sono transitati o si sono fermati per visitare il nostro paese.

Perno della vita sociale ed economica di Spezzano Albanese fu, ed è ancora oggi, per certi aspetti la Via Nazionale, allora Strada Consolare delle Calabrie,  fatta tracciare da Gioachino Murat nel 1808 e portata a termine dai Borboni nel 1824.

Questa strada toglieva da un isolamento secolare il nostro paese, ormai comune autonomo dal 1811 e con l’attuale denominazione, che registrava subito un notevole incremento demografico e con esso anche un aumento delle attività commerciali e di uffici statali diventando il punto di riferimento economico e burocratico dei paesi del mandamento.

Accanto a questi fatti positivi bisogna annoverare anche quelli negativi che la strada apportò alla comunità: aumento di omicidi, furti, rapimenti, prostituzione, figli illegittimi, etc….

A questi fenomeni prevedibili bisogna aggiungere le periodiche epidemie di colera, veicolate da gente di passaggio, che falcidiarono la popolazione per quasi tutto il secolo.

Nel paese inoltre già subito dopo il periodo napoleonico operava una vendita carbonara, fondata da Luigi Nociti, che nel tempo portò alla maturazione di idee unitarie e liberali che sfociarono nella partecipazione corale degli spezzanesi alla Rivoluzione del 1848.

Il paese era uno dei campi di raccolta dei rivoluzionari e di battaglia di quel momento ma, passato l’impeto della rivoluzione molti spezzanesi furono imprigionati come i giovani Vincenzo Luci, Giuseppe Marchianò, Gennaro Mortati ed altri.

Intanto il paese cresceva d’importanza perché nel 1857 iniziò a funzionare il telegrafo presso il palazzo Chefalo diventando sempre di più un centro urbano ed economico di rilievo.

Ma lasciamo la parola ad un testimone dell’epoca, l’intellettuale Giuseppe Angelo Nociti (1832-’99) che così scrive in un suo lavoro inedito del 1852:

“ Spezzano fin da quando ebbe la strada carrozzabile andò sempre più progredendo ed ivi si stanno fabbricando i più belli e sontuosi palazzi.

Fu adornato nell’autunno del 1850 di una bella selciata che attraversa tutta la città, la quale era stata cominciata nel 1847, allorché fu fatto un terrapieno sotto l’olmo sul quale passa la selciata, e fu poi terminata nella primavera del 1851.

Fu costruita nel 1852 quella che scendendo conduce davanti alla chiesa parrocchiale. Nell’antro della città ne fu fatta un’altra nello stesso anno 1852.

Un’altra se ne farà tra breve da libeccio verso greco e dividerà in due mezzi parte della città.

La cassa  comunale essendo ricca si spera che un tal progresso andrà sempre crescendo.

Qualunque forestierocce fa breve dimora in Spezzano ne rimane subito preso, e molti vi si stabiliscono allettati dall’esterno commercio, dal dolce clima, dalla vaga posizione, e della buona indole della gente.

Spezzano conta presentemente quattro chiese che vanno gradualmente migliorando, quattro caffè, cinque nobili locande, una trattoria, sette macelli, otto bettole, tre generi di privativa, un’armeria, una decina di mercanti tra i quali uno solo cittadino e gli altri forestieri, due notai, cinque uscieri, sei medici, tre agrimensori, quattro farmacisti, tre giurisperiti, nove preti, ed una civica guardai di più di cento individui, la quale nel 1848 giunse a trecento.

Nel 1852 per uniformarsi in tutto all’usanza della città fu comprata pel banditore una tromba di ottone”.

Il quadro presentatoci dal Nociti è abbastanza consolante e lusinghiero considerando la situazione di degrado e di abbandono in cui versavano altri paesi del distretto di Castrovillari. Si può dire che, per certi aspetti, la Spezzano di un tempo offriva ai residenti ed ai forestieri una gamma di servizi, di ristorazione ed accoglienza più varia ed ampia di oggi.

Con il 1860 Spezzano diventa di nuovo centro strategico per le operazioni militari. Il primo settembre arriva Garibaldi e con lui si aggregano circa 150 Camicie Rosse comandate dal patriota Vincenzo Luci di recente uscito dal carcere borbonico. Il Dittatore lascia una somma di ducati al paese per far terminare i lavori di costruzione del Municipio.

Passata l’enfasi garibaldina arrivano i Piemontesi che impongono il loro sistema economico che impoverisce l’industria familiare della produzione della seta. Come reazione nasce il brigantaggio e Spezzano diventa centro di un tribunale militare straordinario che opera fino al 1865.

Tristemente noto alle forze dell’ordine in questo periodo è il brigante Angelo Maria Cucci detto “lo Spezzanese” o “Kuçarjelji” che opera come gregario o capobanda nel Pollino e dintorni.

Con il neo Regno d’Italia nasce la questione meridionale che rimane tuttora  irrisolta: milioni di Italiani, dal 1860 in poi, abbandonano il Sud per far fortuna, soprattutto nelle Americhe.

Centinaia di spezzanesi che fino ad allora avevano l’attività di “bracciale”, “carrettiere”, “filatrice”, etc… sono costretti ad emigrare in Brasile, Argentina e USA raggiungendo coloro che vi si erano stabiliti già decenni prima.

Bisogna citare, a questo punto, un evento luttuoso: nel 1882 nel porto di La Spezia un bastimento carico di emigranti subì uno speronamento e nell’incidente persero la vita una decina di spezzanesi fra cui alcune copie di giovani sposi.

La giovane etnologa e viaggiatrice Caterina Pigorini nel 1871 descrive una Spezzano con strade sporche e polverose, abitata da vecchi e da donne che hanno i mariti all’estero, un paese in grave stato di abbandono, situazione che si accentua con l’apertura della tratta ferroviaria Sibari-Cosenza che fa diminuire il passaggio di viaggiatori e commercianti.

Ma nonostante ciò il paese va avanti, prospera con l’agricoltura e con rimesse che i numerosi emigranti mandano dall’America.

A fine secolo nel paese opera ancora qualche filanda mentre in periodo invernale 5 frantoi, di cui uno a vapore, producono un buon olio.

La scuola comunale riesce ad alfabetizzare quei pochi alunni che possono permettersi di comprarsi i libri mentre i giovani appartenenti al ceto agiato, dopo aver frequentato il liceo italoalbanese di S. Demetrio Corone, studiano a Napoli o Messina per poi rientrare nel proprio paese d’origine espletando soprattutto le professioni di medici o avvocati.

Eccellono in questo periodo il medico Dott. Agostino Ribecco di umili origini, gli avvocati Ferdinando Cassiani e Pasquale Cucci. Essi, inoltre, insieme ad altri intellettuali appartengono alla corrente culturale della Rilindja che mira alla liberazione dal giogo turco dell’antica patria, l’Albania.

Furono essi che diedero alle strade i nomi di Via Albania, Via Pireo, Via Ellena, Via Coronei ed essendo anche gli epigoni del Risorgimento non mancarono di dare anche i nomi di Via Plebiscito, Via Mazzini, Via Fratelli Bandiera,Via Manin, etc…

Nel paese circolano idee politiche rivoluzionarie diffuse dagli studenti universitari fra cui si distingue il giovane avv. Giovanni Rinaldi che fonderà poi la sezione del Partito socialista.

Anche la Massoneria fa la sua parte mandando nel consiglio comunale propri esponenti che cercheranno di togliere alla chiesa di S.M. delle Grazie il cosiddetto “orto”, ma a questo tentativo si opporrà il parroco d. Peppino Guaglianone, sacerdote molto battagliero.

A questi nel 1901 succederà il fratello, il coltissimo d. Ferdinando Guaglianone, gesuita e  prestigiosa firma di “Civiltà Cattolica”, che si prodigherà ad abbellire le chiese del paese.

Questo fermento politico e culturale getterà le basi della Spezzano Albanese del XX secolo di cui uno degli aspetti positivi sarà la costituzione della banda musicale che allieterà le ricorrenze locali e provinciali fino ad oltre la metà degli anni ’50.

 
 
 
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Un blog di: KARROS1957
Data di creazione: 22/03/2012
 

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