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Antonio Montanari

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1222, il Santo e la mula

Post n°19 pubblicato il 10 Febbraio 2022 da antoniomontanari
Foto di antoniomontanari

Caro Sant'Antonio, t'invito a sorvegliare questa pagina che voglio dedicare a te, aprendo la serie degli anniversari del presente anno 2022. Il quale sembra uscire dal tempo passato, da un lontano Medioevo, con il suo virus che gira per il mondo terrorizzando parecchio e facendo un po' andar fuori di testa (come al solito) gli spavaldi. I quali, credendo di sapere e capire tutto, alla fine rischiano di favorire la sua diffusione. È quello stesso Medioevo a cui tu appartieni, non tanto per le azioni compiute, quanto per le offese ricevute.
Hai parlato con i pesci, ed hai fatto inginocchiare una mula non tanto per dimostrare di saper fare miracoli, come si suol dire nel parlar comune, quanto per fare capire in giro che gli altri a cui ti potevi rivolgere, non stavano ad aspettarti perché non volevano ascoltarti.
Cercavi un colloquio con gli eretici, ma essi furono muti come i pesci, e sordi come non so chi, e così ti rivolgesti direttamente ai pesci. Il vero senso dei miracoli da te compiuti a Rimini sta nel principio fondamentale di ogni società civile, quello del dialogo, per cui nessuno può sottrarsi ad esso. Tu ci hai insegnato che senza dialogo la comunità sprofonda in quel sacco oscuro fatto di ignoranza, da intendere come mancanza di conoscenza, non semplicemente come assenza di quella buona educazione che è riassumibile nel diffuso detto dialettale di una volta, il quale sintetizza tutto in poche parole, "l'è un ignurent".
Anche ai tuoi tempi per gli "ignoranti" c'erano tutela e protezione, a ben leggere non soltanto i libri di Storia, ma pure episodi semplici come quelli accaduti a Rimini. Se una mula s'inginocchia, è perché la Natura in cui tutti siamo collocati (belli, brutti, saggi e poco sapienti) ha una forza che nasce nel momento della Creazione del Mondo, e che si ripete al momento della nostra nascita a quello stesso Mondo creato da Dio.
Tu sai bene che aprire una parentesi sugli eretici, vorrebbe dire occupare una pagina intera di giornale e portare via spazio al nostro appunto a te indirizzato. Dico appunto, perché non c'è spazio che per pochi accenni ad una complessa verità che rimanda a tutta l'Europa ed ai sistemi politici che la governavano. Anzitutto metto le mani avanti: nel Medioevo gli eretici li mandavano al rogo. Come ci insegna la storia francese di inizio Duecento.
Lasciamocelo spiegare da uno studioso, Samuel Sospetti, che all'Università di Bologna ha presentato nel 2013 un suo interessantissimo studio sul tema. I primi roghi di massa appaiono in Francia come esito di uno stato di guerra all'inizio del 1200. Non sono l'esito di processi per eresia: "Gli eretici beneficiavano di un'ampia tolleranza, potendo profittare anche della protezione di alcuni nobili, che volevano conservare tutta una serie di privilegi, che la Chiesa e la corona francese andavano via via limitando". Ci furono processi definiti sommari, e la gente veniva data alle fiamme con grande gaudio del popolo, come scrisse un cronista del tempo.
Precisa il nostro studioso che allora gli eretici beneficiavano di ampia tolleranza, "potendo profittare anche della protezione di alcuni nobili, che volevano conservare tutta una serie di privilegi, che la Chiesa e la corona francese andavano via via limitando". Ogni tentativo di persuasione pacifica e di ricerca di dialogo pubblico tra predicatori ed eretici, fu senza esito. Nel 1210 cominciano le esecuzioni di massa, "con grande gaudio" dice una fonte del tempo.

Quindi il gesto miracoloso di Antonio che a Rimini fa inginocchiare la mula, ha in sé qualcosa di straordinario: vuole dimostrare che le fede coinvolge tutto, il mondo degli uomini e la natura delle altre creature, in quanto gli uni e le altre derivano dallo stesso Padre.
A Rimini, nella piazza che un tempo era stata dedicata a Giulio Cesare e che poi fu intitolata ai Tre Martiri antifascisti (Mario Cappelli, Luigi Nicolò, Adelio Pagliarani) lì giustiziati il 16 agosto 1944, le memorie del passato lontano come quello del miracolo della mula si sono sempre accompagnate ad una partecipazione intensa dei suoi abitanti alle celebrazioni del 13 giugno. Ricordo i concerti bandistici diretti dal Maestro Antonio Di Jorio (1890-1981), insegnante di Musica, direttore della banda "Città di Rimini", per la quale mise fuori di tasca propria molti soldi, come mi raccontò sua figlia prof. Pasquina. E desidero non dimenticare una iniziativa che negli anni Sessanta avviò un cordiale frate del Convento, padre Pietro de Ruvo, ovvero la "Festa dei giornalisti riminesi". Alla celebrazione religiosa si accompagnava un felice e fraterno incontro a tavola, come documenta una foto del grande Davide Minghini, pubblicata da Andrea Montemaggi in un suo articolo apparso nel primo numero del 2016 della nota rivista "Ariminum".
Antonio Montanari

"il Ponte", Rimini, 13.02.2022, n. 6.

 
 
 

Quell'Amarcord che ci racconta dal 1973

Post n°18 pubblicato il 20 Gennaio 2022 da antoniomontanari

Rivedendo il film di Fellini mezzo secolo dopo
"il Ponte", 23.01.2022, n. 3: "50 anni di Amarcord"


Il 28 dicembre scorso la Rai ha riproposto sul primo canale il capolavoro felliniano di "Amarcord", uscito nel 1973. Rivederlo a quasi mezzo secolo di distanza, significa tante cose che ci fanno misurare la nostra capacità di registrare emozioni diverse. Allora cercavamo il riflesso nazionale di fatti locali, grazie alla genialità di un grande regista che raccontava la sua Rimini. Che era anche la città in cui vivevamo noi, e di cui conoscevamo per via famigliare tanti personaggi od episodi inseriti nella pellicola. Il film era il trionfo di un mito, la glorificazione di un personaggio. Ovvero del regista Fellini. E ciò ci rendeva felici ed orgogliosi.

Adesso, quasi 50 anni dopo, una rilettura attenta di quelle immagini ci obbliga a ripiegarci su noi stessi, sulle cose narrate od ascoltate, su certi accenni fatti nella vita di ogni giorno in cui le immagini del film rivivono talora con lo stesso sorriso dei personaggi che esse raccontano, e talora come richiamo all'autobiografia vera di quanti allora c'erano e poi hanno vissuto drammi, illusioni, speranze e delusioni nel corso del tempo.
Se nel 1973 tutto sembrava far sorridere o ridere anche nei momenti di maggior tensione o drammaticità, adesso certe scene ci aiutano a capire meglio il percorso della società italiana o certe vicende personali vissute da giovani come ribellione.
Il ricordo personale va a quel 1961, con il centenario dell'unità italiana vissuto a scuola, nelle Magistrali comunali che dovettero partecipare alle celebrazioni dello stesso centenario, organizzate dal Comune di Rimini, con una delega speciale al Maestro Antonio Di Jorio (1890-1981) che insegnava allora Musica nella nostra classe quarta e che doveva farci esibire davanti al pubblico ed alle autorità con il celebre "Va pensiero" verdiano.


Non avevo nessuna voglia di apparire come cantante o corista, e di rubare tempo allo studio per un esame finale di abilitazione, che si prevedeva complesso e difficile. Poi, sinceramente, ricordando i discorsi che si sentivano in casa od in giro, circa quello spirito patriottico che a forza di canti e sfilate era sfociato nella guerra di cui conservavamo in ogni casa continui dolori e richiami, non mi piaceva per nulla fare la bella statuita per obbedire agli indirizzi politici che, per quanto opposti a quelli che ci avevano portato sotto le bombe, erano sempre atti supremi ed indiscutibili del cosiddetto "Potere".
Durante la prova alzai non so se dire il tono o la nota, ma di sicuro feci una bellissima stecca, con quel passaggio delle ali dorate. Il maestro Di Iorio si fermò, mi guardò. Mi conosceva bene. Lui e mio padre avevano organizzato al Kursaal di Rimini per il ferragosto del 1936 quel Festival della canzone italiana che poi fu ricopiato da San Remo. Poi aprì dolcemente le labbra, per dirmi: "Montanari, vai fuori". Io ancor più dolcemente lo ringraziai. Avevo raggiunto il mio traguardo.
Con tutta la classe dovetti partecipare alla manifestazione comunale nel salone dell'Arengo, davanti a Sindaco, Consiglio comunale e pubblico. Le ragazze, quando ci fecero entrare in un salone prima di accedere all'Arengo, scoprirono che per accoglierci con spirito patriottico, erano stati preparati vari cabaret traboccanti di cioccolatini. Per dimostrare la loro soddisfazione politica, velocemente se li misero tutti nelle grandi tasche dei loro grembiuli neri.
Si preparò il corteo per andare davanti al pubblico. Tra i maschi il più alto ero io: il maestro Di Iorio mi chiamò per reggere la bandiera tricolore durante tutto il concerto.
La Patria era colei che faceva obbedire. Quelli della generazione precedente li aveva fatti anche combattere e lasciarci le penne. Questo non mi piaceva, e mi faceva stare lontano da chi voleva un potere forte che già in passato aveva guastato tutto.
Vedere "Amarcord" nel 1973, significava leggere il nostro presente uscito dalle tragedie volute dal fascismo, come una tranquilla situazione priva di ogni pericolo; e poter rileggere quel passato in chiave comica come le sfilate o certi riti politici presenti nel film.

Adesso rivedere quel film è qualcosa di diverso. Ci chiediamo più cose, non ci chiamiamo fuori come spettatori venuti da lontano, ci sentiamo coinvolti più direttamente, anche se nessuno in casa o in famiglia ha fatto mai nulla di male. Ci chiediamo quale peso può avere avuto il senso della sopravvivenza in tutta la famiglia, con quella camicia nera di mio padre divenuta poi grembiule del sottoscritto in prima elementare, per non spendere soldi che non c'erano.
I ricordi di quella camicia furono oscurati da altri fatti. Avevo pochi mesi quando all'inizio del 1943 il fratello di mia madre, Guido Nozzoli, fu arrestato a Bologna per attività sovversiva mediante distribuzione di volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere", e possesso di libri proibiti dal regime tra cui il "Tallone di ferro" di London o "La madre" di Gor'kij, peraltro venduti anche sulle bancarelle. Mia madre ricordava la perquisizione fatta dalla polizia in casa nostra, nel palazzo Lettimi di via Tempio Malatestiano.
Guido Nozzoli racconterà di essere stato "venduto" da un conoscente laureato in legge, "che si dichiarava fervente antifascista ed era, invece, uno dei tanti informatori dell'O.V.R.A., l'insidiosissima polizia segreta "inventata" dal prefetto Arturo Bocchini. Io non ho mai denunciato il provocatore che poté concludere tranquillamente la sua carriera. Dopo la liberazione, tra i documenti recuperati all'Ufficio Politico della Questura dai partigiani forlivesi, c'era anche la ricevuta del compenso intascato dal nostro delatore; la duplice spiata gli aveva fruttato 300 lire. A peso, eravamo stati valutati a un prezzo di molto inferiore a quello della carne da brodo".
Antonio Montanari

 
 
 

Guido Nozzoli salvò San Marino dalle bombe alleate

Post n°17 pubblicato il 25 Dicembre 2021 da antoniomontanari

Guido Nozzoli,
così salvò San Marino dal bombardamento alleato

Anni Trenta, favolosi e tragici [*]
La guida turistica di Rimini curata da Luigi Gravina esce nel 1933, ultimo dei quattro anni in cui Pietro Palloni (1876-1956) è podestà, e mentre si sta realizzando (1932-35) il maestoso lungomare dal porto a piazza Tripoli. Palloni l'ha voluto per competere con la «passeggiata degli Inglesi» a Nizza. Gravina elogia «gli splendori del lido» introducendo i lettori alla vita della Marina, che per «comodità dei forestieri» precede la descrizione della città.
Il primo stabilimento balneare di Rimini è inaugurato nel 1843. Nel 1868 la sua gestione passa al Comune (fino al 1904). Lo scarso numero di frequentatori per mancanza di infrastrutture alberghiere e d'intrattenimento, non riesce a coprire le spese. Nel 1873 apre il Kursaal: «il primo di tutta Italia», lo definisce il celebre igienista Paolo Mantegazza che ne è direttore. Nel 1876 nasce l'Idroterapico. Sarà demolito nel 1929. Nel 1878 il sindaco conte Ruggero Baldini inutilmente cerca di convincere alcuni investitori milanesi ad accettare la gestione privata dello stabilimento balneare. Baldini non ha fatto buoni affari con il turismo, ha dovuto vendere all'asta anche la casa natale. Dal 1885 ai nobili ed ai ricchi borghesi il Comune inizia a cedere gratuitamente od a basso prezzo, appezzamenti e tratti di spiaggia acquistati dallo Stato. Nel 1908 apre il Grand Hotel. Il Comune lo acquista nel 1931.
Il 16 agosto 1916 il terremoto provoca gravi danni alla città, per cui sono demoliti 615 fabbricati. Una sventura peggiore al foglio cattolico «L'Ausa» appare la «Società dei bagni». Fallita nel 1912, essa ritorna nel 1926 in gestione al Municipio dopo oltre quattro anni di trattative. Dal 1917 la spiaggia, da Riccione a Bellaria, è data in concessione al Comune. Nel 1921 l'amministrazione di Rimini ha debiti per 17 milioni di lire con seri ed onerosi problemi sociali da risolvere, e poco credito presso le banche. Il Comune ha creato la nuova industria turistica, i privati si sono dedicati all'edilizia. Le perdite sono state municipalizzate e le rendite promosse. Molti contadini scendono dalle campagne al mare, attirati dalla «monocultura balneare» che trionfa nel Novecento, come Giorgio Conti ha spiegato in pagine fondamentali per la storia della città. Dal 1929 si vola a Milano. Nel 1932 è inaugurata la ferrovia per San Marino. Il duce ha insignito Rimini d'una etichetta rimasta celebre: «Scarto delle Marche e rifiuto della Romagna».
La Rimini tra le due guerre mondiali, ha scritto Guido Nozzoli, era una cittadina provinciale in cui «l'unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare 'di Palloni'. [...] Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell'800».
Nel 1930 Rimini ospita 48.315 turisti. Nel 1934 sono 66.231 (+37%). Gli stranieri raddoppiano da 1.561 a 3.402. Nel «Corriere del Mare» del Ferragosto 1930, Valfredo Montanari (capo ufficio dell'Azienda di Soggiorno) scrive: «... abbiamo vissuto momenti di aspirazioni infinite. [...] La valorizzazione industriale della Riviera Riminese non è impresa di facile compimento». Per il ferragosto del 1936, quello delle picconate di Mussolini per l'isolamento dell'arco d'Augusto, al Kursaal si organizza il primo festival della canzone italiana. «Il vero successo si ottenne l'anno successivo», racconta nel 1962 Valfredo Montanari a Gianni Bezzi de «il Resto del Carlino»: «Il 5 agosto 1937 cinquemila persone affollarono il parco del Kursaal» che non era soltanto «il più raffinato edificio della città» ma anche uno dei 'personaggi' che «diedero la loro impronta, la loro voce, il loro spirito alla storia di una marina che accolse gente di ogni Paese».
Alla fine dell'agosto 1939 il cinegiornale Luce n. 1571 presenta la «gaia, spensierata, salubre vita balneare di grandi e piccini» sulla nostra spiaggia. Dal primo luglio la filovia Rimini-Riccione ha sostituito la tramvia elettrica del 1921. A Miramare fa scalo la linea aerea Praga-Roma.
Sabato 2 settembre 1939 «il Popolo d'Italia» annuncia: «L'Italia con le armi al piede». Il resto lo sappiamo. La gente scappa dalla «città morta». Rimini è distrutta dai bombardamenti tra primo novembre 1943 e 21 settembre 1944. La Repubblica di San Marino diventa uno «sterminato rifugio», come dichiarò a Bruno Ghigi il giornalista Guido Nozzoli. Che il 19 settembre 1944, mentre si combatte per la presa di Borgo Maggiore, riesce a passare le linee ad Acquaviva giocando il cane di famiglia, Garbì. Deve contattare ufficiali dell'Ottava Armata che stanno preparando la "seconda Cassino". Si consegna loro prigioniero e li informa della «drammatica situazione dei civili rintanati nelle gallerie». Il comando inglese rinuncia così «al bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima». Il Titano è salvo con gli oltre centomila rifugiati italiani. Nozzoli, allora sottotenente del Regio Esercito, scrive in un documento ufficiale (edito da Liliano Faenza nel 1994): «Assicurai l'assoluta assenza di batterie tedesche nel perimetro della città».
La guida di Luigi Gravina si apre con tre brevi citazioni. Palloni ammonisce: Rimini non deve rivolgersi indietro ma «guardare al futuro». Ci sono versi bucolici del medico concittadino Domenico Bilancioni (1841-1884). Lo storico Giovanni Maioli definisce la città «antica e moderna, di sogno e di vita».
Bilancioni, ex garibaldino e carducciano in poesia, fu tra i ventotto dirigenti repubblicani arrestati il 2 agosto 1874 a Rimini, sul colle di Covignano, nella villa dell'industriale Ercole Ruffi. Del gruppo faceva parte l'anarchico Domenico Francolini (1850-1926), marito di Costanza Lettimi e legato da fraterna amicizia a Giovanni Pascoli.
Il riminese Giovanni Maioli (1893-1961) diresse a Bologna il Museo del Risorgimento. A questo periodo storico egli ha dedicato centinaia di articoli e saggi, recando «il contributo di fonti ignorate o malnote, esaminate ed approfondite», come osserva Antonio Mambelli nell'orazione pronunciata a Rimini il 2 giugno 1962 durante il XIII convegno degli Studi Romagnoli.

[*] Questo testo è la presentazione alla ristampa anastatica (ed. Bruno Ghigi, Rimini 2008) della guida di Rimini di Luigi Gravina apparsa nel 1933.

 
 
 

Il bibliotecario Massèra letto da Maria Cecilia Antoni

Post n°14 pubblicato il 05 Luglio 2020 da antoniomontanari

Il bibliotecario Massèra, cultura in Gambalunga
Un prezioso saggio di Maria Cecilia Antoni svela una figura storica

"il Ponte", Rimini, n. 26, 5.7.2020

Aldo Francesco Massèra (1883-1928) nel 1905 vince il concorso come docente al Ginnasio superiore di Rimini che si trova nel palazzo Gambalunga. Dove c'è anche l'Istituto Tecnico Roberto Valturio, nel quale Massèra si trasferisce nel 1906. Due anni dopo è nominato reggente temporaneo della Civica Biblioteca Gambalunga, succedendo agli illustri Luigi (1807-1874) e Carlo Tonini (1835-1907), padre e figlio. Massèra scompare a 45 anni. Gli subentra Carlo Lucchesi (1881-1959), dal 1929 al 1952. Dall'andito del Palazzo Gambalunga si accedeva ai locali della Biblioteca. Nel 1928 Massèra pubblica un articolo intitolato "Il risorgimento della Gambalunga": "Essa attende nella sua sede il pubblico che sa e vuole studiare".
Leggiamo queste notizie nel prezioso saggio "Carte e libri di Massèra, studioso e bibliotecario, nella Biblioteca Gambalunga di Rimini" che la studiosa riminese e bibliotecaria gambalunghiana Maria Cecilia Antoni ha composto per un volume apparso nel 2018, in cui sono ospitati complessivamente diciannove testi. Alla Antoni, nello stesso volume, si deve pure il prezioso inventario delle "Carte Massèra", preziosa fonte per studi e ricerche sulla cultura riminese.
Il saggio della Antoni illumina sulla formazione di uno studioso e la sua conseguente applicazione alla cultura nella vita cosiddetta pratica, mostrando grande cura per lo studio della Storia e della vita intellettuale cittadina.
Massèra nel 1909, sul foglio riminese "il Momento", attacca duramente il "buon Carlo Tonini" per non aver fatto nulla per esplorare certi argomenti malatestiani studiati dai fratelli settecenteschi Francesco Gaetano (1753-1810) ed Angelo Battaglini (1759-1842, canonico e primo conservatore della Biblioteca Vaticana).
Quel "buon Carlo Tonini", leggiamo in Antoni, alludeva allo scarso valore di studioso del figlio di Luigi Tonini, peraltro autore di un ampio volume in due tomi, "La Coltura letteraria e scientifica in Rimini" (1884). Da antico frequentatore di questo famoso testo, mi permetto sostenere che avesse ragione Massèra nell'esprimere quel giudizio.
Un ricordo personale legato alla Biblioteca Gambalunga: il 13 maggio 1938, mio padre Valfredo Montanari fu nominato Vice Bibliotecario Capo Sezione. Più indietro negli anni, un antenato di mia madre Maddalena Nozzoli fu Bibliotecario gambalunghiano: era Ignazio Vanzi, vissuto tra 1667 e 1715 ed attivo in quel servizio tra 1711 e lo stesso 1715.
Antonio Montanari


Anche i libri ci parlano.
Il bibliotecario Massèra in Gambalunga (1908-28)
 


Un saggio di Maria Cecilia Antoni, Il tesoro di carta del Fondo Gambetti. - "il Ponte", settimanale, n. 01, 06.01.2013


 
 
 

1519, Ebrei e Rimini

Post n°13 pubblicato il 06 Febbraio 2019 da antoniomontanari

Nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio», sono ripetuti gli ordini del segno distintivo impartiti il 13 aprile 1515.
Quel giorno il Consiglio generale ha approvato all’unanimità l’adozione di tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandire gli Israeliti; far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi; ed infine stabilire «che nell’avvenire volendo detti Ebrei continuare l’habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla».
Per le donne il successivo 28 aprile è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte, facendo loro nel contempo divieto di porre sul capo i mantelli secondo (aggiungiamo noi) l’usanza comune della nostra popolazione di sesso femminile.
Gli Ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta ed alla benda gialle (secondo il sesso), ma di recare semplicemente un segnale sul mantello. (Il precedente più antico risale al 1432 quando Galeotto Roberto Malatesti aveva ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che introduceva per loro il «segno» di distinzione obbligatorio.) La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città».
I tre punti del 13 aprile 1515 hanno una premessa di tutti rispetto negli atti del Consiglio generale, che è però dimenticata dagli storici (Clementini prima e Carlo Tonini poi). In tale premessa si dice che gli Ebrei erano visti in città come «inimici».
Carlo Tonini, nel riferire i provvedimenti del 13 aprile 1515, premette che «la città era in tumulto per cagione degli Ebrei». Riferisce che «fu proposto di sbandeggiarli, quali nemici della religione e promotori di scandali nel popolo», chiedendone licenza al pontefice. Conclude che «in causa di questo tumulto fu fatto venire un numero di cavalli di lieve armatura», la cui spesa «volevasi fosse fatta pagare agli Ebrei, alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi».
Il passo di Clementini sui soldati «condotti, e trattenuti per guardia degli Ebrei», ha portato Carlo Tonini a scrivere di un «tumulto per cagione degli Ebrei» (del quale non c’è traccia nel testo di Clementini). Tonini aggiunge che i militi erano stati chiamati in città a «difesa» degli Israeliti, e quindi da considerarsi a loro carico. Clementini aveva parlato di «guardia», termine il quale oltre che difesa (di una parte lesa) può significare anche controllo (e repressione di facinorosi…).
Se il passo di Tonini sul «tumulto per cagione degli Ebrei» significa che erano stati essi a provocare una sommossa, tale affermazione non ha nessun legame logico con quella successiva, relativa all’intervento di truppa forestiera per proteggerli («alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi»).
Questo controsenso non ci sarebbe nella peggiore delle ipotesi, che cioè quel «per cagione degli Ebrei» significasse che la loro sola presenza in città (che li considerava «nemici») aveva provocato una rivolta popolare arginata dall’autorità manu militari per salvaguardare l’ordine pubblico.
Nel 1548, Rimini anticipa il ghetto ebraico, poi istituito da papa Paolo IV il 17 luglio 1555.


1. Storia degli Ebrei a Rimini.
2. Rimini e gli Ebrei, archivio.

Antonio Montanari

 
 
 
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