Creato da bellicapellidgl3 il 19/11/2014

Pettino Pensieri

Oggi è un giorno perfetto per volare

 

Uomini

Post n°32 pubblicato il 05 Maggio 2016 da bellicapellidgl3

 

 

 

Stamattina un pick up parcheggiato in doppia fila, in tutta la sua arroganza, mi impediva di uscire dal mio parcheggio. Il conducente era lì a fumarsi beatamente una sigaretta.

 Ora io dico: che ti costa scansarti?

Invece mi chiede, con uno sguardo da babbeo:"Je la fa?"
E mentre soppeso la risposta, valutando lo spazio risicato che mi ha lasciato, aggiunge:

"Vabbè, se eri omo je la facevi".

 Io penso all'istante:"No, se ero omo TE MENAVO".

Allora accendo il motore e a me, proprietaria di una macchina che non so più quanti bozzi abbia (ciascuno identificato dall'anno in cui è stato creato), guidatrice di GRA, con patente di tipo G (come gincana), mi passa tutta la mia scuola guida davanti e, con un controsterzo da urlo, esco elegantemente da quel buco.
(Anche se una botta al pick up non ci sarebbe stata male).

 Ora io vorrei dire solo una cosa al babbeo/maschilista/autosessista:
" TIE'!!!"

 

 
 
 

Pippe-mentali-Day

Post n°31 pubblicato il 26 Aprile 2016 da bellicapellidgl3

 

Non c’è molto da fare.

Ci sono persone che perdiamo e basta.
E non sto parlando di perdite nefaste che noi non possiamo controllare. Parlo di persone che abbiamo coltivato, con cui siamo stati in osmosi vera, scambiando sfumature di pensieri (nemmeno solo pensieri), stati d’animo, persone viscerali con cui abbiamo condiviso atmosfere, opinioni  e farfalle nello stomaco.

E non venitemi a dire che dipende tutto da noi, sono idiozie.

Possiamo credere fortemente di volerci tenere le persone che abbiamo avuto la fortuna di incrociare nella nostra esistenza, ma le persone si perdono e noi non possiamo proprio far nulla.
Scompaiono dalla nostra quotidianità, dai nostri pensieri al risveglio. Non sappiamo più se sono preoccupati, se ridono spesso, ci dimentichiamo persino com’è vederli ridere.

E questo mi fa imbestialire.
E mi rende malinconica.
E anche umanamente un fallimento.
Sì certo, ci sono quelli che restano, quelli che continui a viverti, ma anche una sola persona che perdo, lo considero un fallimento.

Oggi sono pervasa di malinconia e di un senso di effimero che non riesco a scacciare.

Quanto sono veri i rapporti che creiamo e quanto invece ci sembrano tali mentre li stiamo vivendo?

Quanto pesano i sentimenti nel mantenere i legàmi? O forse non erano sentimenti?

Forse è il pippe-mentali-day.

Forse.

 
 
 

Girotondo di emozioni

Post n°30 pubblicato il 23 Febbraio 2016 da bellicapellidgl3

 

Non sono un animale solitario.

La mia vita è stata costellata di persone di molti tipi, come quella di tutti, forse o forse no.

Quello che so è che mi sono sempre soffermata con attenzione su chi mi passava accanto, coloro che mi circondano oggi sono passati da un setaccio emotivo che ha dato loro un posto esclusivo dentro di me. Persone incrociate anche mille anni fa, quando portavo le trecce che mi faceva mia nonna.
Persone scoperte pochi anni fa, ma che so che lì resteranno per tutti gli anni a venire.
Perché per me, chiunque passi attraverso  quel setaccio emotivo, conserva quel posto per sempre, non c’è possibilità che qualcosa che faccia o che dica lo scacci via per farlo tornare indietro nel mondo degli sconosciuti.

E queste persone si somigliano un po’ tutte tra loro, hanno lo stesso modo di filtrare la realtà, le stesse unità di misura per pesare le emozioni, la stessa limpidezza e immediatezza nel comunicare.

Oggi so che non voglio più esplorare persone in cui la razionalità guida maestosa ogni loro scelta, c’è qualcosa in loro che mi fa paura. Chi pensa che l’affettività si dimostri solo con “il fare”.
Le più belle parole sono i fatti, certo.
Ma l’affettività si dimostra anche con “il dire”, esistono parole che sfondano qualunque barriera, gesti che possono consolare, domande che possono farci sentire abbracciati.
Non voglio più intorno chi pensa con i numeri, calcola, sottrae e divide.
Voglio la bellezza dell’onda emozionale, fosse anche quella che mi sbatte contro gli scogli. Chi non ha costruito filtri ingegnosi per decodificare le azioni degli altri, facendo passare tutto da un sillogismo matematico.

Voglio V. che si avvicina quatta, si accovaccia sulle ginocchia in gran segreto, una posizione che è in grado di mantenere per ore solo lei sa come, e furtiva mi regala un braccialetto, anche se non è il mio compleanno.

 Voglio A. che mi telefona dall’altra parte del mondo nel cuore della notte perché le mancano le nostre risate mentre mi sistemava le sopracciglia. E che mi dice “Mi manchi”, così, semplicemente.

Voglio M. che sembra abbia sempre questa distanza da tutti, dietro i suoi occhiali da sole, però le vedo le lacrime quando mi dice “Non posso vivere con te arrabbiata con me”.

Voglio F. che non vedo da due anni, lontana solo nello spazio, ma di cui conosco ogni sfumatura della voce quando mi chiama tutte le mattine mentre vado al lavoro e tutti i giorni vuole sapere come sto, perché, quando eravamo alte non più di un metro, abbiamo condiviso lo stesso foglio su cui facevamo disegni a quattro mani.

Voglio G. che è eternamente “impicciato” quando lo chiamo, però dopo due ore mi scrive che mi vuole bene.

E anche M., nelle nostre telefonate chilometriche, a parlare di libri, di insoddisfazioni, di figli, di mancanze e di poesie di Pascoli appena scoperte.  

Li ho coltivati, nel tempo, con dedizione.
 E oggi siamo questi e questi resteremo.
Lo so con assoluta certezza, perché sono dentro questo mio recinto affettivo dove onestamente non so quanto sia facile o difficile entrare, ma da cui non permetto di uscire.  

Sono il mio girotondo di emozioni.

 
 
 

Essere un medico

Post n°29 pubblicato il 19 Gennaio 2016 da bellicapellidgl3

 

Puoi fare il medico e puoi essere un medico.
Le due cose non sono necessariamente coincidenti.
Puoi essere un medico colto, un uomo di scienza appassionato, avere intuito clinico ed essere sempre aggiornato sull’ultimo lavoro pubblicato in letteratura.

Eppure non basta.

Ho imparato che per essere un medico devi saper ascoltare con attenzione il malato che ti parla, dedicargli la tua massima attenzione, a dispetto delle trenta persone fuori che aspettano, perché quello è il suo momento e lui si sta affidando a te, totalmente, e tu hai un potere enorme: puoi cambiare la sua vita.


Non è una missione, è un lavoro.
Ma non venitemi a dire che è un lavoro come un altro, perché hai in mano la qualità della vita di un uomo.
Siamo schiacciati dalla routine, dalle richieste, dalla burocrazia, dalle lamentele di chi sta aspettando fuori dalla porta. Eppure io cerco sempre di ricordarmi che quel signore sdraiato sul lettino, con la sua sciarpa rossa e la cartellina piena di esami ordinati con cura, stamattina si è alzato all’alba, è arrivato qui carico di aspettativa e di ansia, si è seduto paziente in sala d’attesa per aspettare me e vuole risposte, soluzioni. Vuole aiuto. Ed ora mi parla e io devo ascoltarlo, non tralasciare nulla, devo pensare.
Non posso permettermi di sentirmi stanca.
Non posso sentirmi schiacciata dalla mole di lavoro che ho.
Lui sta mettendo il suo dolore nelle mie mani perché io lo annienti. Siamo una squadra con un nemico comune e non posso permettermi di sottovalutare nulla.

Non posso permettermi di emozionarmi per la signora che mi parla di un figlio terminale e schizofrenico lasciato a casa, da solo, chiuso a chiave, perché non ha nessuno ad accudirlo mentre lei viene da me a cercare soluzioni.
Non posso contaminare la mia lucidità con la tenerezza per quest’uomo che mi parla col suo vestito buono e una collana al collo con la foto della moglie che ha perso. Però riesco a “sentirli”. Sentire le loro vite faticose. Questo mi permette di “essere” il medico che sono.
E so che loro sentono me. Sentono che per me, in quel momento dedicato solo a loro, conta più di ogni altra cosa essere di aiuto. Questo mi fa tornare a casa appagata e grata.

A diciotto anni nessuno sa davvero cosa voglia fare da grande. Non puoi saperlo. E non lo sapevo nemmeno io. Non avevo una passione per la medicina, svenivo persino quando mi facevano un prelievo.
Però ricordo che mi posi una domanda:

” Cosa mi renderebbe appagata? Quale aspetto di una professione qualunque mi farebbe sentire soddisfatta?”

E sapevo bene la risposta: sentirmi utile a qualcuno.
Per questo oggi sono qui e quella domanda è sempre attuale, quella risposta sempre la stessa, nonostante io non sia più quella ragazzina di allora, per molti aspetti.

E loro mi restituiscono tutte le notti che ho passato a studiare invece di andare in discoteca, le mie rinunce, le corse in questa vita incastrata dagli orari, le ansie di parlare in una lingua che non è la mia di fronte a un pubblico internazionale.

Il signore che col cellulare mi scatta foto mentre lo visito e mi riempie di tenerezza.

“Che fa? Mi fotografa?”
“Voglio ricordarmi per sempre la sua faccia perché lei mi ha salvato” .
Riescono ancora a destabilizzarmi, ma solo per qualche istante.
“Beh allora facciamocela insieme la foto, che dice?”

E quel ragazzo rumeno ieri, con quello sguardo perso, ormai troppo abituato alla diffidenza altrui.
“Non ho soldi per pagare questo esame”.
Prendo il telefono, chiedo favori, credo che spetti a me fare in modo che anche lui abbia il diritto di curarsi. Poi prendo una busta, la riempio di cose che gli costerebbero una fortuna in farmacia. E’ un po’ come un furto, penso. Ma la sua espressione colma di stupore quando gli porgo la busta, vale più di tutto.
“Ti porto cioccolata dalla Romania”
“Mi basterebbe che ritorni guarito”
Lui ha lo sguardo di chi ha dimenticato come ci si senta quando qualcuno fa qualcosa per te, mi fissa, incredulo.
Poi fa un piccolo inchino.

“Grazie” dice.

E quel grazie mi fa compagnia per tutto il giorno. E mi fa cantare in macchina tornando a casa.

 

 
 
 

Mascara

Post n°28 pubblicato il 18 Dicembre 2015 da bellicapellidgl3

 

Mi sono svegliata stamattina, piena di cose da fare. Non ho mai ansia quando devo parlare in pubblico: il mio primo istinto, quando mi trovo davanti a quel microfono, il primordiale istinto, sarebbe quello di mettermi a cantare, stupire tutti, lasciarli sbigottiti .
Perché sarebbe evidente che sono completamente fuori di testa.
Mi diverte lo sbigottimento altrui.

Ma non potrei mai farlo, sono troppo dentro al mio ruolo, ho impiegato troppi anni per costruirlo, non potrei mai screditarlo per lo sbigottimento altrui.

Non ho ansia, però mi piace presentarmi al meglio: mi fa sentire viva, energica, mi fa muovere con disinvoltura avere i capelli che vorrei, le mie scarpe preferite, la borsa che ho comprato con Anna, il vestito che meglio mi rispecchia.

Quindi alle nove sono dal parrucchiere, uno nuovo, da dove miracolosamente esco soddisfatta. Mentre corro a recuperare la macchina, valuto che mi capita con una ciclicità di cinque anni ( di uscire soddisfatta).

Passo da una grande farmacia, senza pensarci entro, voglio sperimentare un nuovo mascara. Ho gli occhi delicati, non posso scegliere tra una vasta gamma.

“Water proof? Allungante? Le vuole più fitte o più lunghe?” 

“Ehm..fitte e lunghe non si può?”

E lì mi assale un ricordo da lontano, ma da molto lontano.
Un ricordo che davvero non sapevo di custodire, che non è emerso per anni.
Che regalo che è stato… Mi ha restituito un pezzo della mia vita che non sapevo mi fosse stato sottratto per tutti questi anni.

La mia gita di terza media. Tredici anni.

Il mio primo mascara.

In una stanzetta di albergo, piena di un vociare rumoroso, eccitazione, aspettativa, vestiti sui letti: ci preparavamo per la cena e io avevo come lo stomaco sfarfallante. Ma che cavolo è ‘sto sfarfallare?
E a quel punto prese forma l’emozione, mi è tornata alla gola con una intensità e una nitidezza che mi sembrava di avere tredici anni in quella farmacia.

Avevo una cotta per lui.

E lui aveva una cotta (lacerante e non corrisposta) per la mia amica Maria.

Le farfalle svolazzavano impazzite, battendo contro le pareti del mio stomaco.

Allora ho messo per la prima volta in vita mia il mascara e la sensazione è stata quella di un incantesimo.
Se fosse venuta la fata di Cenerentola, non mi sarei potuta sentire diversamente. E’ stato come se i miei occhi si fossero trasformati, diventati giganteschi, bellissimi (almeno, così li vedevo io).
Mi sono scollata dallo specchio, camminavo lungo i corridoi con un sorriso ebete sul viso, perché mi sembrava di percepire ogni volta che sbattevo le ciglia.
Mi sembrava addirittura di sentirne il rumore: flap flap.

Forse quel giorno, lontano e sepolto nella mia memoria, sono arrivate le farfalle e la bambina non era più una bambina.

Che poi il produttore di farfalle nulla volesse avere a che fare col la ragazza dalle ciglia magiche, poco importa.

Mi sono chiesta, in quella farmacia, se oggi una ragazza di tredici anni possa provare simili sensazioni mettendo un mascara.
E ho provato una profonda tenerezza verso quella bambina farfallosa.
E ostinata.
E intimamente fedele alle emozioni.

Anche se non corrisposte.

 
 
 
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