Creato da deandreando il 27/02/2007

Deandreando

La dimensione religiosa nelle canzoni di Fabrizio De Andrè, Ettore Cannas

 

 

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Post n°129 pubblicato il 03 Dicembre 2012 da deandreando

Home Culture Cultura "Nascosto al giorno" in scena ad Asibiri. Milena Agus: "L'ho portato tra i banchi di scuola"
"NASCOSTO AL GIORNO" IN SCENA AD ASIBIRI. MILENA AGUS: "L'HO PORTATO TRA I BANCHI DI SCUOLA"
Creato Domenica, 02 Dicembre 2012 12:00

Uno spettacolo insolito, in un luogo insolito. Asibiri diventa (anche) spazio teatrale e lo fa con una piece piccola piccola, leggera. Un racconto che arriva dal sud del mondo. Dedicato ai più distratti. A quelli che, di solito, non si sentono coinvolti. A quelli che, spesso, fanno finta di non sapere. Che tanto domani è un altro giorno. Che tanto, domani, si vedrà. Uno spettacolo che racconta la storia di un giovane pastore marocchino, che per amore lascia la sua terra, arriva in Italia, conosce umiliazioni e stenti, in una casa che non è più una casa, un lavoro che non è più un lavoro. La solita storia, appunto. Quella che ogni giorno, sulle strade, sotto i portici, lungo le spiagge della nostra città, facciamo finta di non vedere.

"Nascosto al giorno" è il racconto firmato dallo scrittore e insegnante Ettore Cannas, e da cui la piece prende il nome: cinquanta minuti ad alto tasso emotivo, con un attore in scena, Gerardo Ferrara, e i paesaggi visivi e sonori rispettivamente di Giorgio e Maurizio Serra. Un monologo che punta dritta al cuore e mira a confondere le mappe emotive dei nostri pregiudizi. Con un finale a lieto fine, come nella tradizione della collana editoriale Tiligù, che pubblica il testo, e curata da Marco Alberto Desogus, ideatore dell'evento.

Un libro che Milena Augus, scrittrice e collega di Ettore Cannas, ha scelto di portare sui banchi di scuola. "E' un testo che ben si adatta ai ragazzi, perché entra in empatia con le loro sensibilità. Kurdin, il giovane protagonista clandestino, che si nasconde al giorno, che abbandona il suo paese per un sogno, è una figura che non si può non amare. Un giovane uomo che sceglie le vie del cuore e che nonostante incontri un destino di sangue e vergogna, non si stanca. Di continuare ad avere fiducia in se stesso. E di nutrirsi del mondo". (Giovedì 6 dicembre, ore 19.30, Associazione Asibiri, via San Saturnino 7, regia di Stefano Melis, illustrazioni di Mario Soddu).

Donatella Percivale

 

 

 
 
 

NASCOSTO AL GIORNO

Post n°126 pubblicato il 12 Giugno 2012 da deandreando
Foto di deandreando

Mercoledì 20 giugno 2012, ore 21,00
Giardino della Biblioteca Comunale – Dolianova
Martedì 26 giugno 2012, ore 21,00
Spazio Santa Croce, Via Santa Croce, 47 – Cagliari
Tiligù presenta
Nascosto al
giorno
di Ettore Cannas
Narrazione per immagini sonore
con Gerardo Ferrara e  Maurizio Serra
elaborazione testi di Gerardo Ferrara
paesaggi visivi a cura di Giorgio Serra
paesaggi sonori a cura di Maurizio Serra
regia di Stefano Melis
illustrazioni di Mario Soddu

 
 
 

Naguib Mahfouz

Post n°125 pubblicato il 31 Agosto 2011 da deandreando

 
 
 

Beniamino Cannas al processo Rostagno

Post n°124 pubblicato il 24 Aprile 2011 da deandreando

         Egregio Direttore (Giornale di Sicilia), con riferimento agli articoli da Voi pubblicati concernenti le deposizioni del testimone (non imputato) luogotenente Beniamino Cannas, afferenti al processo Rostagno, a firma del giornalista Gianfranco Criscenti,vorrei poter esprimere qualche riflessione. Nel fare ciò, essendo fratello del sottufficiale in questione, consapevole di poter apparire uno scrivente di parte, voglio preliminarmente circoscrivere il perimetro comunicativo all’interno del quale intendo muovermi.

A prova del fatto che ciò che scriverò non sarà strumentale (né a difesa né contro qualcuno, semmai, a favore o contro qualcosa), virgoletterò, omettendo di citare me stesso, ciò che si trova in un capitoletto dedicato al linguaggio nella duplice polarità di parola e scrittura, nel saggio, La dimensione religiosa nelle canzoni di Fabrizio De André (Segno, 2006), così da dare la possibilità di distinguere i miei pensieri pregressi, virgolettati, da quelli opportunamente formulati, sottolineati.

“Ogni atto linguistico ha un duplice e inseparabile aspetto: l’esigenza di manifestare un’emozione, sentimento, pensiero e la necessità di riuscire a farci intendere dal nostro interlocutore. Può succedere allora che parole[…] che percepiamo come insufficienti, imperfette ad esprimere la realtà cui si riferiscono”, risultino “tuttavia in grado, nell’assenza di ponderazione, di emettere categorici giudizi. Si generano, così, classificazioni semplificate, stereotipi, nel tentativo di rendere più semplici le cose[…]. Da qui la necessità di definire gli usi che facciamo delle parole. R.M.Pirsig, nel suo famoso romanzo, Lo zen e l’arte della manutenzione… afferma che il giudizio è minacciato da una trappola, la trappola della logica sì-no, e Massimo Baldini, in uno studio specifico, compone un elenco costituito da 12 errori da evitare. Anche qui troviamo la grossolana applicazione della logica a due valori che è come dire se un avvenimento non è nero allora è bianco, senza possibilità di sfumature. Particolarmente attiva è la trappola rappresentata dall’impropria estrapolazione”.

Dopo questa generale e sintetica premessa sul linguaggio “Vorrei introdurmi alla parola scritta, compiendo una piccola digressione: cosa c’è, da un punto di vista fenomenologico, prima della parola? La risposta immediata è niente. O, per meglio dire, il silenzio, l’assenza del suono, la pagina vuota. Allora il silenzio è lo scenario a partire dal quale la parola prende forma? Ma cosa vuol dire silenzio? Vi sono culture, filosofie e religioni che vedono il silenzio carico di Altro messaggio, non sinonimo di niente! Dio crea con la parola, essa è ordinatrice, causa ed effetto… Il silenzio, come tutta la creazione, è toccato da quella parola divenendone custode anch’esso. La parola degli uomini in quanto espressione di sé è imprecisa, precaria, epifania del nostro limite. La parola scritta, all’interno di questo quadro, sembra denunciare proprio lo scarto, la minima somiglianza e massima differenza, che intercorre fra le due parole, Divina e umana. Essa tenta di impegnarsi di più, di penetrare di più, di immergersi in quel silenzio per riportare in superficie frammenti di verità fondale. La parola, se autentica, genuina, se ha consapevolezza di sé, ha la responsabilità di ciò che produce e delle modificazioni che genera. Così il Silenzio può essere rispettato, profanato o svelato. Scrivere vuol dire essere disposti a riflettere di più, obbligati ad esprimere con determinazione e chiarezza i propri pensieri, e ciò comporta una maggiore coscienza di sé [...]. Secondo Barthes, la scrittura” mentre parla dell’oggetto, “ci parla del suo autore, dalla parola scritta potrei risalire alla mano, alla nervatura”.

Stando alle parole di Roland Barthes, mi chiedo e le chiedo, una scrittura insinuante, ammiccante, che suggerisce senza esplicitare, che indica conclusioni senza analisi, che si schiera senza conoscere, di che autore ci parla? Una scrittura che esprime costernazione per qualche avvenimento non ricordato, accaduto più di vent’anni fa, senza spendere una parola sui processi intrinseci della memoria medesima (avrebbe scoperto che di straordinario è il ricordo e non il suo contrario) può essere ritenuta una scrittura imparziale, obiettiva ed equidistante? La scrittura che ricerca il vero, atto di solenne liturgia, può essere sommaria e approssimativa?

Personalmente ritengo che l’umana e legittima aspirazione di trovare i colpevoli di un delitto, non debba mai cedere alla facile e diabolica deriva di accontentarsi d’indicare improbabili corresponsabili. Ringraziandola per il tempo dedicato alla lettura della presente, le auguro buone cose.

Ettore Cannas

 
 
 

AMARE FAVOLE DI MIGRANTI di Enrico Pau La Nuova Sardegna

Post n°123 pubblicato il 29 Marzo 2011 da deandreando

Amare favole di migranti


 CAGLIARI. C’è una frontiera che non si attraversa, perché non ci sono strade, barriere, guardie in divisa che controllano i documenti. E’ una frontiera sterminata, liquida, feroce come a volte è feroce il Mediterraneo quando d’un tratto cambia d’umore, e le sue onde spazzano tutto, sommergono la speranza e i sogni. Sotto quella frontiera liquida giacciono i corpi dei tanti migranti, le cifre parlano di 15566 persone, che hanno percorso il deserto fuggendo dalle loro terre, sperando di trovare un mondo migliore, lavoro e dignità, incontrando invece la morte. Gli altri, i sopravvissuti, hanno varcato quel confine per vivere clandestini dentro se stessi, dentro grandi città europee, in una solitudine priva di affetti e relazioni, ombre che si affacciano alla nostra vita ma che non vediamo, ombre nascoste al giorno.
 «Nascosto al giorno» è il titolo esemplare di un bel romanzo di Ettore Cannas pubblicato da Tiligù e illustrato da Mario Soddu che si presenta domani alle 18,30 al Manà Manà di piazza Savoia. E’ un romanzo necessario perché fa quello che pochi romanzi contemporanei sanno fare, racconta un mondo sconosciuto, la vita di uno di questi migranti, una di queste ombre che vengono da lontano, a volte con storie affascinanti e spesso dolorose, al termine di viaggi che hanno i contorni di un incubo. Li chiamano esseri umani, ma in realtà l’occidente ne ha fatto oggetti, rotelle di una macchina mostruosa e crudele dello sfruttamento.
 La qualità più straordinaria e forse unica di questo romanzo è tutta nella capacità di tenere insieme con coerenza registri differenti. La scrittura di Cannas riesce a passare dai toni della favola a quelli della tragedia per ritornare nel bellissimo finale alla favola. La favola che ha come sfondo il deserto, un villaggio remoto del sud del Marocco, abitato da figure di una mitologia semplice che popola la sabbia di figure magiche, le streghe, i misteriosi ginn, e di animali e insetti che a volte diventano fantastici. «Nascosto al giorno» descrive la vita quotidiana di un pastorello di capre, la storia comincia con Kurdin, il protagonista, bambino. La sua immaginazione è capace di riempire la natura di segni che il ragazzino interpreta come segnali della presenza di Dio. Un Dio che nella cultura islamica è lontano e minaccioso, ma è sempre presente dentro la natura, nella sua vastità, nei suoi segnali, e nel suo mistero. Un dio che noi occidentali violentatori e consumatori degli spazi naturali ormai abbiamo smarrito e rinnegato per sempre. Kurdin diventa grande. Anche lui è costretto dalla povertà a lasciare il Marocco, compiendo quel viaggio che milioni di africani hanno compiuto e che parte dal deserto per attraversare un altro deserto, il mare, per arrivare a quelle città sterminate e piene di luci, un altro deserto a ben guardare, e rinchiudersi dentro quelle “pareti della solitudine” come le chiamava Tahar Ben Jelloun in un suo bellissimo romanzo.
 Cannas con singolare maestria riesce a tenere insieme tante linee narrative differenti all’interno di un romanzo che ha la lucidità del romanzo sociale, la forza del dramma, ma ha anche la qualità sensuale di una dolcissima storia d’amore. Cannas disegna un’umanità dolente e ha creato un personaggio vero, Kurdin, che ha una voce epica, alta. Il suo è una sorta di reportage poetico dentro la sofferenza umana, dentro l’umiliazione e il degrado che ancora oggi sono la linfa, amara, delle relazioni fra gli esseri umani dominate dai riti spietati di una società, la nostra, che consuma tutto rapidamente.
 Vite nascoste al giorno che altrimenti rimarrebbero nell’ombra, che nessuno vorrebbe raccontare altrimenti, perché non ci riguardano, sono le vite degli altri, voci che ogni tanto si affacciano alla nostra di vita con le loro domande che spesso rimangono domande vuote, dialoghi spezzati, ombre che non hanno corpo. La narrazione è asciutta e rapida, a tratti si fa lirica: ha il calore della sabbia del deserto, il profumo del vento, i colori del mare, la nostalgia disperata della propria terra.
- Enrico Pau

 
 
 

Laos 2003

Post n°120 pubblicato il 16 Maggio 2010 da deandreando
Foto di deandreando

Vientiane

 
 
 

IL CARABINIERE 12-08

Post n°113 pubblicato il 15 Luglio 2009 da deandreando
Foto di deandreando

 
 
 

AVVENIRE Recensione di A. PEDRINELLI Agorà 24 .5. 2009

Post n°112 pubblicato il 11 Giugno 2009 da deandreando
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http://www.festivalbiblico.it/contenuti/avvenire_pfm_24maggio2009.pdf
DIBATTITO E quel Gesù rivoluzionario non dispiacque al mondo cattolico

 
 
 

AVVENIRE Recensione di A. PEDRINELLI

Post n°109 pubblicato il 04 Marzo 2009 da deandreando
Foto di deandreando

Avvenire, www.avvenire.it, 08 gennaio 2009

De André, l'«anarchico» intrigato da Dio

DI ANDREA PEDRINELLI

 

 
 
 

L'Espresso recensione 2008

Post n°100 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da deandreando
 
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Il Buscadero 2007, recensione di Guido Giazzi

Post n°99 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da deandreando
 
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Avvenire 09 04 08, recensione di A. Pedrinelli

Post n°98 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da deandreando
 
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Il giornale di Sardegna

Post n°97 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da deandreando
 
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La Stampa recensione 2006

Post n°95 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da deandreando
 
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La Nuova Sardegna 2006, recensione di Enrico Pau

Post n°94 pubblicato il 15 Gennaio 2009 da deandreando
 
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ll cielo di Fabrizio

Post n°90 pubblicato il 08 Dicembre 2008 da deandreando

Fede e sentimento
religioso del cantautore genovese: un'intervista alla prima
moglie

di Ettore Cannas

 

Il titolo di questa
contaminazione del pensiero che mi accingo a compiere, come fedele
riproposizione dei fatti, dovrebbe essere il seguente: Tano mi ha chiesto
di scrivere qualcosa su Fabrizio De Andrè. Ma potrebbe ancora continuare
così: mi sono rifiutato più volte però, come in un antico canto popolare,
a reiterati rifiuti reiterati inviti. Non nascondo che la decisione di
scrivere sia stata dettata, almeno in parte, dalla possibilità di chiarire
(a Tano) in modo formale, canonico, (lo scrivere può essere talvolta atto
di solenne liturgia) il motivo del mio rifiuto.

Cercherò di essere
breve! Sono d'accordo con le culture, filosofie e religioni che vedono il
silenzio carico di "Altro" messaggio. Altro che sinonimo di niente! Dio
crea con la parola; essa è ordinatrice, causa ed effetto... il silenzio,
come tutta la creazione, è toccato da quella parola divenendone custode
(anch'esso). La parola degli uomini, in quanto partecipazione di sé, è
imprecisa, precaria, epifania del proprio limite. (Vi risparmio il
discorsetto sulla Grazia, restiamo sul piano umano-naturale).

La parola
scritta, all'interno di questo quadro, sembra denunciare proprio lo
scarto, la "minima somiglianza e massima differenza" tra le due parole
(Divina e umana). Essa tenta di impegnarsi di più, di penetrare di più, di
immergersi in quel silenzio per riportare in superficie frammenti di
fondale Verità. La parola se autentica, genuina, se ha consapevolezza di
sé, ha la responsabilità di ciò che produce e delle modificazioni che
genera. Così il silenzio può essere rispettato o offeso, profanato o
svelato. Ora, non avendo nell'immediato cose importanti da dire, e non
volendo impegnarmi più di tanto nell'ascolto di quel silenzio dal quale le
parole (se sono vere) provengono, avevo detto: "No!"

Ma... " l'amore
ha l'amore come solo argomento", misteriosa propensione dell'uomo ad
affezionarsi e legarsi con tutto ciò e con chi ha toccato il nostro cuore.
Questa misteriosa propensione ha costituito uno dei motivi che mi hanno
indotto a scegliere quale argomento della mia tesi, (in teologia) "La
ricerca di Fede, il senso religioso, in Fabrizio De Andrè". Sono sicuro
che è per la stessa misteriosa propensione che Tano mi ha chiesto di
anticipare qualcosa del mio lavoro. Tuttavia, l'unico stralcio che ritengo
si possa anticipare in quanto leggero e immediato ma soprattutto perché
isolabile dal contesto, in quanto organicamente autonomo, è la breve
chiacchierata che ho fatto con la Signora Enrica Rignon, prima moglie di
Fabrizio De Andrè.

Mi scusi, io telefono[...] avrei
preparato una sorta d'intervista, alcune domande.

"No guardi...
un'intervista! Non ho grandi rivelazioni da fare. Tutto quello che posso
dire, di Fabrizio, è ciò che lui mi diceva".
Inizia a parlare
ed io non la interrompo. Mi pare di cogliere un certo suo disagio alle
domande come se queste avessero potuto condurla su un altro campo. Un
campo diviso da un filo invisibile, impalpabile confine, aldilà del quale
non è lecito sporgersi. Aldilà del quale, forse, non è rispettoso o è
perfino arbitrario rispondere su questioni che non riguardano direttamente
le nostre persone.

"Dovrebbe rispondere lui alle sue domande"

Ma erano domande che avrei voluto fare a lei non a lui.
(Tace).

"Con Fabrizio parlavamo di religione, di Dio quando eravamo
ragazzi e non era ateo. Noi ci siamo sposati in chiesa e nostro figlio è
stato battezzato. Se fosse stato ateo, lui avrebbe rifiutato tutto
questo".
Ho letto sul Corriere della sera una sua intervista
sull'argomento: ho avuto l'impressione che alcune necessarie premesse,
forse per la necessaria brevità della sintesi giornalistica, fossero
sacrificate.

"Ho deciso io di rilasciare quell'intervista. Dicevano
che Fabrizio era ateo e quindi non capivano la decisione di celebrare la
funzione in chiesa. Allora mi sono arrabbiata e ho deciso di parlare.
Fabrizio non era ateo. Era piuttosto allergico al potere costituito, ma a
tutti i poteri... Ma quello che posso dire io lo dicono già le sue
canzoni: Si chiamava Gesù, Pregiera in gennaio, La ballata del Michè - sa
perché l'ha scritta? l'ha scritta per un suo amico suicida, che non era
stato ammesso alla celebrazione in chiesa. Privato dei sacramenti. Questo
aveva fatto soffrire moltissimo Fabrizio. Lui diceva:- Sì, il suicidio è
sbagliato, perché la vita è un bene prezioso, ma voi che fate, lo
rifiutate? non lo ammettete in chiesa?. Se fosse stato ateo, non sarebbe
rimasto così male. Non si sarebbe posto tutte queste domande.Poi ci siamo
lasciati, ma ci siamo voluti sempre un bene enorme, però non so quale sia
stata l'evoluzione del suo pensiero. Si! Era polemico con l'istituzione,
forse un po' per le sue esperienze... (lascia cadere) ma c'erano delle
persone (rappresentanti di quell'istituzione?) che lui stimava. Ogni tanto
andava a parlare con uno... Certo per lui Cristo era un uomo, non diceva
ch'era Dio ma che successivamente era divenuto Dio... Ecco, questo è tutto
quello che posso dire, le domande le avrebbe dovute rivolgere a
lui."
Secondo me, ed è una delle premesse della mia ricerca, spesso
si usa impropriamente l'espressione ateismo, e di conseguenza erroneamente
si definisce qualcuno ateo: ateo non è affatto chi, come Fabrizio De Andrè, è critico verso l'istituzione e sensibile alla ricerca di un'altro
linguaggio religioso...

"Magari lei ha una grande fede. Anche a me
piacerebbe avere una grande fede, invece ho dei dubbi! Ma non mi sento per
questo atea. Come me, Fabrizio non riusciva a dare delle risposte
assolute, però non credo che questo voglia dire essere atei. Per me
l'ateismo è un'altra cosa, è uno che non si è mai posto il problema di Do,
e di conseguenza si comporta in un certo modo. Fabrizio era di una
grandissima generosità. Mi dispiace non poterla aiutare di più. Ma lei,
sono sicura, ha capito."
Vorrei chiudere questa mia incursione
ritornando alla misteriosa propensione, all'amore, che ha l'amore come
solo argomento, e vorrei farlo con una domanda. Mi sono chiesto: cos'è che
mi ha fatto amare, ci ha fatto amare, quella persona? Quella voce?
Parafrasando un'affermazione di Wittgenstein, di De Andrè credo si possa
affermare che l'interesse per ciò che dice apra ad un interesse maggiore
costituito dalla voce, dal come lo dice, che è poi tutto ciò he non
dice... Noi cosa abbiamo colto di quel silenzio?

 

 
 
 

il vento degli ultimi

Post n°89 pubblicato il 08 Dicembre 2008 da deandreando

di Ettore Cannas

L'undici gennaio del 1999 era una giornata di vento. Di quei venti, che se non li conosci, non vale la pena parlarne.
La voce alla radio mi da un pugno allo stomaco. Scatta il verde, e da dietro è un coro di clacson... non sanno di essere vento? Un uomo si avvicina al finestrino della mia auto, vuol vendermi la sua mercanzia: alberelli profumati, calze, fazzolettini... "Di dove sei?" domando con un groppo alla gola. "Serbo", risponde guardandomi. Khorakhanè, penso inforcando gli occhiali da sole.
Qualche anno dopo, imbarcatomi nell'avventura di studiare i testi di De Andrè, per quelle strane e misteriose associazioni della mente, ho rivisto quel volto, fra le pieghe dei miei pensieri e le parole della canzone. . .
Khorakhanè (traduzione: A forza di essere vento)
Il titolo ci fornisce precise indicazioni, in grado di orientarci, sulla chiave d'interpretazione d'adottare. Khorakhané è, nello specifico, il nome di una tribù Rom di provenienza serbo-montenegrina.
"Il cuore rallenta la testa cammina / in quel pozzo di piscio e cemento / a quel campo strappato dal vento / a forza di essere vento / porto il nome di tutti i battesimi" .
Ruah in ebraico (pneuma in greco), può indicare sia lo spirito, soffio vitale: "Soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (Gen 2,7 b), che il vento. Lo spirito di Dio, la Bibbia di Gerusalemme traduce vento di Dio, aleggiava sulle acque (cfr Gen 1,2b).
Quest'ultimo, nel mistero della propria origine (da dove viene il vento? dove va?), diviene il simbolo, l'immagine del Mysterion, dal quale tutte le cose provengono. Si sentono gli effetti della presenza di Dio, pur non potendone contemplare l'essenza, come il sibilo del vento. De Andrè, almeno stando al testo, sembra conoscere e giocare con il duplice significato del termine in questione. Così, analogamente a quel che accade a Mosè (Es 33,23b) al quale è concesso, il testo non lo dice ma dal contesto si può supporre che ciò sia accaduto per un breve lasso di tempo, di vedere le spalle di Jhwh, Maria, solo per un momento potrà vedere il colore del vento (Il sogno di Maria in La buona novella). Qui il vento, alito creativo, misteriosa e inarrestabile forza che tutto muove e trascina... è, nel suo significato orizzontale, libertà di movimento ed erranza, superamento di limiti ma anche assenza di quiete e di dimora. Energia (rovinosa?) che plasticamente esprime la precarietà della vita.
Ma è proprio nel riconoscimento, immersione e assunzione, di tale precarietà che l'uomo riconosce il suo simile. Egli è un viaggiatore, per definizione, quindi, senza posto, itinerante. Nomade in questo limitato luogo, senza casa, perché altrove sa di avere una casa.
". ..qualche rom si è fermato italiano": questa condizione propria degli zingari, di questi parla la canzone, permette loro di "saper leggere il libro del mondo". Saper leggere significa risalire dalla scrittura al suo autore, saper distinguere l'essenziale dal marginale.

Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità (Rom 1,20).

Avviene in questo modo il riscatto degli emarginati. "...finché un uomo ti incontra e non si riconosce / e ogni terra si accende e si arrende la pace" . Il non riconoscimento del nomade, del rom, qui non è semplicemente rifiuto o legittima non condivisione di uno stile di vita, ma incapacità a comprendere la sua simbolica antropologia. Come se si fosse sopra un piano inclinato, dal misconoscimento o rifiuto di una determinata concezione di vita, si passa al disconoscimento dell'uomo, dell'esistente, del valore assoluto che è la vita. Quando ciò accade, l'odio vince l'amore e la pace è sconfitta e così "i soldati prendevano tutti / e tutti buttavano via". Con altre parole viene ancora una volta ricordato, benché ne manchi un esplicito contatto, il messaggio evangelico dell'amore.
". ..anche oggi si va a caritare / e se questo vuol dire rubare / questo filo di pane tra miseria e sfortuna [...] lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca / il punto di vista di Dio". Infine, in una vertigine di megalomania (a giustificazione dell'indice puntato sulle diversità), questi altri, i sedentari, come novelli profeti esprimono giudizi di condanna sicuri di saper tradurre il pensiero di Dio.
"Chi fa la carità al povero fa un prestito al signore che gli ripagherà la buona azione" (Pr 19,17).

Credo che un breve cenno sul pensiero del nostro Autore, sulla marginalità, non possa non attraversare quella via che a percorrerla ti sembra di andar lontano...

Via del Campo



"Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior / dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior".
Più indelebile dei moderni evidenziatori questa duplice ripetizione, nello stile vicina ai mashal biblici, vuol marcare incidere e sottolineare, affinché non venga mai rimossa dalle nostre menti, una problematica certamente centrale negli scritti dell'autore. Invitati a guardare da una prospettiva ribaltata, che fa dei diamanti-preziosi oggetti inutili e del letame-scarto la condizione favorevole alla vita (dei fiori), questi versi conclusivi, attraverso un'immagine immediata, condensano uno dei fili conduttori del messaggio neotestamentario.
Ancor più che singoli richiami o contatti è qui sintetizzata la logica Evangelica che vede negli afflitti, sofferenti, ultimi, (a prescindere dalla loro appartenenza di classe) interlocutori di particolare riguardo. I possibili riferimenti biblici, vetero e neo testamentari, incentrati sul tema in questione, sono tanti e tali da rendere difficoltosa una loro scelta. Nella difficoltà, allora, più che Jawhe attento agli anawim, o Gesù alle prostitute, pubblicani, lebbrosi, (impuri) indemoniati, ladri... qualche citazione su Gesù-ultimo: "diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia" (Lc 2,7a); "Natanaèle esclamò: Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?" (Gv 1,46).
Il senso di ciò viene ripreso e parafrasato dal poeta libanese Kahlil Gibran: "E inoltre proveniva da Nazareth, città maledetta dai nostri profeti, letamaio dei Gentili, da cui non uscirà mai nulla di buono". Il ribaltamento del senso comune diventa paradosso: da ciò che si riteneva non potesse nascere nulla di buono nasce la salvezza. "La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri?" (Mt 21,42; Sal 118, 22-23 ).

Proviamo adesso a formulare qualche considerazione, a ripercorrere, con rinnovato senso critico derivante dalla conoscenza e valutazione degli elementi fin qui trattati, l'impervia strada che dalle parole scritte si pensa, e si spera, si possa risalire alla mano, al suo movimento essenziale-esistenziale, attraverso il quale il cuore, di cui detti e fatti sono emanazione, cerca di esprimersi.
Attraverso un accostamento "blasfemo" è possibile apprezzare che il tema della marginalità è il filo rosso dell'opera deandreiana...
1) Nell'insegnamento sul puro ed impuro si afferma che "Ciò che esce dall'uomo [...] contamina l'uomo" poiché "dal cuore dell'uomo escono le cattive intenzioni" (Mc 7,20-21). L'accento è palesemente posto sul cuore dell'uomo.
2) "E diceva loro:- il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!" (Mc 2,27). Viene affermato, ricordato, il rapporto privilegiato che Dio ha con l'uomo motivo e fine della creazione.
3) Infine un breve dialogo si pone come parafrasi di una sorta di fotografia nella quale Gesù è immortalato a pasto con dei peccatori:
"- come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori? - Avendo udito questo, Gesù disse loro: - Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori-" (Mc 2,16b-17).
La risposta di Gesù, sintetizzando i due passi precedenti, mentre ricorda la centralità dell'uomo (e del suo cuore più dei precetti), referente privilegiato dell'amore di Dio, manifesta la sua particolare e amorevole attenzione verso i bisognosi, i malati, le pecore smarrite. È evidente che Gesù con i peccatori, attraverso la condivisione del pasto, celebra la liturgia della conversione del loro cuore.
Ora, omettendo di citare specifici testi, poiché ciò comporterebbe il rischio di dover riferire se non le parole sicuramente il senso della maggior parte delle canzoni, si impone all'evidenza che l'aspetto fondamentale della fede religiosa di Fabrizio De Andrè si sviluppa, aldilà di una mirata, puntiforme e consapevole, riflessione attraverso il triplice movimento schematizzato. Di esso volendo essere telegrafici ne stilizziamo i passaggi:
1) La persona, nella sua integralità, è posta (da Dio? Non dimentichiamo che De Andrè ammettendo per sé, in modo esplicito e per iscritto, la virtù della Speranza, riconferma e convalida con un'attestazione extra opera quanto emerge nella stessa) al centro del creato.
2) Egli deve essere, perciò, ragione e misura del nostro agire.
3) Ne consegue che le Bocche di rosa, i perdenti e reietti, ovverosia l'umanità rappresentata dal Cantautore, diventa, così come avviene (dando come scontate le debite distanze e differenze) per i pubblicani e i peccatori, l'altro tempio nel quale e con il quale celebrare la liturgia del comandamento nuovo: "che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati" (Gv 15,12).
A conclusione di questo nostro viaggio, tentativo di comprendere, fra parole e silenzi, il pensiero religioso del nostro autore, riteniamo di poter affermare che la novità del linguaggio religioso deandreiano è rappresentato dal proposito di pervenire all'originarietà-essenzialità del messaggio evangelico. Così, paradossalmente, per De Andrè stare ereticamente fuori (dai sistemi) costituisce sia una sorta di naturale propensione, sia una scelta operativa tale da tentare, sperare, di essere autenticamente dentro. Dentro il messaggio primigenio e genuino, per quanto semplifìcato e stilizzato, del Cristo; dove, tuttavia, il messaggio centrale è opzione e attenzione a favore dei Christi...

 
 
 

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