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Rimini si racconta

Notizie da una città

 

 

Quei libri sono per tutti

Post n°41 pubblicato il 25 Agosto 2022 da ilrimino
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"La biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina", ha scritto Ezio Raimondi (1924-2014). Essa raccoglie il passato ed elabora il presente, diventando simbolo di un'epoca. Due biblioteche riminesi, diverse per origine e destino (la seconda voluta da Alessandro Gambalunga nel 1617 è ancora presente tra noi), raccontano come il potere politico ed accademico abbia avuto cura nel crearle in due momenti storici molto diversi fra loro.
Il progetto di costituire una biblioteca aperta al pubblico e utile agli studenti poveri, testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue una intenzione dello zio Carlo, morto l'anno prima. A Carlo un canonico Maestro di Grammatica ha lasciato in ereditˆ una casa che Galeotto Roberto vende per realizzare il progetto. Nasce cos“ la prima biblioteca pubblica d'Italia, come riconosciuto (2010) da C. S. Celenza e B. Pupillo della Johns Hopkins University (USA).
é del 15 febbraio 1432 il "breve" di papa Eugenio IV sulla fabbrica del convento di San Francesco. Forse si riferisce anche ai lavori necessari per realizzarvi la biblioteca. Risale al 1475 il testamento di Roberto Valturio che lascia la propria biblioteca alla libreria del convento dei frati di San Francesco di Rimini, ad uso degli studenti, degli altri frati e dei cittadini, con la clausola che si trasferiscano tutti i libri in altra stanza nel solaio, adatta all'uso di libreria. Il documento pubblicato per la prima volta da Angelo Battaglini nel 1794. Da esso si ricava che nel 1475 esiste giˆ una libreria del convento di San Francesco, posta al piano terreno. Essa, osserva Battaglini, era giˆ diventata copiosa a spese di Sigismondo, ma giaceva "in piano a terra pregiudicevole a materiali s“ fatti". Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490.
Battaglini conclude: Rimini "dovette dunque non meno a Sigismondo suo Principe, che al suo cittadino Roberto Valtri l'acquisto fatto d'una pubblica Biblioteca". Sigismondo, come ricorda per primo Valturio nel "De re militari", dona alla biblioteca monastica francescana "moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline". Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci dell'antichitˆ greca e latina. Valturio ricorda pure che a lui ed a molti altri era stato affidato da Sigismondo l'incarico di procurare i testi per le nuove biblioteche che il signore della cittˆ voleva realizzare.
Nel 1560 la biblioteca costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. Circa 150 opere sono nella prima fila, circa 123 nella seconda, come risulta da un inventario del 1560, conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da Giuseppe Mazzatinti. All'inizio del secolo XVII, precisa Antonio Bianchi (in "Storia di Rimino dalle origini al 1832", Rimini 1997), "della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco", restano soltanto 400 volumi per la maggior parte manoscritti. Questo "rimasuglio" (in realtˆ sono circa 273, per l'inventario del 1560), va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perchŽ quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai.
Federico Sartoni (1730-1786), come riferisce Luigi Tonini ("Rimini dopo il Mille", p. 94), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo, vescovo di Rimini dal 1627 al 1646, e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.
Gambalunga nel testamento (25.09.1617), dichiara che i suoi libri "s'habbino meglio e pi lungamente conservare, poichŽ concerne pubblico commodo, utile et honore".
La sua libreria dovrˆ essere aperta a tutti e quindi passa al Comune, ci sarˆ un bibliotecario ("persona di lettere idonea ed atta") stipendiato con i propri soldi e nominato dai Consoli della cittˆ. Altra somma egli destina per nuovi libri ed il restauro di quelli vecchi. Il 9 agosto 1619 nomina il bibliotecario, un dottore in legge suo amico, Michele Moretti, che diventa pure amministratore dei suoi beni. Il palazzo in cui si trova la biblioteca stato da lui costruito tra 1610 e 1614. Il 12 agosto 1619, Alessandro Gambalunga scompare lasciando 1.438 volumi.
Antonio Montanari

ARCHIVIO "Riministoria"
Malatestiana, prima di Cesena
Biblioteca Malatestiana di San Francesco a Rimini
Se si cancella il passato. ["il Ponte", 06.01.2013]

Biblioteca Gambalunga. ARCHIVIO 2002-2019

 
 
 

Una strada per Guido Nozzoli

Post n°40 pubblicato il 20 Maggio 2022 da ilrimino
Foto di ilrimino

Da "il Ponte" 22 maggio 2022.

 
 
 

Le fiere riminesi tra '500 e '600

Post n°39 pubblicato il 14 Maggio 2022 da ilrimino

Rimini "moderna"/1
Le fiere riminesi tra '500 e '600

"il Ponte", 15 maggio 2022

Una "fiera delle pelli" si tiene fin dal 1500 a Rimini tra Borgo San Giuliano e le Celle, per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno, dal ponte di Tiberio o della Marecchia (con le botteghe di legno) sino al torrione del monastero del Monte della Croce alle Celle, posto lungo la strada per Cesena (lato a monte) poco dopo il bivio con la via per Ravenna.
La "fiera delle pelli" è seguìta da quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo Borgo (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio). Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre, inglobando pure quella di san Gaudenzio nata in ottobre nel 1509.
Sino al 1538 la fiera di san Gaudenzio si svolge fuori dalla porta di San Bartolo, verso la attuale Flaminia uscendo dall'arco d'Augusto, che apparteneva al quartiere di Sant'Andrea ed anticamente aveva fatto "l'ufficio di porta, e perciò fu detto porta di San Genesio, e di San Bartolo" (L. Tonini). Dopo il 1538 la fiera è spostata alla piazza maggiore, nell'antico foro romano, "propter ruinam" dello stesso Borgo di San Gaudenzio, provocata "dalle ultime guerre con i Malatesti" (C. Tonini).
All'inizio del secolo la crisi economica ha unificato ad ottobre (poi tra 8 settembre ed 11 novembre), in una "fiera generale" i tre appuntamenti tradizionali: delle pelli, di san Giuliano e di san Gaudenzio.
Nel 1627 esse, sempre come "fiera generale", sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre. Nel 1630 è sospesa la "fiera delle pelli" per la pestilenza, preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce la fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio, riscoperta di recente (M. Moroni, 2001).
Già nel 1613, narra Adimari, cinquanta mercanti tra forestieri e cittadini, hanno chiesto una nuova fiera in primavera, "mossi dalla bona commodità del vivere et negotiare, et conversare et fare esito delle loro mercantie in questa città". Nel 1656 c'è questa iniziativa che si ripete nel 1659, ma è sospesa nel 1665 per volere del governatore di Rimini. Riprende il 22 maggio 1671 per undici giorni (cioè sino al primo giugno), con l'autorizzazione di papa Clemente X del 13 agosto 1670.
Nel 1678 l'apertura è posticipata al 3 agosto, per sperimentare, come si legge in un atto comunale, "se in questo tempo potesse prendere quell'augmento che hoggi giorno fa' conoscere l'esperienza non ritrovarsi, a causa forse di venire in tempo scarso di monete per non essere seguiti li raccolti".
Non sono d'accordo i doganieri: in agosto con la franchigia per la fiera riminese, non pagherebbero dazio le barche che ritornano dalla fiera di Senigallia. Il 10 maggio 1681 la fiera sul porto è sospesa. Ogni anno era andato "diminuendo il concorso" di mercanti e compratori per cui non portava "se non incomodo" ai commercianti di Rimini.
Nel 1691 la fiera riprende. L'anno precedente il prefetto delle "Entrate" ha scritto al Consiglio: sono andate in disuso e sono state tralasciate le due fiere tradizionali, quella d'ottobre dalla porta del Borgo di san Giuliano alla Madonna del Giglio, e l'altra di maggio sul porto. Nel giro di un secolo l'appuntamento autunnale di san Gaudenzio era passato dal Borgo di porta romana a quello di san Giuliano. Il prefetto proponeva di "rimettere ò l'una ò l'altra", con un calendario adatto sia alla città sia ai mercanti forestieri.
Il 17 giugno 1690 il Consiglio civico ha approvato (25 contro 12) di ripristinare alla fine del maggio 1691 "la fiera che si faceva nel Porto", seguendo concessioni e privilegi papali del 1670. Il segretario comunale Felice Carpentari il 18 ottobre 1690 ha suggerito un posticipo al 6 luglio, in deroga agli ordini di papa Clemente X del 1670, "parendo che in detto tempo si rendesse più facile l'introduzione, e più numeroso il concorso" dei mercanti. Ed il Consiglio ha approvato (34 contro 6).
Il 14 febbraio 1693 non è però giunta ancora l'autorizzazione allo spostamento della data quando in Consiglio si approva (32 contro 11) un nuovo memoriale del prefetto delle "Entrate" che invita ad osservare il vecchio calendario di fine maggio. Lentamente le fiere riminesi vanno di nuovo "in disuso". Soltanto nel 1726 si riapre quella sul Porto in onore di sant'Antonio.
Antonio Montanari

 
 
 

1222. Rimini, il santo e la mula

Post n°37 pubblicato il 10 Febbraio 2022 da ilrimino

"il Ponte", 13.02.2022

Caro Sant'Antonio, t'invito a sorvegliare questa pagina che voglio dedicare a te, aprendo la serie degli anniversari del presente anno 2022. Il quale sembra uscire dal tempo passato, da un lontano Medioevo, con il suo virus che gira per il mondo terrorizzando parecchio e facendo un po' andar fuori di testa (come al solito) gli spavaldi. I quali, credendo di sapere e capire tutto, alla fine rischiano di favorire la sua diffusione. È quello stesso Medioevo a cui tu appartieni, non tanto per le azioni compiute, quanto per le offese ricevute.
Hai parlato con i pesci, ed hai fatto inginocchiare una mula non tanto per dimostrare di saper fare miracoli, come si suol dire nel parlar comune, quanto per fare capire in giro che gli altri a cui ti potevi rivolgere, non stavano ad aspettarti perché non volevano ascoltarti.
 

Cercavi un colloquio con gli eretici, ma essi furono muti come i pesci, e sordi come non so chi, e così ti rivolgesti direttamente ai pesci. Il vero senso dei miracoli da te compiuti a Rimini sta nel principio fondamentale di ogni società civile, quello del dialogo, per cui nessuno può sottrarsi ad esso. Tu ci hai insegnato che senza dialogo la comunità sprofonda in quel sacco oscuro fatto di ignoranza, da intendere come mancanza di conoscenza, non semplicemente come assenza di quella buona educazione che è riassumibile nel diffuso detto dialettale di una volta, il quale sintetizza tutto in poche parole, "l'è un ignurent".

Anche ai tuoi tempi per gli "ignoranti" c'erano tutela e protezione, a ben leggere non soltanto i libri di Storia, ma pure episodi semplici come quelli accaduti a Rimini. Se una mula s'inginocchia, è perché la Natura in cui tutti siamo collocati (belli, brutti, saggi e poco sapienti) ha una forza che nasce nel momento della Creazione del Mondo, e che si ripete al momento della nostra nascita a quello stesso Mondo creato da Dio.

Tu sai bene che aprire una parentesi sugli eretici, vorrebbe dire occupare una pagina intera di giornale e portare via spazio al nostro appunto a te indirizzato. Dico appunto, perché non c'è spazio che per pochi accenni ad una complessa verità che rimanda a tutta l'Europa ed ai sistemi politici che la governavano. Anzitutto metto le mani avanti: nel Medioevo gli eretici li mandavano al rogo. Come ci insegna la storia francese di inizio Duecento.

Lasciamocelo spiegare da uno studioso, Samuel Sospetti, che all'Università di Bologna ha presentato nel 2013 un suo interessantissimo studio sul tema. I primi roghi di massa appaiono in Francia come esito di uno stato di guerra all'inizio del 1200. Non sono l'esito di processi per eresia: "Gli eretici beneficiavano di un'ampia tolleranza, potendo profittare anche della protezione di alcuni nobili, che volevano conservare tutta una serie di privilegi, che la Chiesa e la corona francese andavano via via limitando". Ci furono processi definiti sommari, e la gente veniva data alle fiamme con grande gaudio del popolo, come scrisse un cronista del tempo.

Precisa il nostro studioso che allora gli eretici beneficiavano di ampia tolleranza, "potendo profittare anche della protezione di alcuni nobili, che volevano conservare tutta una serie di privilegi, che la Chiesa e la corona francese andavano via via limitando". Ogni tentativo di persuasione pacifica e di ricerca di dialogo pubblico tra predicatori ed eretici, fu senza esito. Nel 1210 cominciano le esecuzioni di massa, "con grande gaudio" dice una fonte del tempo.

Quindi il gesto miracoloso di Antonio che a Rimini fa inginocchiare la mula, ha in sé qualcosa di straordinario: vuole dimostrare che le fede coinvolge tutto, il mondo degli uomini e la natura delle altre creature, in quanto gli uni e le altre derivano dallo stesso Padre.

 

 

 

 
 
 

50 anni di Amarcord

Post n°32 pubblicato il 21 Gennaio 2022 da ilrimino

Rivedendo il film di Fellini mezzo secolo dopo
"il Ponte", 23.01.2022, n. 3: "50 anni di Amarcord"


Il 28 dicembre scorso la Rai ha riproposto sul primo canale il capolavoro felliniano di "Amarcord", uscito nel 1973. Rivederlo a quasi mezzo secolo di distanza, significa tante cose che ci fanno misurare la nostra capacità di registrare emozioni diverse. Allora cercavamo il riflesso nazionale di fatti locali, grazie alla genialità di un grande regista che raccontava la sua Rimini. Che era anche la città in cui vivevamo noi, e di cui conoscevamo per via famigliare tanti personaggi od episodi inseriti nella pellicola. Il film era il trionfo di un mito, la glorificazione di un personaggio. Ovvero del regista Fellini. E ciò ci rendeva felici ed orgogliosi.

Adesso, quasi 50 anni dopo, una rilettura attenta di quelle immagini ci obbliga a ripiegarci su noi stessi, sulle cose narrate od ascoltate, su certi accenni fatti nella vita di ogni giorno in cui le immagini del film rivivono talora con lo stesso sorriso dei personaggi che esse raccontano, e talora come richiamo all'autobiografia vera di quanti allora c'erano e poi hanno vissuto drammi, illusioni, speranze e delusioni nel corso del tempo.
Se nel 1973 tutto sembrava far sorridere o ridere anche nei momenti di maggior tensione o drammaticità, adesso certe scene ci aiutano a capire meglio il percorso della società italiana o certe vicende personali vissute da giovani come ribellione.
Il ricordo personale va a quel 1961, con il centenario dell'unità italiana vissuto a scuola, nelle Magistrali comunali che dovettero partecipare alle celebrazioni dello stesso centenario, organizzate dal Comune di Rimini, con una delega speciale al Maestro Antonio Di Jorio (1890-1981) che insegnava allora Musica nella nostra classe quarta e che doveva farci esibire davanti al pubblico ed alle autorità con il celebre "Va pensiero" verdiano.


Non avevo nessuna voglia di apparire come cantante o corista, e di rubare tempo allo studio per un esame finale di abilitazione, che si prevedeva complesso e difficile. Poi, sinceramente, ricordando i discorsi che si sentivano in casa od in giro, circa quello spirito patriottico che a forza di canti e sfilate era sfociato nella guerra di cui conservavamo in ogni casa continui dolori e richiami, non mi piaceva per nulla fare la bella statuita per obbedire agli indirizzi politici che, per quanto opposti a quelli che ci avevano portato sotto le bombe, erano sempre atti supremi ed indiscutibili del cosiddetto "Potere".
Durante la prova alzai non so se dire il tono o la nota, ma di sicuro feci una bellissima stecca, con quel passaggio delle ali dorate. Il maestro Di Iorio si fermò, mi guardò. Mi conosceva bene. Lui e mio padre avevano organizzato al Kursaal di Rimini per il ferragosto del 1936 quel Festival della canzone italiana che poi fu ricopiato da San Remo. Poi aprì dolcemente le labbra, per dirmi: "Montanari, vai fuori". Io ancor più dolcemente lo ringraziai. Avevo raggiunto il mio traguardo.
Con tutta la classe dovetti partecipare alla manifestazione comunale nel salone dell'Arengo, davanti a Sindaco, Consiglio comunale e pubblico. Le ragazze, quando ci fecero entrare in un salone prima di accedere all'Arengo, scoprirono che per accoglierci con spirito patriottico, erano stati preparati vari cabaret traboccanti di cioccolatini. Per dimostrare la loro soddisfazione politica, velocemente se li misero tutti nelle grandi tasche dei loro grembiuli neri.
Si preparò il corteo per andare davanti al pubblico. Tra i maschi il più alto ero io: il maestro Di Iorio mi chiamò per reggere la bandiera tricolore durante tutto il concerto.
La Patria era colei che faceva obbedire. Quelli della generazione precedente li aveva fatti anche combattere e lasciarci le penne. Questo non mi piaceva, e mi faceva stare lontano da chi voleva un potere forte che già in passato aveva guastato tutto.
Vedere "Amarcord" nel 1973, significava leggere il nostro presente uscito dalle tragedie volute dal fascismo, come una tranquilla situazione priva di ogni pericolo; e poter rileggere quel passato in chiave comica come le sfilate o certi riti politici presenti nel film.

Adesso rivedere quel film è qualcosa di diverso. Ci chiediamo più cose, non ci chiamiamo fuori come spettatori venuti da lontano, ci sentiamo coinvolti più direttamente, anche se nessuno in casa o in famiglia ha fatto mai nulla di male. Ci chiediamo quale peso può avere avuto il senso della sopravvivenza in tutta la famiglia, con quella camicia nera di mio padre divenuta poi grembiule del sottoscritto in prima elementare, per non spendere soldi che non c'erano.
I ricordi di quella camicia furono oscurati da altri fatti. Avevo pochi mesi quando all'inizio del 1943 il fratello di mia madre, Guido Nozzoli, fu arrestato a Bologna per attività sovversiva mediante distribuzione di volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere", e possesso di libri proibiti dal regime tra cui il "Tallone di ferro" di London o "La madre" di Gor'kij, peraltro venduti anche sulle bancarelle. Mia madre ricordava la perquisizione fatta dalla polizia in casa nostra, nel palazzo Lettimi di via Tempio Malatestiano.
Guido Nozzoli racconterà di essere stato "venduto" da un conoscente laureato in legge, "che si dichiarava fervente antifascista ed era, invece, uno dei tanti informatori dell'O.V.R.A., l'insidiosissima polizia segreta "inventata" dal prefetto Arturo Bocchini. Io non ho mai denunciato il provocatore che poté concludere tranquillamente la sua carriera. Dopo la liberazione, tra i documenti recuperati all'Ufficio Politico della Questura dai partigiani forlivesi, c'era anche la ricevuta del compenso intascato dal nostro delatore; la duplice spiata gli aveva fruttato 300 lire. A peso, eravamo stati valutati a un prezzo di molto inferiore a quello della carne da brodo".
Antonio Montanari

 
 
 
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