Creato da just_ladies il 19/06/2007

EROTIQUE ROOM

in questo blog son gradite le donne e gli uomini gentili

 

 

VENEZIA

Post n°11 pubblicato il 03 Agosto 2007 da just_ladies
 

Ore 8.15
Venezia mi viene incontro a suo modo.
La vedo accostarsi al treno con la sua proverbiale tranquillità,
come se fosse nient'altro che una scia di olio a pelo sull'acqua.
È silenziosa, alle otto del mattino. Chiara, deliziosa, sospirante.
Ha l'aria di una bambina allegra, quella stessa freschezza, per lo meno a quest'ora.
Uscendo da Santa Lucia, la luce del sole riflessa nel canale mi abbaglia due volte, prendendomi da sopra e da sotto, come a volermi definitivamente destare.
Sono sola. Ho viaggiato all'alba perchè volevo essere qui presto e godermi le calle ancora poco affollate.
Starò qui solo due giorni, il tempo di un fugace week-end, o se preferite di un passionale incontro al buio.


Non lo so cosa mi ha preso.
È stata come una scintilla di pazzia che all'improvviso si è impossessata di me; sempre così calma e morigerata, pensierosa e lungimirante, in ogni cosa che faccio.
No, questa volta non ho permesso alla mia testa di avere il sopravvento. E nemmeno al mio cuore.
Ho deciso di farmi trasportare da questa scarica elettrica folle, che mi fa sentire quasi una ragazzina che marina la scuola.
Nessuno sa che sono qui.
Ho raccontato qualche bugia e ho omesso qualche altra verità, ma alla fine ci sono riuscita. All’inizio avevo il terrore di farmi scoprire, di lasciarmi scappare qualcosa in uno dei miei vari momenti con la testa fra le nuvole. E invece sono stata brava e ho tenuto l’acqua in bocca.

Ora ci sono. Non posso più scappare e nemmeno lo voglio.
Ho preso una stanza in un suggestivo albergo sull’Isola di Erasmo e ora sarebbe il caso di capire da che parte sta. Di sicuro ci voglio arrivare camminando, vivendo e respirando l’aria di questa strana città. Ho scelto apposta quell’isola appartata, quasi sconosciuta ai turisti e così ricca di orti.
Camminando mi sento libera. Gli sguardi della gente che incontro confermano che sono più bella, quando mi sento così.
Percepisco di non avere freni, di non avere limiti o imposizioni. Questa sensazione mi stringe lo stomaco, e mi scarica in corpo adrenalina a ciclo continuo.
Ho spento anche il telefono, perché m’incolla ad una realtà che adesso mi è distante; voglio vivere al di fuori del mondo reale, non ci sono per nessuno, almeno finché durerà quest’avventura.
Mi fa sorridere pensare che è stato proprio per quello strano oggetto così indispensabile all’uomo moderno, che sono finita qui, adesso.
Quando un mese fa è comparso quel numero sconosciuto sul display non lo so perché ho risposto, non lo faccio mai. Però ho risposto.
La voce dall’altra parte ha iniziato un monologo imbarazzante, perché non era certo destinato a me.
Quella voce calda parlava, raccontandomi di getto di quanto fosse diventato forte il suo bisogno di evadere, di vivere un momento di follia e io non sono riuscita subito a dire “mi-scusi-ha-sbagliato-numero”… Ho ascoltato. In silenzio. Quasi rapita da questa voce maschile così fremente.
“Mi-scusi-ha-sbagliato-numero”… ho detto ad un certo punto con un filo di voce.
Fortunatamente, la grande risata dall’altro lato del ricevitore ha spezzato di netto la tensione, permettendomi di uscire con tranquillità da una situazione di crescente imbarazzo.
È stato così che abbiamo cominciato a parlare, io e lo sconosciuto interlocutore.
Ed è stato così che a furia di trovare similitudini tra le nostre perversioni, abbiamo sentito la necessità di questo incontro fugace e nascosto al resto del mondo.
Incontro che avverrà sta sera al Conservatorio intitolato a «Benedetto Marcello».
No, non sono per nulla nervosa. Eccitata è il termine più consono.

Ore 12.00
Ho trovato l’albergo. Appena entrata in camera mi sono spogliata e ho fatto una lunga doccia rigenerante. Avevo addosso l’odioso odore del treno e non riuscivo più a sopportarlo.
Adesso i miei capelli profumano di pesca e albicocca, decisamente meglio direi.
Mi godo questa attesa restando adagiata sul letto, nuda in mezzo alla corrente tiepida che carezzandomi, asciuga la mia pelle, in ogni suo angolo, anche quello più nascosto.
Fantastico su questa sera, cerco di viverne in anticipo i momenti salienti. Voglio che tutto sia come nei miei sogni, come nei miei più profondi desideri.
Sono nella terra di Casanova, inutile dire che l’incontro lo immagino libertino, senza regole, un po’ alla maniera settecentesca, insomma. E pensando-pensando, mi lascio scivolare in un dolce sonno…

Quando mi sveglio sono già le cinque passate. È il momento di iniziare a prepararsi.
Mi siedo al tavolo da trucco, accendo i faretti che mi puntano in faccia una luce giallastra, accecante per i primi momenti. Quando mi torna la vista mi guardo… Sono bellissima, anche spettinata e senza trucco. Ho quell’epressione perversa che sul mio viso mancava da un po’. I miei occhi dicono “mangiami, prendimi, fammi ballare”…
Raccolgo i capelli e qualche boccolo sfugge alla molletta, adagiandosi morbido sulla curva che dal collo porta alla spalla. Nel silenzio più assoluto mi occupo del mio corpo come se fosse un rito, come se stessi preparando gli oggetti e gli incensi gusti su un tavolo sacrificale.
Indosso l’abito. La serata al Conservatorio impone l’eleganza e io accetto volentieri questa imposizione. Il mio vestito scende morbido sulle gambe e lascia scoperta la schiena, fino quasi al sedere. È molto sexy e l’ho comprato apposta. Fascia sui fianchi perfettamente e non è ingombrante per l’uso che ho in mente di farne. Le scarpe le ho scelte nere, su tacco alto. Non ho ancora deciso se indossare le mutandine o meno, ma penso che alla fine le metterò. Ho sempre trovato eccitante il momento di farle volare via...

Ore 19.45
Camminando sul Ponte di Rialto sento un leggero nodo in gola.
Il Conservatorio è vicino e questo vuol dire che anche lui è vicino. Potrebbe essere già qui e potrebbe addirittura già avermi addocchiata. Spero di no, ci tengo a vederlo prima io…
Quando imbocco la riva di Ferro, vedo in lontananza un piccolo gruppo di gente elegante e capisco di essere arrivata. Vorrei guardarmi a figura intera per l’ultima volta, cerco la mia immagine riflessa in qualche vetrina ma trovo solo gente che mi osserva, seduta ai tavolini dei numerosi ristoranti.
La luce contraria non permette alla mia immagine di potersi mostrare. E comunque ormai sono arrivata.
M’intrufolo tra la folla cercando di scovare un angolo protetto da dove iniziare la mia cerca e lo trovo vicino al tavolo da buffet, preparato per gli ospiti all’ingresso. Prendo solo un bicchiere di vino, per scaldarmi il cuore e per avere un alibi che mi permetta di restare li, da sola, senza sentirmi una stupida. Non mangio nulla. Non voglio trovarmi nell’imbarazzo di sapere di avere qualcosa fra i denti… Sorseggiando quel meraviglioso vino fruttato inizio a guardarmi intorno, cercando tra gli sguardi della gente i due occhi magnetici che mi hanno spinta ad arrivare fino a qui.
D’un tratto mi pare di vederli. Mi sposto un poco per osservare meglio, da questa angolazione non vedo tutto il viso di quell’uomo. Eccolo, è lui. Lo so, ne sono certa.
Non so se mi abbia già individuata, adesso lo spero quasi. Resto ferma e lo scruto. Guardo i suoi movimenti, le sue espressioni e le sue mani. Guardando le sue mani provo la prima sensazione di eccitamento, la solita scarica che mi passa per tutto il corpo. Lui alza lo sguardo e mi fissa. Il suo sguardo mi trapassa come la lama di una spada. Mi piace, il suo modo di guardarmi e mi piace il fatto che mi abbia riconosciuta, come è stato anche per me.
Quando entriamo nella grande sala dei concerti, cerco di divincolarmi tra chi cerca il proprio posto, e chi invece incontrando vecchi amici si sbraccia per salutarli. Schivo tre schiaffi e mi allontano svelta. Il mio posto è in ultima fila. L’ho scelto apposta perché non appena ne avrò la possibilità cercerò di divincolarmi da questa poltrona rossa e bollente.
Lui è davanti a me, a circa una ventina di metri. Tra poco salirà sul palco, un secondo prima del Maestro, due prima di iniziare il concerto.
Lo osservo prendere posto, togliere dalla custodia il suo strumento, maneggiarlo con cura.
Le sue mani mi piacciono sempre di più.
Continuo ad osservarlo mentre prende possesso del suo strumento, lo guardo avida appoggiare le labbra sull’imboccatura farle vibrare…
Sono talmente incantata dai suoi preparativi che non mi accorgo subito che qualcuno ha preso posto accanto a me. Quando mi desto, il mio nuovo vicino si gonfia come un pavone e sorridendomi mi dà la mano, per presentarsi. Gli sorrido, ma solo perché so che lui, da sopra il palco mi sta guardando.
L’uomo in doppiopetto seduto accanto a me cerca subito un contatto, prima con una lieve spallata, dopo con un’avvicinamento di gambe forse un po’ troppo eccessivo.
Si spengono le luci in sala.. il brusio si fa più lieve, poi scompare dietro il meraviglioso inizio di «The Ecstasy of Gold»…



Resto immediatamente incantata dal suono ipnotico del pianoforte, del clarinetto, dei tamburi.
La voce della soprano entra nel mio corpo fino a penetrarne le cellule.
Quando entrano il coro, i violini e… i fiati e a me sembra di volare!!!
Chiudo gli occhi e per un attimo mi vedo a cavalcare, selvaggia e sporca di terra nel bel mezzo del vecchio west. La sensazione è bellissima.
Per tutta l’ora successiva resto come in trance. La musica di Morricone è un toccasana e mi carica di nuova energia.

Ore 22.00
L’orchestra si è fermata per un quarto d’ora. Fanno pausa loro e permettono di farla anche a noi.
Lui sul palco sta rimettendo via il suo strumento, sempre con calma e dovizia.
Io mi alzo e tento di scavalcare l’odioso vicino, che si offre per qualcosa da bere.
Gli dico di si, anche se so benissimo che non arriverò nemmeno al bancone con quest’individuo. Mi serve a far salire l’eccitazione, mi serve perché lui da sopra il palco senta l’impulso irrefrenabile di venirmi a fermare. Sorrido con aria verginale al tale che ancora pensa di offrirmi da bere e lascio che un suo braccio mi passi dietro la schiena. Faccio qualche passo ancheggiante e poi, una volta arrivata in corridoio approfitto della calca per defilarmi.
Prendo le scale e vado ai piani superiori del Conservatorio. Anche qui ci sono i palchi privati, come quelli che avevo visto al Teatro alla Scala. M’intrufolo nel primo che capita e mi affaccio, per vedere se lui mi sta cercando. No, non il vicino. Lui.
Ci mette poco a vedermi e non m’importa se non è il solo. È tanto che sto aspettando un contatto.
Resto affacciata alla piccola balconata e attendo con ansia di sentire le sue mani raggiungere il mio corpo. E non passa molto prima che questo desiderio venga realizzato.
In un attimo, ho sentito la temperatura del mio corpo salire come per la febbre alta e non appena mi ha cinto i fianchi, mi sono sentita leggera. Vogliosa. Bellissima.
Senza dire nemmeno una parola, con una mano mi ha preso la nuca e me l’ha abbassata per poter leccare meglio il mio collo. Solo sospiri nell’aria. È rimasto dietro di me per un periodo di tempo che non saprei calcolare. Le sue mani mi hanno toccata ovunque, tastando a volte con delicatezza e a volte stringendomi la carne con tenacia, cercando di studiare le mie curve, le mie reazioni, i brividi che stanno ad indicare una maggiore dose di piacere in corpo…
La sua bocca vagava per la mia schiena senza una meta ma con ben chiaro il fine.
Io lo lasciavo fare. Non potevo fare altrimenti e ben me ne sarei guardata.
Il brusio della gente arrivava lontano, come un disturbo eterico; sentivo solo i suoi respiri il suo chiedermi “Ti piace?”, la sua bocca sulla pelle, le mie braccia bloccate.
Quando mi ha portata ancora più vicina a lui ho sentito quanto era eccitato e sono stata invasa da una irrefrenabile voglia di averlo.
Non so se la gonna l’ho sollevata io oppure è stato lui… so che nel momento esatto in cui è entrato, in sala si sono spente le luci. Il concerto stava per riprendere ma lui era dentro di me e con forza mi faceva capire che non se ne sarebbe andato presto.
Con la musica alta è stato tutto più facile.
Ho potuto lasciarmi andare a sospiri ancora più forti, incurante di quei pochi che forse ci sentivano. Mentre mi scopava osservava il palco come avvolto da una nebbia strana.
Sapeva che il dovere lo chiamava, ma sapeva anche che il mio richiamo era stato più forte.
Eravamo entrambi privi di limiti o inibizioni, senza nessuna voglia di fermarci.
All’improvviso mi ha scostata dalla balaustra e mi ha girata. Baciandomi intensamente mi ha poggiata contro il muro e tenendomi come schiacciata ha continuato con la nuova prospettiva.
Ora potevo guardarlo, vederlo.
I suoi occhi erano pieni di sangue e immagino anche i miei…
L’incontro dei nostri occhi ha generato un’ondata di eccitazione indescrivibile, tanto che ho sentito la necessità di strappargli di dosso la camicia e attaccarmi alla sua pelle come se fosse l’ultimo nutrimento rimasto a disposizione…

È tornato sul palco a metà del quinto pezzo dopo la ripresa.
Bellissimo, elegante pur senza camicia. Paonazzo in volto e con il fiatone.
Io non sono tornata a sedermi. Ho aspettato lassù che tornasse da me. E quando la sala finalmente si è svuotata, noi abbiamo continuato.

 
 
 

FUORI DALLE CAVERNE

Post n°9 pubblicato il 11 Luglio 2007 da just_ladies
 
Foto di just_ladies

460° giorno FdC (Fuori dalle Caverne)
Chissà che giorno è?...
Mi chiedo se sia giorno, oppure notte. Chissà! Fuori è tutto buio, buio e freddo come al solito.
È da poco più di un anno che siamo usciti dalle nostre caverne e ancora non si è visto neanche uno spiraglio di luce nel cielo. Eppure ce l’avevano promesso. C’era scritto persino sui libri di scuola che intorno al 2150, in concomitanza con l’uscita dalle caverne, sarebbe ritornato anche il sole.
E invece niente. Magari c’è e nessuno se n’è accorto. Infondo… qui nessuno…
Ma che colore avrà il sole? Intendo dal vivo?
La nostra civiltà psichedelica per vivere fra le caverne ha dovuto inventarsi di sana pianta un mondo alternativo, parallelo, forse distorto, almeno a giudicare da quello che è rimasto dell’altra grande civiltà, quella che poteva vedere il sole ma che non ha mai capito la sua importanza, né tantomeno la sua ricchezza intrinseca.
Fino a un anno fa vivevo in un’immenso spazio libero, insieme ad altre persone. Avevamo alberi, animali ricreati in laboratorio e nella giusta dose, tutti avevano tutto.
Ho sempre vissuto nelle caverne, ci sono nata. Come ci è nata mia madre e la madre di mia madre. Come ci siamo nati tutti. La caverna dalla volta grandissima nella quale stavo, era collegata a tutte le altre da tunnel in titanio, che permettevano la vita e il ricambio d’aria, d’acqua e di energia. Volendo, qualche tunnel si poteva percorrere, ma io non ho mai sentito la necessità di farlo.
Infondo la rete mi dava tutto: amici, conoscienze, studio, svago e persino relax.
È stato così che noi umani abbiamo smesso di toccarci, di guardarci, di avere contatti fisici in generale, ormai più di cento anni fa.
Io personalmente non ne ho mai avuti, nemmeno adesso che forse potrei.
Non mi stuzzica l’idea di mettere le mani su un corpo non mio, non capisco cosa l’altra civiltà ci trovasse di tanto importante.
Ad esempio, nella casa (anzi, appartamento, si chiamavano così le abitazioni di un tempo) che ho trovato e occupato quando ci è stato permesso di salire in superficie ho trovato alcuni vecchi dvd che fortunatamente il mio lettore è stato in grado di farmi vedere. Bèh, non ci crederete mai, ma era pieno di immagini e di filmati di due, un uomo e una donna, che completamente nudi si toccavano, si strusciavano, si leccavano, si mordevano…
Che gusti! Menomale che sotto terra ci siamo evoluti.


462° giorno FdC
L’altro ieri sono uscita dall’appartamento pochi minuti dopo aver terminato di scriverti, diario.
Sono uscita a fare quattro passi, a vedere se per caso sbucava il sole.
Quando sono arrivata in quel grande parco che un tempo chiamavano “Central” mi sono seduta a terra e ho provato a togliermi il casco. Sul plasma-giornale c’era scritto che l’aria stava mano a mano tornando più respirabile. C’è un intero team di scienziati che sostiene che ormai, le polveri dovrebbero essersi quasi del tutto degradate.
Ho provato una strana sensazione sul viso quando l’ho tolto. Come se mille piccoli spilli m’avessero trapassato il viso. Penso d’aver provato freddo, ho letto di questa sensazione da qualche parte. Però è stato bello respirare quell’aria così strana, quasi profumata.
Mentre ero lì a godermi il dolce sollazzo mi sono accorta che a un centinaio di metri un ragazzo mi guardava, avvolto dall’oscurità. Anche lui teneva il casco tra le mani e si godeva l’aria. Ha fatto qualche passo verso di me, ma io sono scappata. Ho rimesso il casco e ho impostato la funzione magnetica alle scarpe, per tornare più veloce a casa.
Non so perché, ma ho avuto come la strana sensazione che lui volesse stringere un contatto diretto con me. Ma scherziamo? Non sono mica quel tipo di donna, io!
Però è da ieri che penso a lui. Forse esco anche oggi. Magari lo incontro.
Vado a riguardare qualche dvd, vedi mai che trovo qualcosa di interessante.


463° giorno FdC
Era ancora più fredda l’aria, ieri. Ancora più pungente ma ormai sto iniziando a farci l’abitudine. Ho cercato quel ragazzo con lo sguardo per un’ora, seduta su quella stessa panchina.
Nonostante il freddo e il buio, New York stava iniziando a tornare a vivere, la gente piano piano iniziava a fidarsi e a tornare per le strade, anche se indossando sempre il casco e mantenendo una certa distanza dagli altri.
Strano, la sera prima non mi ero accorta di tutto quel viavai, forse perché ero troppo presa dai miei pensieri.
Avevo visto solo lui, da qualche parte immerso nel buio. Che stupidaggine!
D’un tratto, proprio quando ero ormai decisa ad andarmene, mi è comparso davanti, levandosi il casco.
«Ciao, mi chiamo Ainot, vivo lassù» disse con semplicità indicando uno dei palazzi decadenti che attorniavano il grande “Central”.
«Vuoi vedere una cosa meravigliosa? Coraggio, vieni con me…»
La sua voce mi rieccheggiò nella testa e per un momento m’impietrì.
Non avevo mai sentito la voce di un’altra persona, visto che sotto terra abbiamo sempre comunicato leggendo e scrivendo… Non sapevo cosa fare.
Non si addice ad una ragazza per bene il tirar fuori la voce di fronte a qualcun altro, ma lui si era tolto il casco e non sapevo come rispondergli. La visiera sulla quale poter leggere quello che avevo da dire era fra le sue mani e i suoi occhi stavano fissi sui miei.
«Dove?» ho risposto timidamente e con un filo di voce…
Ainot mi ha preso per mano e la sensazione umida della sua pelle mi ha fatto provare un formicolio lungo tutto il corpo. Era la prima volta, che mi succedeva una cosa del genere.
Abbiamo camminato mano nella mano velocemente, tra gli sguardi indignati dei passanti fino all’ingresso del suo palazzo.
«Sei sicura?» mi ha chiesto l’ultima volta prima di entrare…
«Mmh», ho annuito.

Di corsa, abbiamo percorso l’infinita rampa di scale che portava su in cima. Non ero ancora del tutto abituata all’altezza e sentivo la mia testa comprimersi sempre più ad ogni piano. In tutto ne ho contati trentasette. Trentasette piani, prima di arrivare alla terrazza.
Appena fuori dalla piccola porta, Ainot mi ha messo una mano davanti agli occhi.
«Non guardare, non ancora!»… Avevo un po’ paura, ma sentivo di dovermi fidare e tenevo gli occhi sbarrati.
«Ok, apri gli occhi»…
È stato allora che ho visto scendere dal cielo un enorme getto di luce arancione, come una specie di raggio laser, caldo e avvolgente. Era lontano, in mezzo al mare. Era bellissimo.
Sono stata invasa da una sensazione meravigliosa, da un calore improvviso che mi scendeva dal collo lungo tutta la schiena.
Ainot mi stava spogliando, estasiato dalla bellezza dello spettacolo emanato da quella luce non era più stato capace di tenere a freno quello strano impeto che gli arrivava da dentro e io allo stesso modo, non ero stata più capace di opporgli resistenza.
Mi sono lasciata spogliare, continuando a fissare l’orizzonte tra le mani di un perfetto sconosciuto. Mani capaci, salde.
Non sentivo freddo, mano a mano che gli strati della tuta mi si avvinghiavano alle caviglie.
Le sue mani passavano sul mio corpo morbide come la seta, calde. Mi è venuto in mente il dvd che avevo trovato a casa e ho cominciato a muovermi ed ansimare come faceva quella donna.
Il suo viso sudato si schiacciava sulla mia pelle e Ainot mi mordeva, a volte invece mi leccava.
Il respiro si è fatto sempre più violento e ritmato fino a quando Ainot mi ha presa in braccio con decisione mi ha messa a sedere sul muretto del terrazzo. Dietro di me solo il vuoto, davanti e dentro me solo Ainot. Sopra di noi, la luce del sole, che finalmente tornava a splendere.

 
 
 

Un giovane Barista

Post n°8 pubblicato il 02 Luglio 2007 da just_ladies
 
Foto di just_ladies

No, non so come sia potuto succedere...
È stato un attimo e senza rendermene conto mi sono trovato li...
Un attimo forte, deciso, improvviso.
E mi sono fatto trasportare, senza avere le forze per reagire.
Forse perchè non volevo reagire?... Insomma, quando lo voglio davvero poi lo faccio...
Se ieri non ho reagito... Dannazione, detesto dover ammettere che mi è anche piaciuto.

Cazzo, non sono io, non doveva capitare a me! Eppure mi è successo.
Stupido, stupido, stupidissimo essere, incapace di tenere a freno i propri eccessi; questo sono!
Perchè Sonia mi ha lasciato? Stavamo tanto bene insieme, avevo persino trovato il mio equilibrio.
Poi lei se n'è andata, con quattro scuse m'ha mollato qua, in balia dei miei demoni e dei miei eccessi.

Ieri sera quando sono arrivato al bar era di una donna che avevo voglia.
Dopo un bel whisky, sia chiaro. I miei propositi erano tutti ottimi, non so come dopo, sia andato tutto storto.
Quel ragazzo al bancone mi ha posato gli occhi addosso fin dal primo momento che sono entrato nel bar.
Me ne sono accorto subito e ho pensato che magari poteva essere stato lui, a fregarmi la ragazza.
Ecco perchè l'ho fissato con così tanto ardore, perchè volevo vedere se la sua coscienza era sporca, se abbassava lo sguardo. E invece... quegli occhi...
Quello sguardo mi dava addosso una sensazione di non so ché... una parte di me lo respingeva e avrebbe voluto picchiarlo. Un'altra (nuova) parte di me invece lo cercava, cercava quello sguardo velato di kajal per tutto il locale.
Non so quando ho deciso di aspettarlo. Ma so che in quel preciso momento lui l'ha capito.
Sono stato seduto al bancone tutta la sera e per tutta la sera lui si è curato di tenermi il bicchiere pieno.
Si avviciava e con grazia mi versava da bere. Il suo odore era così buono. Le sue mani così sottili.
Una volta sola sono andato in bagno e guardandomi allo specchio, mi sono fatto schifo. Ma forse l'alcool era già troppo avanti.
Erano le tre quando siamo usciti. Non ci siamo detti nulla fino al mio appartamento, mi ha seguito come un cagnolino per i venti minuti di strada, che abbiamo fatto a piedi, sotto la pioggia.

Quando siamo arrivati su ho sentito la sua voce. "Ti dispiace se vado in bagno ad asciugarmi?", mi ha detto con un filo di voce. Gli ho sorriso ma senza guardarlo in faccia. Non so nemmeno come ci sia riuscito. Ancora non ero in grado di dire cosa mi sarebbe successo, in quelle poche ore che mi separavano dal mattino.
Il mio animo stava ancora a metà tra la voglia di picchiarlo, selvaggiamente, per fargli pagare le mie pene per Sonia... oppure scoparmelo.
Quando è uscito dal bagno sembrava un altro. Si era tolto la camicia bianca ed era rimasto soltanto con gli attillati pantaloni in pelle e il kajal sugli occhi. Quei capelli spettinati mi hanno fatto tenerezza. È stato lì che ho capito che non lo avrei picchiato e forse l'ha sentito anche lui, come aveva già sentito i miei pensieri in precedenza. Mi si è avvicinato e si è sbottonato i pantaloni. Stava in piedi, di fronte a me che stavo abbandonato sul divano.
Mi ha spogliato e mi ha massaggiato la schiena. Era dolce, forse più di Sonia. Dolce ed estremamente servile. Pareva essere lì per alleggerirmi dai guai. Non sono più ruscito ad odiarlo, nonostante tutto quello che abbiamo fatto dopo. Oddio, se ci penso ancora...
Non so nemmeno come si chiami, ma stanotte è stato magnifico. Non l'avevo mai provato, il sesso con un altro uomo. Era giovane, la sua pelle era morbida ma le sue mani capaci.
Ora è lì, abbandonato tra le mie coperte in un sonno beato. È stanco, questa notte l'ho fatto ballare.

 
 
 

KATRINA

Post n°7 pubblicato il 27 Giugno 2007 da just_ladies
 
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Correva l’anno 1750 e a quel tempo Parigi non si poteva certo annoverare tra i posti migliori in cui soggiornare. Sporca, caotica, maleodorante e infestata dai ratti, non era degna neppure d’esser consigliata al peggior nemico.
Fu proprio in quel periodo che a Parigi, cominciai a fare la puttana. Avevo si e no quattordic’anni.
La persona che mi comprò era una donna aspra, alto quel tanto che basta a costringerci tutte ad alzare la testa per guardarla, sporca quanto Parigi, nonché avvizzita nei suoi anni e consumata dai suoi innumerevoli amanti; vistasi ormai sull’orlo della vecchiaia, aveva deciso di riporre le sue maggiori speranze in me, forte del fatto che ero la figlia di sua sorella e tutto sommato non le sarei costata molto. Fu così che quello stesso anno mia madre decise di vendermi per un chilo di patate, un mulo e l’usufrutto di un campo per tutta la stagione estiva.

La sera che arrivai nella mia nuova casa, gli occhi di tutte le altre ragazze mi si posarono addosso appiccicose come la pece; qualcuna ridacchiava, qualcun’altra invece mi guardava male.
Ricordo la sensazione di disagio che tutti quegli sguardi mi diedero.
Avrei voluto scappare lontano, perdermi e ritrovarmi in un posto che non fosse Parigi, che non fosse quella casa che odorava di sesso e di malattie.
Le altre erano tutte più grandi di me; diciotto anni, qualcuna persino venti, o forse più.
Lavoratrici provette nel campo del sesso che si vendevano ogni sera (e ogni giorno), perché “quello che avevano fra le gambe valeva senza dubbio più dell’oro”, come ricordava la targa in ottone posta ben visibile in ogni stanza.
La vecchia non ci pensò su nemmeno un attimo, quando si trattò di scegliere la mia compagna di camera, quella cioè che da quel momento in poi mi avrebbe guidata insegnandomi il mestiere.
Katrina era una zingara di circa vent’anni; il suo atteggiamento era ribelle quanto il suo portamento era regale. Mi disse d’essere arrivata al bordello quasi dieci anni prima, venduta un giorno da suo padre per una scopata con la vecchia. Aggiunse anche che se avessi fatto come diceva lei, la mia vita lì dentro non sarebbe stata tanto dura.
Era una persona d’un pezzo, poco incline alle dolcezze, a tratti quasi sadica.
Ci feci ben presto l’abitudine.

Non appena entrammo in stanza, Katrina mi ordinò di spogliarmi. Diceva che non si poteva perdere tempo e che avrei dovuto imparare il mestiere quanto più in fretta possibile, giacché già dal giorno dopo avrei cominciato a pieno ritmo, sempre che qualcuno m’avesse scelta.
Dopo aver assistito alla mia lavanda, mi fece sdraiare sul letto e mi legò mani e piedi; mi penetrò con uno strano oggetto per tutta la notte. Ero vergine. Non lo sarei stata mai più.
Quella notte Katrina mise quel fallo duro e freddo in ogni mio anfratto. Mi costrinse ad infilarmelo in bocca fino quasi a strozzarmi; voleva a tutti i costi che me lo facessi arrivare in gola e che ce lo tenessi quanto più tempo possibile. Quando passò all’altro buco, quello in mezzo al sedere, mi venne quasi da ridere, a pensare ai capricci che avevo fatto per tenerlo in gola.
A quel punto la sensazione era ben diversa, ben peggiore. Mi fece male da morire ma Katrina continuò a ripetere che era per il mio bene, che “magari qualcuno l’avesse fatto con lei”, perchè era meglio il fallo gelido quella notte, piuttosto che un ciccione ubriaco l’indomani mattina.
Mi scopava e nello stesso tempo m’insegnava. Dovevo apprendere da ogni suo gesto, soprattutto quando toccava “il marmo”, come lo chiamava lei. E dovevo godere, o almeno darlo a vedere.
Smise soltanto alle prime luci dell’alba, permettendomi di riposare un poco.
Quando mi svegliai, fuori dalla stanza era tutto un vociare, tutto uno starnazzare. Misi il muso fuori in corridoio e vidi molte delle ragazze conosciute la sera prima -alcune mezze nude e alcune nude completamente- correre in modo caotico da una stanza all’altra, a volte inseguite da buffi individui, a loro volta nudi e con il marmo ben in vista per tutte. Mi eccitai un po’, se devo essere sincera.
Katrina però non si vedeva e in stanza con me non c’era.
Mi misi uno dei vestiti che c’erano nell’armadio e decisi di uscire per cercarla, quantomeno per capire da che parte cominciare. Mi aveva spiegato del sesso ma non mi aveva detto nulla di quello che veniva prima e non avevo nessuna voglia di mettermi a correre nuda assieme alle altre.
Camminai un po’ per l’edificio, salendo le scale e avventurandomi per i corridoi. Lo feci anche con piacere perché avevo bisogno di sgranchirmi le gambe.
Allontanandomi dalla zona centrale mi ero probabilmente infilata in un'area riservata perché il vociare si era dissolto e la casa pareva quasi una casa perbene.
Si sentiva solo un lievo sospirare nell’aria, come portato dal vento, ma non riuscivo a distinguerne la provenienza.
D’un tratto, entrai in un grosso salone dal pavimento lucido e scuro, pieno di poltroncine imbottite posizionate in modo ordinato lungo i suoi lati e con tre enormi lampadari in cristallo che pendevano dal soffitto. C’erano anche parecchi dipinti appesi alla parete ma non furono loro ad attirare la mia attenzione. Le vetrate di quella stanza erano immense e la vista sul giardino a diri poco meravigliosa. Per un poco tutto quello splendore distolse la mia attenzione da ciò che cercavo.
Fu quando sentii aumentare copiosamente quel sospiro che mi ricordai che stavo cercando Katrina per cominciare a darmi da fare. Scorsi una porta più piccola di quella dalla quale ero entrata, posta esattamente dall’altro lato del salone, mezza coperta da una pesante tenda di velluto beige.
Mi diressi in quella direzione e aperta la porta quel tanto che basta, m’infilai dall’altra parte.
Rimasi impietrita nel trovare Katrina a gambe aperte, comodamente adagiata su un grosso tavolo di legno. Aveva i capelli raccolti e indossava solo un corpetto slacciato, di seta nera.
Stava sdraiata supina tra i cuscini; appoggiata sui gomiti inarcava la schiena e ansimava come un’indemoniata. Un uomo teneva la testa fra le gambe divaricate della mia maestra, ma sul momento non avrei saputo dire se il tanto godere di lei era dovuto ai miracoli della sua lingua oppure agli altri tre uomini che le si stavano accalcando addosso.
Uno di loro, in piedi alle sue spalle le riempiva la bocca con il suo enorme marmo, questa volta quello vero, costringendola a stare con la testa piegata all’indietro. Un altro le succhiava i capezzoli e li mordeva e li strizzava come a volerglieli strappare; un altro ancora le leccava metodicamente i piedi e quest’ultimo lo osservai per bene. Leccava dalla punta di ogni singolo dito fino a metà polpaccio, poi tornava giù e succhiava scrupolosamente tutto quello che aveva poc’anzi leccato, tutto accompagnato da uno splendido massaggio a mano.
Katrina se ne stava morbida e lasciva e godeva come una pazza al centro di quel branco di bestie affamate.
Quello non mi era stato mostrato la sera precedente e mi parve una buona cosa, l’aver già imparato dell’altro da sola.
Persa dietro alla mia autostima non mi resi conto che uno di quegli uomini si era accorto della mia presenza e avanzava, nudo, verso di me, fissandomi come un lupo, con tanto di bava alla bocca.
Mi afferrò per un polso e senza dire nulla mi trascinò verso un’angolo della stanza, lontano dal gruppo che però ci seguiva con lo sguardo. Anche Katrina si era accorta ormai di me e sorridendomi con gli occhi, mi sembrò quasi compiaciuta.
Quell’uomo mi scaraventò senza nessuna delicatezza su un grosso sofà che pareva molto più morbido di quello che in realtà era e mi strappò con veemenza tutto quello che avevo addosso. Una sua mano bastava a coprirmi quasi tutto il petto e la sua forza era indubbia, dato che maneggiata da lui parevo quasi una marionetta. Mi penetrò selvaggiamente tenendomi una mano in faccia, gridando e godendo dei miei buchi stretti e io mi sentivo soffocare dall’odore di animale che emanava. Mi eccitava però, non potevo negarlo. Capii in quel momento che ero fatta per quel mestiere e lo capì anche Katrina.
Dopo qualche mese diventò lei la mia padrona, e lo diventò in tutti i sensi. Godeva nel vedermi scodinzolare per la stanza a gattoni, godeva nell’obbligarmi a stare sempre con almeno un seno scoperto, che mordicchiava e schiaffeggiava a suo piacimento e godeva nel legarmi al letto, succhiandomi e scopandomi come se fosse un uomo. A volte persino meglio. Godeva nel farsi leccare per ore fra le gambe. Le piaceva bendarmi, versarmi cera bollente addosso. Le piaceva guardare quando gli altri mi scopavano. E tutto questo piaceva anche a me.
La vecchia ci aveva visto giusto quando mi aveva consegnata fra le sue mani e per questo, pace all’anima sua, le sarò per sempre grata.
Perché Katrina era sì una puttana, ma a differenza di quelle che avevo visto zompettare il primo giorno in corridoio, lei non si dava a tutti. Lei era la ricca e viziata favorita del Re e venni a sapere qualche tempo dopo che era stato proprio lui, la bestia ansimante che mi aveva cavalcata in quel salone.
Per più di dieci anni io e Katrina condividemmo la stessa camera, gli stessi uomini, le stesse donne. Per più di dieci anni lei fu tutto ciò che avevo e imparai ad amarla più di ogni altra cosa.

 
 
 

NO SEX IN MY LIFE!

Post n°6 pubblicato il 25 Giugno 2007 da just_ladies
 
Foto di just_ladies

Goffa, impacciata, con la testa perennemente fra le nuvole e l’attenzione rivolta sempre ai miei penseri. L’i-pod , i miei libri (che non sono quelli di scuola, però), internet e il mio blog. Il cane, lo sport, la discoteca. Sono normale in tutto, rientro perfettamente nel canone “solito” dei ragazzi della mia età, a malincuore mi vedo rinchiusa in quel gregge di pecorume, insieme a tutti gli altri; se non fosse per una cosa: io non mi interesso al sesso e questo fa di me praticamente un’aliena. Le mie amiche passano giornate intere chiuse in una stanza a cinguettare e a sbellettarsi con rossetti, rimmel e compagnia bella, spendono tutti i loro soldi, centesimi compresi in gonnelline inguinali e top avvinghianti e poi non hanno mai i soldi per le sigarette. Le fottute sigarette che poi devo sempre offrire io a tutte quante; sia chiaro, non sono una tirchia! È che loro ci si sentono belle, ma alcune nemmeno aspirano...
Comunque, le mie amiche non si spiegano “come mai una ragazza così bella non sia interessata al sesso”, io che “ovunque guardo vedo solo uomini sbavosi che con gli occhi mi fanno capire -come se ce ne fosse bisogno- che ci starebbero”, insomma se io glielo permettessi. A volte le odio.
Devo ammettere però che quando mi capita di incontrarne uno particolarmente sicuro di sé a volte mi ci diverto un po’.
Ad esempio: l’altra sera chiacchieravo in un locale del centro con alcuni amici, quando al tavolo accanto al mio ne arriva uno di questa specie; stava con una ragazza bionda che pendeva dalle sue labbra con vomitevoli occhi adoranti. Lui mi guarda due volte o meglio, per due volte non fa in tempo a cambiare traiettoria con lo sguardo perchè sono più rapida di lui. Lei se ne accorge, ma questo lo capisco solo io. La biondina non ha nemmeno il coraggio di farsi vedere alterata, manco avesse paura di un ceffone in piena faccia.. Ok babbeo, l’hai voluto tu; e tu, bionda, stai pure comoda che al tuo bello ‘sta sera ci penso io... Inizio con gli sguardi. È incredibile come gli uomini si eccitino con un paio di occhiate ben mandate. Prima di tutto lo catturo così, lo scemo. Una volta preso all’amo il gioco è facile, basta la frase giusta detta al momento giusto. La bionda gli parla in sottofondo e lui annuisce matematicamente ma io so che sta ascoltando oltre il suo tavolo, oltre la voce di quella che fino a dieci minuti fa era “la preda della sua serata”. Lui ascolta la conversazione al mio tavolo, ascolta me. Lo so e per questo sono particolarmente brillante. Le mie frasi sono ironiche, veloci, taglienti. Lui sorride, lo vedo un paio di volte. Lei si alza, va in bagno. Lui mi fissa, senza nemmeno curarsi che lei abbia voltato l’angolo. Lui mi fissa. Ce l’ho! È mio! Bang! Colpito. A questo punto lo spiazzo la prima volta. Dico qualcosa di molto sexi e guardandolo mi alzo, consapevole che lui non può farlo perchè sta sicuramente “curando” il cappotto della bionda; vado al bancone a ordinare da bere. So che i suoi occhi sono fissi sul mio culo, quindi cammino ancheggiante ma con passo sicuro. Fa molto “puledra selvaggia” e serve a tenere incollato lo sguardo. Arrivo al bancone e piegandomi e sporgendomi per bene gli mostro come curvo bene il fondo schiena; ordino un cuba libre; mi serve qualcosa che entro un quarto d’ora si annacqui con il ghiaccio sciolto, non mi devo ubriacare (ubriacarsi è un pessimo errore! Si vuole sempre superare il limite e, nel mio caso, si perde il senso di quello che si fa). Quando torno al tavolo la bionda è lì e ha già riattaccato a parlare. Mi siedo ma lui non mi sta guardando. L’ho spiazzato e ora lui vuole fare lo stesso. Prevedibile.
Accendo una sigaretta e la fumo aspettando la sua mossa che arriva quando non l’ho ancora finita. Lui si alza, si passa le mani dal petto alla vita (come per tastare il contenuto di invisibili tasche) e va verso il bagno. A metà strada si gira e mi guarda.
Ok, arrivo. Ma sappi che sarà peggio per te.
Mi alzo, faccio l’ultimo tiro e un sorso di cuba. Lo seguo. Quando entro in bagno lui è appoggiato al muro in una posa da “Fonzie” che gli si addice poco ma si vede che l’ha già provata (magari con la biondina...). Io non dico una parola e fissandolo fin dentro all’anima vado verso di lui. Una mano va sul petto, l’altra gliela metto in faccia. È perchè vorrei dargli uno schiaffo ma non posso, rovinerebbe la scena. Piano piano avvicino la bocca al lobo del suo orecchio e glielo mordo. Gli tappo la bocca e gli lecco il collo. Lo guardo, faccio per baciarlo ma mi scosto, ripeto la mossa un po’ di volte. Lo guardo, gli sorrido. Lui è fuori di sé. Sa che ha poco tempo e sa che lo sto facendo impazzire. Quando gli metto una mano fra le gambe, viene, miseramente nelle sue mutande. Missione compiuta. Sorrido e vado a lavarmi le mani nel cesso delle donne. E poi vado a godermi l’espressione “sicura di sè” che avrà spiegando alla biondina come il flaccone del sapone sia esploso proprio mentre lui era lì per lavarsi le mani...

 
 
 
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