Creato da nonnobizzarro il 06/10/2006
Diario di Viaggio
 

 

La fine arrivò un venerdì mattina di fine gennaio.

Post n°56 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da nonnobizzarro

Senza esplosioni o clamori. Così come arrivano le cose peggiori: silenziosamente. La Nation Wide Bank smise semplicemente di rispondere alle telefonate dei propri clienti. Poi verso le undici un messaggio pre registrato annunciò loro che a causa di un’emergenza le linee erano temporaneamente fuori uso. Nessuno si accorse veramente di nulla fino al lunedì successivo, quando ormai tutto era già cominciato.

La cosa si diffuse come la più virulenta delle epidemie. Prima la Nation Wide, poi la Chase, poi Citibank... E più la crisi trovava spazio sulle pagine dei quotidiani e più le file davanti agli istituti di credito, ai bancomat, alle poste si facevano lunghe. In tutto il mondo. L’Europa seguì l’esempio degli Stati Uniti con la solita prontezza e subito dopo seguì anche il mercato asiatico. I residui regimi pseudo comunisti furono gli ultimi a cadere. Ma anche loro caddero.
Gente che aveva risparmiato per una vita per comprare una casa, per far studiare i figli e solo per avere una vecchiaia più sicura, si ritrovò senza nulla. Nel giro di pochissimi giorni.

Di buono c’era che chi aveva poco e aveva perduto tutto si ritrovava ora in buona compagnia. E numerosissima. Anche chi pensava di poter cadere in piedi, scoprì che la cosa era più grave del previsto. Nel giro di appena un anno, la proprietà privata prese a valere solo quanto la capacità che si aveva di difenderla. I palazzi e le abitazioni delle grandi città furono prese d’assalto e occupate. Abitazioni da miliardi di dollari, uffici, ministeri divennero dormitori. I centri delle più grandi città si ripopolarono di colpo. Ma quest’euforia fu una cosa temporanea. Ben presto ci si accorse che la città non offriva nulla, a nessuno, che l’asfalto era impossibile da arare e coltivare e che senza la grande distribuzione le metropoli come New York, Londra, Bombay erano solo sterminati deserti. I prezzi degli immobili crollarono e quello fu l’atto finale, il colpo di grazia.

Milioni di persone che avevano fatto del loro ingegno la propria professione, si trovarono non solo senza lavoro, ma anche totalmente impreparati, visto che, di fatto, non sapevano fare nulla. L’energia elettrica fu razionata. Poche ore di erogazione al giorno. Ma i black out anche in quelle ore erano frequentissimi. Era impossibile persino fare un ciclo completo di lavaggio con una lavatrice. E questo cambiò radicalmente la vita di moltissima gente, soprattutto naturalmente delle donne.

Molti trovarono rifugio nelle campagne, ma la situazione lì non era di molto migliore. Le poche case che ancora conservavano una parvenza di normalità, erano quelle che erano state attrezzate con pannelli ad energia solare. Ma bisognava difenderle coi denti.

Le macchine, senza più carburante, furono ammucchiate ai lati delle strade e le lunghe petroliere che un tempo solcavano i mari rimasero nei porti ad arrugginire. Le biciclette cominciarono a diventare sempre più diffuse come mezzo di locomozione, ma gli anziani e gli invalidi si ritrovarono costretti a restare nelle loro case.

La maggior parte dei negozi fu chiusa. In tutto il mondo. Per prime le grandi catene e le boutique di lusso poi i piccoli esercizi. In qualche paese cominciarono a sorgere piccoli mercatini di quartiere dove non era utilizzata alcuna moneta. Si contrattavano prestazioni di lavoro, scambi di oggettistica e di favori.

L’aria diventò diversa. Più limpida. I cieli erano solcati solo occasionalmente da aeroplani che col tempo divennero sempre più rari. Certo le strade erano molto pericolose. Al buio poteva accadere di tutto e per lungo tempo si rispettarono coprifuochi e si organizzarono ronde di cittadini contro le bande che imperversavano ovunque, saccheggiando e violentando. Col tempo però ci si stancò anche della violenza anche perché i proiettili cominciarono a scarseggiare e dover uccidere qualcuno guardandolo negli occhi richiedeva un coraggio che quasi nessuno aveva più.

In poco più di 10 anni ogni cosa era cambiata. Le chiese si riempirono, ma cominciarono a predicare un dio che rapidamente andava assomigliando al prototipo di uomo che lo andava invocando: smarrito, aggressivo e con troppo tempo a disposizione.

Poi finalmente arrivò il buio, anche lui silenziosamente, e fu bellissimo e pieno di speranza benché gli esseri umani, i pochi rimasti, di quel sentimento non sapessero più che farsene.

 
 
 

Ellis Island

Post n°55 pubblicato il 04 Maggio 2008 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

Stai su una panchina. Davanti a te un gabbiano di 100 chili guarda le tue patatine fritte con bramosia. Sulla tua sinistra, centinaia di turisti fanno la fila per salire sul battello che lì riporterà in città. Adesso potranno finalmente dire a parenti e amici: “Ci sono stato!”. Sulla destra il mare sporco della baia. Alle tue spalle un’enorme e pesante signora di bronzo. Ti viene in mente una storia ragionevolmente vera. Questa:

Il “Peter Stuyvesant”, il vaporetto che scaricava immigrati nelle strade indaffarate e maleodoranti di New York, ondeggiava sulle acque verdastre dell’East River. Era salpato pochi instanti prima dal molo di Ellis Island ed in lontananza si vedevano ancora i casamenti in mattoni rossi in cui avevano trascorso le ultime settimane.

Erano stati fortunati a salire su quel battello, l’ultimo della settimana. Non ci fossero riusciti gli sarebbe toccato di restare sull’isola fino a lunedì e né Edward né sua moglie avevano piacere che ciò accadesse.

“Un’isola non è un bel posto dove far nascere un bambino”, disse lei, mentre il vento piegava il fumo sputato fuori dai motori del battello. Lo disse non sapendo che anche Manhattan e Brooklyn, i posti in cui avrebbero trascorso il resto delle loro vite, lo erano. Edward annuì, paziente.

Sua moglie aveva ripetuto quella frase durante tutta la loro permanenza sull’isola ossessivamente. L’aveva ripetuta come una cantilena, una preghiera o meglio ancora un rito scaramantico. Lui avrebbe voluto accontentarla, ma era consapevole d’essere semplicemente un cuoco polacco e di non avere il potere di decidere dove, come e quando quella creatura avrebbe visto la luce. Una speranza in cuor suo però l’aveva: che non uscisse fuori prima del tempo, prima insomma che avessero messo finalmente piede sul nuovo continente. Suo figlio doveva nascere in america, doveva essere americano.

La pancia di sua moglie era enorme e la cosa lo meravigliava quotidianamente. Sopratutto lo stupiva come cambiasse forma ogni giorno, secondo gli spostamenti dell’essere che vi si trovava all’interno.

Sulla sinistra del battello fece capolino, nell’oscurità della sera che si affacciava sicura, la sagoma della Statua della Libertà e più in là le prime luci della città.

Edward fece un rapido calcolo. Erano trascorsi poco meno di nove mesi dal giorno in cui avevano deciso di partire. Di lasciare Varsavia. Di quella notte fatta di paure, perplessità, lacrime e tenerezze che ormai sembravano solo un ricordo lontano, restavano unicamente quella pancia e il suo contenuto. E ora, un tardo pomeriggio d’ottobre, anno di grazia 1907, l’anno destinato a portare sulle rive degli Stati Uniti il maggior numero d’immigrati, le cose stavano per cambiare. Nella loro vita ci sarebbe stato un prima e un dopo quel giorno e loro questo lo sapevano bene, ma non serviva a nulla rimuginarci sopra perché davanti a loro due, tre, adesso c’era solo il resto della loro vita.

Il battello prese un’onda e cominciò ad oscillare paurosamente. Sempre che fossero riusciti ad arrivarci alla terra ferma, pensò Edward e prese la moglie per mano nel tentativo di tenerla ferma. Tentativo superfluo, perché i giovani sposi erano perfettamente ancorati a quella moltitudine di spiantati provenienti da ogni dove e anche volendo non sarebbero riusciti a fare un solo passo.

Lei si voltò per un’ultima volta verso l’enorme nave che li aveva condotti fino a lì. La guardò in lontananza con un misto di nostalgia, rispetto e sollievo. Ne lesse per un’ultima volta il nome impresso sulla fiancata: Kaiserina Augusta Victoria.

Poi si girò vero il marito e disse: “Se nasce una femmina mi piacerebbe chiamarla Victoria, che ne dici?”.

Lui sorrise ma non rispose. Sapeva bene che non si trattava di una vera domanda e sapeva bene di non avere alcuna voce in capitolo. Poche cose sono più dure della testa di una donna polacca incinta.

Rimasero lì, l’uno accanto all’altra, in un silenzio d’altri tempi. Fino a quando il battello non ondeggiò di nuovo, questa volta perché aveva urtato la banchina. L’orda di passeggeri cominciò a ribollire, impaziente. Poi un uomo sul molo con una voce sguaiata urlò qualcosa in una lingua che ancora non era loro familiare e i portelloni si aprirono.

“Che cosa ha detto?”, chiese la donna a suo marito.

“Ha detto benvenuti a New York.”, mentì lui con sicurezza. Lei fece un gran sorriso e lo abbracciò stretto.

Naturalmente l’uomo non aveva detto niente del genere, ma la cosa non aveva più molta importanza perché l’orda aveva cominciato a muoversi. Ancora pochi passi e il loro viaggio sarebbe veramente cominciato.

 

 
 
 

A boy named Trampoline.

Post n°54 pubblicato il 31 Marzo 2008 da nonnobizzarro

C'è un bambino in cima ad una lunga scala a pioli. Davanti a sé ha un trampolino e dietro un bambino grasso che ha fretta e batte ritmicamente il piedino a terra, impaziente.

Il bimbo magro e bianco se ne sta lì, fermo. Sotto ai piedi il vuoto e forse più giù anche l'acqua. Il problema è che da quell'altezza la presenza del liquido è più che altro un atto di fede. E lui non ha mai creduto molto né a Dio né ai Puffi.

Si volta verso l'altro bambino, quello grasso, che sbuffa.

Poi guarda il trampolino.

Poi si volta di nuovo e per una volta dice esattamente quello che pensa:

"Bambino, non mi spingere... so cadere benissimo da solo."

 
 
 

Una domenica mattina,

Post n°53 pubblicato il 08 Gennaio 2008 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

in un locale di Greenpoint, il quartiere polacco di Brooklyn, davanti ad un muffin salato ricoperto di uova e gravy, tua madre ti ha raccontato una storia che la riguardava. Questa:

Troverete che Aruba è l’isola più sicura, stabile ed amichevole nel Regno dei Paesi Bassi. Il governo olandese ha dotato l’isola di tutti i più moderni comfort e i turisti in visita non potranno che trovarsi a loro agio proprio come se fossero a casa loro. In genere gli abitanti sono molto educati, spesso parlano diverse lingue e si considerano per lo più molto felici. La maggior parte di loro poi ha un elevato tenore di vita e quasi tutti quelli che desiderano un lavoro riescono a trovarlo ad Aruba. L’isola è una meta molto ricercata e raffinata e quindi non troverete barboni accampati per le strade né i tipici e fastidiosi venditori ambulanti che infestano le altre isole caraibiche. Anche i poliziotti sono molto gentili, disponibili e soprattutto sorridenti così tutti possono vedere che tutto va bene ad Aruba!

Deri non poteva che essere d’accordo. Del depliant pubblicitario la colpì sopratutto quell’ultimo passaggio, quello sull’assenza di barboni sull’isola. In effetti, non ne aveva visti. Chissà, dove li mettevano, cosa ne facevano, come li nascondevano… “Sì”, pensò tra sé la donna. “Va tutto bene ad Aruba, tranne il fatto che mia madre sta morendo.”.

A questo punto è necessario fare un passo indietro per cercare di capire che cosa ci facevano lei, suo fratello Cory e sua madre Vicky in un ospedale delle Antille Olandesi il primo gennaio del 2000. La Risposta a questa domanda va cercata in quell’articolo sul numero di Playboy di novembre (la coniglietta del mese era Cara Wakelin) che cantava le lodi di questo piccolo gioiello dei Carabi. Cory lo aveva letto durante una delle sue sedute onanistiche e aveva immediatamente deciso di acquistare un biglietto per una crociera natalizia che toccasse, tra gli altri luoghi ameni sparsi nel golfo del Messico, anche la piccola isola di Aruba. 

Bene, o quasi, perché la crociera era ben al di sopra delle loro possibilità economiche che al momento erano piuttosto ristrette. Cory, infatti, dopo aver lavorato per anni per un’azienda di forniture belliche, si ritrovava ora senza lavoro a causa di quella mammoletta di Bill Clinton (per il quale tuttavia nutriva, come tutti gli americani, una certa invidia per via delle note pratiche “oratorie” della signorina Monica Lewinski). “Tempo di pace tempo di magra!" Era solito ripetere Cory.

Deri dal canto suo riusciva a perdere il proprio impiego d’infermiera un giorno sì e l’altro pure. Un po’ perché le contrazioni del mercato richiedono che le aziende oggi come oggi siano molto flessibili e che di conseguenza lo siano anche le vite delle persone che vi lavorano, un po’ perché non era mai stata in grado di risultare simpatica a nessuno: medici, colleghi, portantini. Tutti la detestavano, esclusi fortunatamente, i pazienti che invece l’adoravano.

Vicky quindi con la sua pensione da segretaria, mandava avanti un po’ tutta la baracca: ex mariti, ex mogli e figli dei suoi figli compresi.

Fu dunque proprio con la sua carta di credito che, dopo aver ben vagliato la questione, Cory decise di comprare tre biglietti. “Sarà probabilmente l’ultima vacanza con la vecchia! È giusto che sia memorabile.” Disse alla sorella per telefono.

A quella dimostrazione d’inguaribile idiozia Deri rimase in silenzio, sconcertata come sempre di fronte alle follie del fratello. Riuscì solo a balbettare un profetico: “Ma non pensi che potrebbe essere un po’ stancante per mamma? In fondo ha sempre 84 anni!”. La sua obiezione però fu del tutto inutile.

Ed ecco che ora lei e suo fratello si ritrovavano nel corridoio del Dr. Horacio Oduber Hospital a vegliare il coma della vecchia.

Galeotto fu il pranzo di natale e la più grossa aragosta che i tre avessero mai visto: un animale preistorico dallo sguardo vacuo e vagamente intimidatorio che il cuoco della nave aveva pensato bene di cucinare al vapore. In seguito a quel pasto Vicky si era sentita poco bene. “Per forza! Con quello che ha mangiato!” Obiettò Cory a fine pasto. Ma Deri che per la verità era una brava infermiera, aveva subito intuito che nel malore della vecchia c’era qualcosa di strano e aveva deciso di portarla al pronto soccorso per un controllo.  Ed ora erano là.

Deri si girò tra le mani il depliant, che diceva anche:

 

Quando si pianificano le proprie vacanze è importante considerare che ci si potrebbe trovare a dover disporre di strutture mediche nell’infausto caso di malattia o incidente. Coloro che si preoccupano di queste possibilità possono stare tranquilli, ad Aruba le cliniche e gli ospedali sono moderni e ben attrezzati per ogni evenienza.

Il primario uscì dalla stanza nella quale era stata ricoverata Vicky. Era un tipo alto, magro e nero, che somigliava vagamente al Bill Cosby prima maniera.

“Ma forse qualsiasi negro in camice fa venire in mente i Robinson.”. Pensò Deri, non senza un brivido di colpa per aver pensato la parola “negro”.

“Signori, voglio dirvi che la situazione è piuttosto grave. Stiamo facendo il possibile, ma è mio dovere di dirvi che non credo che vostra madre uscirà dal coma.”.

“Non è possibile! Sono sicuro che se fossimo a New York ora mia madre starebbe con noi a festeggiare il capodanno!” Sbottò Cory, sfogando tutta la sua congenita arroganza yankee.

Il dottor “Robinson” non fece molto caso alla stupidità dell’uomo bianco. Ci era abituato.

“Se lo ritenete opportuno esiste un servizio di ambulanze volanti. Vi porteranno in suolo americano in poche ore, ma sinceramente non credo che la signora andrebbe spostata da qui!”

“Certo che lo riteniamo opportuno!” Concluse Cory fieramente.

“Come volete. Vado a riempire le pratiche necessarie allora.”

Deri, come di consueto davanti alle manifestazioni di aggressività del fratello, non aveva spiccicato parola.

Ora che il medico era andato via, però, decise di dire la sua: “Forse non dovremmo spostarla.”.

“E tu vorresti lasciarla qui? Ma non vedi che posto è questo? Non c’è nessuno! Sono tutti a festeggiare il fottuto capodanno!”

“Cory io non…” Ma poi tacque. Tanto non sarebbe servito a nulla insistere. Sapeva che su madre non sarebbe mai uscita dal coma, sapeva che era già morta, che non c’era nulla da fare. Lo sapeva non solo perché era un’infermiera professionista, ma anche e soprattutto perché dentro di sé, per la prima volta, era serena.

Qualche ora dopo erano in volo su un piccolo e traballante apparecchio attrezzato per il trasporto di degenti. Deri teneva la mano della madre che se ne stava nel lettino, tenuta in vita unicamente grazie agli sforzi del respiratore Ventmax 2000.

Sotto le lenzuola, la vecchia sembrava piccola, leggera, quasi una bimba. Cory però non aveva il coraggio di guardarla, preferendo contemplare le nuvole rapide nel finestrino. In fondo per tanti anni aveva fatto il pilota per l’Airforce e volare gli era sempre venuto meglio che fare il figlio.

Un’hostess carina e gentile uscì dalla cabina di pilotaggio. Si rivolse direttamente a Deri, riconoscendole forse il coraggio necessario a prendere una decisione in merito alla domanda che stava per farle: “Stiamo per atterrare. A terra vogliono sapere se è necessario un prete, per l’estrema unzione, voglio dire.”. Il sorriso accondiscendente di Deri tolse la ragazza dall’imbarazzo di dover chiedere una cosa del genere. D’altronde anche lei si era trovata spesso in quella medesima e spiacevole situazione.

“Non so. Mi dia cinque minuti.”

“Certo.”

Deri guardò di nuovo il fratello, era ancora incantato a scrutare l’aria davanti la lui, poi si voltò verso la madre. In quel momento ci fu un vuoto d’aria e le mancò il respiro. Chiuse gli occhi.

Quando li riaprì notò con sorpresa che anche quelli di sua madre erano aperti. La vecchia guardava sua figlia sorridendo. Deri avrebbe voluto dire qualcosa di bello, d’importante, di eterno ed invece, come sempre, fece il suo dovere: “Mamma, vogliono sapere se vuoi vedere un prete.”.

La donna fece cenno alla figlia di avvicinarsi. Deri accostò la testa alla bocca della madre e distintamente intese queste parole:

“Che il diavolo mi porti, io non ci penso proprio!”

Poi la vecchia chiuse gli occhi e smise di respirare. Per sempre.

Non erano granché come ultime parole, pensò Deri, ma d’altronde sua madre non era mai stata molto diplomatica. Come consolazione c’era il fatto che, tecnicamente, era morta in territorio americano. Il velivolo era entrato da pochi minuti nello spazio aereo statunitense. Vicky, che aveva sempre e solo desiderato di poter essere considerata americana, era perlomeno riuscita a morire in patria, anche se mai come in quell’ultimo istante aveva dimostrato inequivocabilmente di essere una solida, coriacea e inossidabile donna polacca.

Deri guardò suo fratello: non si era accorto di essere diventato orfano. Lei si chiese se fosse il caso di dirgli quello che era appena successo, ma poi pensò che almeno quel conclusivo ed insperato momento d’intimità lo avrebbe conservato solo per sé. E, infatti, così fece.

 
 
 

Il retro della Cougar è ricolmo di roba:

Post n°52 pubblicato il 08 Gennaio 2008 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

un letto gonfiabile da 19 dollari, una sedia pieghevole raccolta vicino alla spazzatura, una lampada di legno, con bruciature di sigarette, una scrivania di plastica, una sacca piena di libri, una chitarra e una valigia straripante di maglioni di lana.

Il vetro è completamente appannato e la visibilità fa schifo. Per fortuna sulla Brooklyn Queens Expressway di norma si procede a passo d’uomo. Ti volti verso tua madre. È lei che guida. Sembra una bambina con le rughe che tiene il broncio. Dietro di lei, sullo sfondo intravedi uno sterminato cimitero. Metti meglio a fuoco: le pietre tombali sparpagliate un po’ a caso spuntano come alberi rinsecchiti. Più in là, contro il cielo bianco, i grattacieli di Manhattan ti fanno un po’ lo stesso effetto. Fai scendere il finestrino e scatti una foto. L’aria fredda entra nell’abitacolo disappannando il parabrezza. Di colpo, il quartiere nel quale vi trovate diventa perfettamente visibile.

“Non posso credere che sto portando mio figlio a vivere in questo posto.”. Dice tua madre mettendo la freccia per uscire su Graham Avenue. “È persino peggio di Yonkers!”

Non controbatti. Ha ragione lei. È persino peggio del posto in cui hai vissuto fino a adesso. Almeno dalla finestra di casa tua vedevi il fiume e i boschi del New Jersey. Qui invece non c’è nulla da vedere. Anzi, non c’è nulla e basta. Zero negozi, zero alberi, zero esseri umani. Niente. Solo capannoni industriali dal contenuto misterioso che si succedono per chilometri.

È strano andare a vivere da solo (di nuovo) alla veneranda età di trent’anni. Pensavi di aver già chiuso questa pratica parecchio tempo addietro. Evidentemente ti sbagliavi.

“Accosta lì che faccio una chiamata.”. Tua madre ti dà retta e ferma l’auto nei pressi di un Deli, poi ti vede scendere ed entrare nel negozio.

Il Deli è maleodorante come tutti i Deli che si rispettino. Un gatto sonnecchia pigramente usando un sacchetto di riso basmati come cuccia. Nei refrigeratori ci sono solo alcolici. Litri e litri di birre di bassa qualità. Marche che non hai mai nemmeno sentito nominare.

Il tipo dietro al bancone sta friggendo del pollo fosforescente. Gli chiedi se puoi usare il suo telefono. Lui ti risponde in spagnolo: “Seguro!” Metti un paio di quarti di dollaro nell’apparecchio e componi il numero che ti sei segnato sul palmo della mano. La linea è libera. Un paio di squilli. Poi risponde una voce femminile. Ha un vago accento mitteleuropeo.

“Ciao, sono io… quello che deve prendere la camera… sono in zona, ma… non riesco a trovare il portone.”. Balbetti tu.

Lei ti ascolta e poi, dopo una breve pausa d’imbarazzo, dice solo: “Ok.”. E riattacca.

Perplesso, attacchi anche tu. Poi ringrazi lo chef di nouvelle cousine e torni alla Cougar.

“Dovrebbe essere qui dietro.” Dici con fare sicuro entrando in auto. Tua madre evita di chiederti altre delucidazioni ed avvia l’auto. Sennonché, girato l’angolo, v’imbattete effettivamente nel civico che stavate cercando: 60 Porter Street.

“Ecco è quello!” Esclami tu. Tua madre nota, un po’avvilita, il tuo insolito entusiasmo e commenta a bassa voce: “È il buco del culo del mondo questo!” Tu non ci fai caso e ti lanci fuori dall’auto.

Attorno al palazzo c’è un’inferriata nera che, però, è aperta e “il portone” è una porta di legno grigia senza serratura che ondeggia spostata dal vento. Controlli di nuovo il civico e poi alzi lo sguardo. Da una finestra al secondo piano s’intravede una t shirt rosa con sopra disegnato un ratto giallo. A quel punto ti volti verso tua madre, le sorridi ed entri nel palazzo.

Non fai in tempo a sentire il cattivo odore che pervade tutto che vedi con la coda dell’occhio una ragazza bionda scendere le scale di corsa. Quando ti è davanti ti guarda per un attimo, incuriosita forse dal tuo cappello di pelo, e poi ti dice: “Sei tu? Quello della stanza?”

Tu, e a quel punto vorresti già chiederle di sposarti, le rispondi come se fossi davanti ad un prete pronto ad unirvi in matrimonio: “Sì!”

In quel momento ti accorgi che ti tremano le gambe e che sei diventato tutto rosso. È bellissima: occhi azzurri, riccioli biondi, labbra a cuoricino. Sembra una bambolina bavarese. Non avresti mai osato sperare tanto. Non da un annuncio su internet, comunque. Hai sempre pensato che per la rete girassero solo donne grasse.

“Vuoi una mano a portare su le tue cose?” Ti dice lei come se abitare con te fosse la cosa più naturale del mondo.

Tu fingendo virilità, scuoti la testa. Allora lei si gira e risale di corsa le scale di legno. I gradini scricchiolano paurosamente ad ogni passo, ma tu non ci fai caso perché, per la verità, le stai guardando il culo.

Confuso, felice ed sbronzo di tanta nordica bellezza torni alla macchina sorridente e cominci scaricare la tua roba. Tua madre ti guarda, sempre più perplessa, ma non dice nulla fino a quando non avete finito. A quel punto si volta verso di te e col cuore piccolo piccolo ti chiede: “Almeno l’hai vista la stanza?”

“Certo che l’ho vista!” Menti.

“E com’è?” Ti chiede lei.

“È… BELLISSIMA.” Rispondi tu sospirando.

Lei scrolla le spalle e, trattenendo i lacrimoni dai suoi occhioni di bambina, risale sulla Cougar. Prima di andare via apre il finestrino e ti dice: “I love you.”. Ma lo fa piano piano, con pudore.

Quando vedi l’auto andare via, comincia persino a nevicare. È tutto troppo perfetto e, mentre te ne stai solo sul marciapiede, in mezzo alle tue quattro cose davanti al civico 60 di Porter Street, pensi proprio che ti piacerà molto vivere a Brooklyn.

 

 
 
 
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