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Il Buco Nero

Post n°214 pubblicato il 02 Marzo 2024 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

In astrofisica, un buco nero è un corpo celeste con un campo gravitazionale così intenso, una regione dello spaziotempo con una curvatura talmente grande che dal suo interno non può uscire nulla, nemmeno la luce.

La gravità domina su qualsiasi altra forza, determinando un collasso gravitazionale che tende a concentrare lo spaziotempo in un punto al centro della regione, dove è teorizzato uno stato della materia di curvatura tendente a infinito e volume tendente a zero chiamato singolarità, con caratteristiche sconosciute ed estranee alle leggi della relatività generale.

Il limite del buco nero è definito orizzonte degli eventi, regione che ne delimita in modo peculiare i confini osservabili.

Per le suddette proprietà, il buco nero non è osservabile direttamente.

La sua presenza si rivela solo indirettamente mediante i suoi effetti sullo spazio circostante: le interazioni gravitazionali con altri corpi celesti e le loro emissioni, le irradiazioni principalmente elettromagnetiche della materia catturata dal suo campo di forza.

L'esistenza di tali oggetti è oggi definitivamente dimostrata e via via ne vengono individuati di nuovi con massa molto variabile, con valori fino a 5 miliardi di masse solari.

Un buco nero non ha propriamente un fondo, perchè non è realmente un buco.

Il termine "buco" è usato soltanto per far capire gli effetti dell'enorme attrazione gravitazionale che esso esercita su tutto ciò che capiti entro il suo raggio d'azione.

Secondo la teoria della Relatività Generale, un buco nero è in realtà una regione dello spazio-tempo "isolata" dal resto dell'Universo, nel senso che tutto ciò che ne viene catturato (compresa la luce!) non riesce più ad uscirne, e le leggi della fisica che valgono all'esterno non sono più valide all'interno di quella regione.

In sostanza, ancora non sappiamo con precisione cosa succeda alla materia quando finisce dentro ad un buco nero.

Secondo la teoria, tale regione si è formata perchè una certa quantità di materia si è concentrata, a causa della gravità, in uno spazio piccolissimo, praticamente in un punto, raggiungendo così una densità altissima (teoricamente infinita), il che fa sì che possieda anche un'enorme attrazione gravitazionale.

Il buco nero (nel caso più semplice di buco nero che non ruota e che non ha carica elettrica) risulta allora formato da una regione sferica che ha al centro tale punto chiamato singolarità, dove la materia è concentrata.

Questa regione è delimitata dal cosiddetto orizzonte degli eventi, una superficie ideale che segna il confine tra l'interno e l'esterno del buco nero.

Infatti se un oggetto, passando vicino a quest'ultimo, ne viene attratto ed è costretto ad attraversare l'orizzonte degli eventi, finirà nella regione dove l'attrazione gravitazionale è talmente forte da impedirgli di fuggire, e precipiterà verso la singolarità.

Perfino la luce, che possiede la velocità più alta nell'Universo (300.000 km/s), non riesce ad uscire e poichè non possiamo riceverla ci appare nera, da cui il nome di buco nero.

Il mistero che circonda il buco nero è oggetto di studi da tutti gli scienziati del mondo e certamente la sua soluzione sarà la risposta a tutte le domande che ci poniamo guardando il cielo.

 

da Internet

 
 
 

Un aggiornamento dopo 46 anni a 20 miliardi di km

Post n°213 pubblicato il 26 Ottobre 2023 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Le sonde Voyager 1 e 2 stanno per ricevere una nuova patch software, 46 anni dopo il loro lancio nello spazio e l'inizio del loro viaggio.

Lo ha annunciato il JPL, illustrando gli ultimi interventi di manutenzione in corso per assicurare che le due astronavi continuino a operare ancora per diversi anni a venire.

Si ritiene che entrambe le sonde abbiano oltrepassato l'eliosfera, la regione del sistema solare in cui l'influenza del vento solare predomina rispetto al vento interstellare.

Oggi rappresentano un avamposto scientifico unico e di primaria importanza per lo studio di un ambiente per noi assolutamente sconosciuto.

Lo scorso anno, Voyager 1 fece prendere uno spavento al team di controllo della missione, quando i dati di telemetria ricevuti a Terra dal sottosistema AACS (attitude articulation and control system) responsabile del mantenimento dell'orientamento della sonda, cominciarono ad apparire privi di significato.

La causa fu allora individuata in un errore generato da un qualche sottosistema che portò la sonda a trasmettere per errore i dati telemetrici attraverso un computer di bordo da tempo fuori uso.

Gli ingegneri istruirono la sonda a tornare ad utilizzare il computer corretto e il problema rientrò, ma ad oggi non è del tutto chiaro cosa ha fatto sì che Voyager 1 decidesse di passare da un computer all'altro.

Per evitare che il fenomeno possa ripresentarsi in futuro il team di missione ha sviluppato un apposito aggiornamento al software, un lavoro che ha richiesto mesi di verifiche, al fine di assicurarsi che un'operazione di questo tipo non vada a sovrascrivere parti di codice cruciali per il funzionamento dei sistemi di bordo delle due sonde gemelle.

Per questo motivo, l'aggiornamento è stato avviato lo scorso 20 ottobre su Voyager 2, delle due la sonda più vicina a noi.

Alla conferma che tutto è andato per il verso giusto, toccherà a Voyager 1 ricevere l'aggiornamento il 29 ottobre.

A causa della grandissima distanza a cui si trovano le due sonde, circa 24 miliardi di km Voyager 1 e circa 20 miliardi di km Voyager 2, un segnale da Terra impiega rispettivamente 22 ore e 28 minuti e 18 ore e 41 minuti a raggiungere le antenne delle astronavi.

Altrettanto tempo è necessario per ricevere una risposta.

L'aggiornamento software non è l'unico intervento di manutenzione in programma per le due Voyager.

Il team del JPL ha dovuto implementare delle modifiche nella configurazione dei propulsori attualmente utilizzati per correggere l'assetto delle sonde per assicurare che le antenne rimangano puntate sul nostro pianeta.

Data la loro veneranda età, le condutture interne dei propulsori cominciano ad essere intasate da residui di propellente che si sono accumulati negli anni.

Ricordiamo che la missione Voyager era originariamente pensata per durare 4 anni.

Per ridurre l'ulteriore accumularsi di questi residui, le sonde sono state istruite per ridurre la frequenza di accensione dei propulsori, allargando di 1 grado il range di rotazione permesso sui vari assi prima che intervenga il sistema di correzione dell'assetto.

La nuova configurazione alzerà la probabilità di perdite occasionali di bit durante le trasmissioni, ma consentirà alle sonde di durare ancora più a lungo e in definitiva di trasmettere più dati scientifici a Terra.

E questo 46 anni dopo il loro lancio e ad una distanza di 20 miliardi di km

 

 

da Internet

 
 
 

Le Voyager da 45 anni nello Spazio

Post n°212 pubblicato il 02 Settembre 2023 da robertocass
Foto di robertocass

 

 

 

 

Nel 1977 partirono le sonde Voyager, due sonde gemelle che hanno rivoluzionato la nostra conoscenza del Sistema Solare spingendosi poi oltre i confini del Sistema Solare.

Le Voyager ci hanno infatti donato un quadro completo della parte esterna del Sistema, saltando di gigante in gigante fino a lasciare per sempre il Sistema Solare.

Oggi le due sonde sono gli oggetti più lontani dalla Terra e tra i più veloci, viaggiano a circa 61500 chilometri orari.

Le Voyager 1 e 2 si trovano infatti, rispettivamente, a ben 22 e 18 ore luce dalla Terra, ovvero circa 23,8 e 19,9 miliardi di chilometri.

Gli anni ‘60 furono il momento in cui venne deciso di uscire dalla linea di Kármán, quella linea che idealmente separa l'atmosfera terrestre dallo spazio vero e proprio.

Se già nel 1946 avevamo ottenuto la prima immagine della Terra dallo spazio e nel 1957 avevamo lanciato il primo satellite vero e proprio, lo Sputnik I, è infatti negli anni ‘60 che inizia la storia dei viaggi spaziali.

Nel 1961 Jurij Gagarin divenne il primo essere umano in orbita, nel 1964 partì la Mariner 4, la prima sonda marziana.

Nel 1969 poi ci sarebbe stato l’allunaggio con cui mettemmo piede sulla superficie di un altro corpo planetario per la prima volta nella storia.

Nella prima metà degli anni ‘70 poi, la Mariner 10 visitò Venere e Mercurio e le Venera 9 e 10 ottennero le prime immagini dalla superficie venusiana.

Ma i nostri limiti sembravano rinchiuderci lì, nel Sistema Solare interno, perché qualunque lancio oltre la Fascia Principale degli Asteroidi avrebbe richiesto una quantità enorme di propellente, in alcuni casi più di quanto le stesse astronavi erano in grado di trasportare

E questo finchè un giovane dottorando Michael Minovitch trovò la soluzione che ha cambiato per sempre la storia dei viaggi spaziali: la fionda gravitazionale.

Quando una sonda passa vicino a un pianeta, gli ruba un po’ dell'energia che il pianeta utilizza per orbitare attorno al Sole.

Questa energia può essere utilizzata al posto del propellente al fine di modificare l’orbita della sonda stessa.

Si fece un test con la Mariner 10, che da Venere usò con successo una fionda gravitazionale per dirigersi verso Mercurio.

Era possibile ora pensare davvero all’esplorazione del Sistema Solare esterno.

E fu così che nacque il programma Voyager: due sonde gemelle che avrebbero sfruttato questa tecnica innovativa per visitare i giganti gassosi e ghiacciati.

Il 20 agosto 1977 partì la Voyager 2, il 5 settembre partì la Voyager 1.

L’ultima a partire fu la prima ad arrivare a sorvolare Giove nel 1979, poi con una fionda gravitazionale sarebbe arrivata a visitare Saturno nel 1980 e lì, dopo aver scrutato Titano avrebbe inclinato la sua traiettoria abbandonando per sempre il piano su cui orbitano i pianeti.

La Voyager 2, che su Saturno è arrivata nel 1981, ha poi proseguito verso Urano e Nettuno.

Questi due pianeti, raggiunti rispettivamente nel 1986 e nel1989, non hanno mai ricevuta una visita da un’altra sonda spaziale.

Le Voyager ci hanno permesso di scoprire tantissimo di questi mondi e delle loro lune, dai fulmini di Giove ai vulcani di Io, dalla struttura degli anelli di Saturno a quelli di Urano e Nettuno, dai fenomeni criovulcanici su Tritone alla Grande Macchia Scura di Nettuno.

Non basterebbero libri interi per discutere della portata dei risultati scientifici ottneuti grazie alle Voyager.

Dopo la loro ultima tappa planetaria, entrambe le sonde hanno raggiunto la velocità di fuga dal Sistema Solare, ossia quella che gli consente di abbandonare la gravità del Sole.

Nel 1990 la Voyager 1 si è voltata per l'ultima volta, immortalando la Terra da 6 miliardi di chilometri.

Dal 2012 per la Voyager 1 e dal 2018 per la Voyager 2 le sonde sono interstellari, perché hanno superato il confine del campo magnetico solare, lì dove le particelle cariche del Sole diventano meno importanti rispetto a quelle che vengono dall’ambiente galattico.

La Voyager 1 prosegue con la sua traiettoria nella direzione della costellazione dell’Ofiuco, la Voyager 2 invece della costellazione di Andromeda.

Hanno trascorso la maggior parte del loro viaggio, durato quasi mezzo secolo, più lontane dalla Terra di qualsiasi altro oggetto creato dall'uomo, ma forse anche per le due sonde Voyager è arrivata l'ora di mettersi a riposo: ora la NASA sta studiando come spegnere i loro strumenti e guidare questa fase delle sonde entro l'inizio del prossimo decennio.

La Voyager 1 si trova attualmente a 23,8 miliardi di chilometri dalla Terra, una distanza per la quale la luce impiega 20 ore e 33 minuti per raggiungere il nostro pianeta, mentre la Voyager 2 si trova a 19,8 miliardi di chilometri a circa 18 ore-luce.

Tutto ciò significa che gli ingegneri che tengono i contatti con le navicelle impiegano più o meno due giorni per inviare un messaggio e ottenere una risposta.

Entrambe erano progettate con un orizzonte di durata operativa di 5 anni, con l'obiettivo di sorvolare Giove, Saturno e i pianeti esterni del Sistema Solare.

Entrambe le sonde hanno superato di gran lunga l'obiettivo iniziale: hanno viaggiato, comunicato con la Terra e risposto ai comandi per 44 anni!

La NASA lavora adesso all'idea di spegnere gli strumenti di bordo perché se rimanessero accesi consumerebbero l'ultima energia rimasta a disposizione entro il 2025: se invece si spengono gli strumenti, potrebbe essere possibile riaccenderli tra qualche anno e avere informazioni provenienti da distanze siderali anche fino alle 2030.

Entrambe le sonde portano con loro una copia del Golden Record un disco d’oro idealmente indirizzato verso civiltà aliene che potrebbero rinvenirlo in un futuro remoto.

Nel disco sono incise musiche, voci che salutano in molte lingue diverse, immagini trascritte in frequenze sonore, suoni del mare, del vento e della pioggia, della giungla e degli animali.

Il Golden Record si presenta come un racconto della Terra per civiltà aliene, ma è in realtà un messaggio per noi stessi, per mostrarci cosa siamo in grado di fare quando decidiamo di usare il nostro ingegno senza fini di lucro ma solo nell'interesse della scienza.

La loro storia non è finita, continueranno a vagare nello Spazio finché tra circa 30.000 anni avranno abbandonato la Nube di Oort, il grande anello di comete che circonda il Sistema Solare e dopo altri 8.000 anni passeranno nel punto più vicino alla stella Gliese 445 a circa 1,7 anni luce.

E poi continueranno ancora a viaggiare ambasciatrici dell'ingegno della nostra civiltà.

 

 

da Internet

 
 
 

La scomparsa dei dinosauri

Post n°211 pubblicato il 12 Luglio 2023 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

I dinosauri 66 milioni di anni fa dominavano il nostro pianeta e questo fino al giorno in cui un asteroide di 12 chilometri precipita vicino al Messico, cambiando tutto per sempre.

Ma davvero un pezzo di roccia, per quanto abbastanza grande, ha potuto sterminare un'intera specie su tutto il pianeta?

Sappiamo che oltre alla potenza devastante dell'impatto in sé, le conseguenze di questo avvenimento hanno portato a cataclismi allargati a tutti i continenti, che includono tsunami, e soprattutto un cambiamento del clima drammatico causato da una cappa impenetrabile anche dai raggi solari.

Gli scienziati hanno inoltre rilevato segni di un'alterazione chimica degli oceani, fatale per chi li abitava e non solo.

Nonostante questo alcune recenti teorie credono che un dato davvero cruciale per determinare l'impatto di questo avvenimento fosse l'inclinazione dell'asteroide e la sua composizione.

Qualcuno crede che se avesse colpito la Terra pochi secondi dopo e in un posto diverso la nostra storia sarebbe stata completamente diversa.

Oggi la mappatura dello spazio alla ricerca di asteroidi pericolosi è continua e molto serrata e per ora non sono stati calcolati pericoli.

Certo è possibile che si presenti un rarissimo caso di meteorite nascosto alla nostra visuale poiché proveniente dal lato del Sole.

Se un giorno dovessimo affrontare un pericolo del genere abbiamo la possibilità con la tecnologia che abbiamo sviluppato fino ad adesso, di deviare il suo corso in tempo.

Altrimenti possiamo solo sperare di non essere noi i nuovi dinosauri.

 

da Internet

 
 
 

Euclid

Post n°210 pubblicato il 06 Luglio 2023 da robertocass
 
Tag: euclid
Foto di robertocass

 

 

 

 

Qualche giorno fa un razzo Falcon 9 della compagnia spaziale privata SpaceX di Elon Musk ha trasportato oltre l’atmosfera terrestre Euclid, il nuovo telescopio spaziale dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).

L'obiettivo è studiare due delle caratteristiche più sfuggenti dell’Universo: la materia oscura e l’energia oscura.

Il lancio è avvenuto da Cape Canaveral in Florida e il telescopio impiegherà circa un mese per raggiungere il proprio punto di osservazione a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra.

Siamo fatti di materia e circondati dalla materia e di conseguenza ne abbiamo un’esperienza diretta in ogni istante della nostra esistenza, tanto da non farci nemmeno caso.

La materia è tantissima, ma in termini cosmologici e cioè per lo studio dell’Universo nel suo complesso, è poca roba: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto.

Tutto il resto, secondo le teorie più condivise, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura.

Entrambe sono completamente invisibili sia ai nostri occhi sia agli strumenti e non sappiamo nemmeno di preciso che cosa siano né come funzionino.

Al tempo stesso, siamo ormai abbastanza certi che esistano, perché in loro assenza non si potrebbero spiegare alcuni dei fenomeni che invece riusciamo a osservare e che conosciamo ormai piuttosto bene.

Quando nel Novecento si iniziarono a calcolare le caratteristiche dell’Universo, e ad applicare modelli teorici per spiegarne le peculiarità, divenne evidente che la quantità di materia che ci è visibile non era sufficiente per spiegare il modo in cui l’Universo si è strutturato e sta insieme.

Un esempio che viene spesso utilizzato per dare l’idea del problema parte dalle galassie, i grandi sistemi che comprendono stelle, pianeti e materiale interstellare soprattutto sotto forma di gas e polveri.

La quantità di materia osservabile di una galassia è però relativamente poca: sulla base delle conoscenze di cui disponiamo, non è sufficiente per far sì che le stelle che ne fanno parte restino insieme senza sparpagliarsi per l’Universo (c’è una stretta relazione tra massa e gravità).

Uno dei modi per trovare una spiegazione è ipotizzare che ci sia qualcos’altro dentro e intorno alle galassie che ne favorisce la coesione.

Qualcosa che non emette o riflette luce e che non si fa rilevare, ma che comunque esiste e aggiunge ulteriore massa, appunto la materia oscura.

La sua esistenza aiuterebbe a spiegare molte cose, ma non tutto sul funzionamento dell’Universo.

Circa un secolo fa l’astrofisico statunitense Edwin Hubble scoprì che l’Universo si sta espandendo mentre studiava il modo in cui appaiono le galassie più distanti da noi.

Quasi 70 anni dopo, si sarebbe scoperto che l’Universo è in una fase di espansione accelerata, cioè che la velocità a cui si sta espandendo aumenta nel tempo.

Era una scoperta rivoluzionaria e inattesa, perché contraddiceva alcune parti del modello teorizzato fino ad allora per descrivere l’Universo, secondo il quale la gravità avrebbe via via portato l’espansione a rallentare.

Da quella scoperta è passato circa un quarto di secolo e ancora non sappiamo che cosa determini l’accelerazione, ma ci sono comunque diverse teorie.

Una delle più condivise ipotizza che ci sia un particolare tipo di energia, l’energia oscura, che contrasta in qualche modo la gravità e che fa sì che l’Universo acceleri nella propria espansione.

È una forma di energia ipotetica che sarebbe distribuita omogeneamente nello spazio e che come nel caso della materia oscura non riusciamo a rilevare direttamente.

Studiare qualcosa che non è osservabile è molto difficile, ma nel corso del tempo chi si occupa di astrofisica ha trovato qualche soluzione.

Una di queste è raccogliere dati estremamente precisi su quello che invece riusciamo a osservare e confrontarlo con ciò che dovrebbe succedere secondo i modelli teorici, in modo da capire che cosa manca nella realtà per completare il quadro.

Il telescopio spaziale Euclid ha proprio questo compito: effettuare misurazioni molto precise di una enorme porzione di cielo per trovare indizi su ciò che nemmeno i suoi strumenti possono vedere.

Il telescopio vero e proprio è un cilindro alto circa 4 metri con un diametro di 1,2 metri ed è collegato ad una base rettangolare che contiene al proprio interno sistemi per gestire e trasmettere verso la Terra i dati raccolti, per la propulsione e per la distribuzione dell’energia elettrica.

Telescopio e base messi insieme fanno raggiungere a Euclid un’altezza di 4,7 metri e una larghezza di 3,7 metri.

La massa complessiva è di 2 tonnellate, più o meno quanto un SUV di grandi dimensioni.

A un lato del modulo di servizio è assicurato un grande pannello che serve a proteggere il telescopio spaziale dalla radiazione solare e a raccogliere l’energia elettrica, attraverso pannelli fotovoltaici, per alimentare i sistemi di Euclid.

Lo schermo ha la funzione di evitare che si scaldino troppo i due principali strumenti del telescopio, che devono funzionare rispettivamente a -120 e  -180 °C.

Superata l’atmosfera terrestre, Euclid ha iniziato un lungo viaggio che gli permetterà di raggiungere il punto di Lagrange detto L2 a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, in direzione opposta rispetto al Sole.

È un punto di osservazione particolare che in sostanza permette di seguire la Terra a grande distanza, in modo da compiere osservazioni nello Spazio profondo.

L2 è utilizzato spesso per questo tipo di missioni e da più di un anno ospita anche il James Webb Space Telescope, il telescopio spaziale più potente e che compie attività di osservazione in buona parte diverse da quelle che farà Euclid.

Il viaggio di Euclid verso L2 durerà circa un mese.

Una volta arrivato a destinazione il telescopio attiverà i propri strumenti e seguiranno un paio di mesi di test e di calibrazioni.

Terminata questa fase di avvio, a ottobre il telescopio sarà pronto per iniziare a osservare e rilevare dati su galassie lontane miliardi di chilometri.

Il suo obiettivo sarà mappare circa un terzo del cielo, creando una mappa tridimensionale molto precisa, che potrà essere impiegata per calcolare l’espansione dell’Universo.

Il telescopio spaziale sfrutterà anche un effetto particolare chiamato lente gravitazionale, che si verifica quando la luce emessa da una galassia arriva distorta a chi la sta osservando a grandissima distanza, a causa delle concentrazioni di materia che trova lungo il proprio percorso.

Questa materia che devia la luce è costituita da altre galassie, che possono quindi essere osservate, e per una parte consistente dalla materia oscura, che non può essere invece rilevata.

Grazie a misurazioni molto accurate si può ricostruire quanta materia sia necessaria per determinare una lente gravitazionale, indagare quanta materia “normale” sia stata coinvolta e dedurre quanta materia oscura abbia contribuito al fenomeno.

In questo modo si può scoprire la presenza della materia oscura e soprattutto scoprire come è distribuita nella porzione di Universo osservato.

I dati raccolti da Euclid saranno messi poi a disposizione della comunità scientifica.

Immagini, dati sulla luminosità delle galassie e molto altro potranno essere utilizzati per nuove ricerche e per pianificare future nuove missioni spaziali, alla ricerca delle tante cose che non riusciamo ancora a vedere e a capire.

Lo studio affascinante di immagini che ci arrivano da un passato lontanissimo.

 

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