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Il libro nero del comunismo (Le Livre noir du communisme: Crimes, terreur,
répression, 1998), a cura dello storico del comunismo Stéphane Courtois, è una
raccolta di saggi sugli stati comunisti e su crimini e abusi compiuti dai
regimi di tali stati. I saggi sono scritti da diversi accademici e ricercatori
del CNRS francese.

Indice
1 Contenuti del libro
1.1 I crimini del comunismo
1.2 Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica
 

Contenuti del libro- Il libro si propone innanzitutto come raccolta
di dati sui crimini compiuti dai regimi comunisti nel mondo. Diverse fonti
ostili alla pubblicazione hanno trovato discutibile l'uso del termine crimine
in storiografia; tuttavia, nell'uso che se ne fa nel Libro nero, si può
intenderlo come equivalente a espressioni più specifiche come crimini contro
l'umanità o violazioni dei diritti umani (esecuzioni senza processo, rapimenti,
tortura ecc.).

L'enfasi del testo è spesso sul resoconto di tali crimini in termini numerici
(in genere ricavati dal lavoro di altri autori) per arrivare a un "totale"
stimato di 100 milioni di "vittime del comunismo".

 

Nel 1973 è stato pubblicato un volume molto simile al Libro nero del comunismo
per intenti e forma: si tratta de Il costo umano del comunismo di Robert
Conquest, Richard L. Walker, Hosmer e James O. Eastland (edizioni Il Borghese).
Tale libro prende in considerazione l'Unione Sovietica, la Cina e il Vietnam
(esclude i regimi in Cambogia e in Corea del Nord, che hanno provocato vittime
dopo il 1973) e stima il totale dei morti in circa 100 milioni, affermando che
il comunismo è peggiore del nazismo per questa ed altre ragioni. Gli episodi
considerati sono gli stessi del Libro nero, ma per alcuni le cifre variano
sensibilmente in difetto o in eccesso: per esempio sono attribuiti solo due
milioni di morti alla carestia cinese del 1959, in quanto la prima diffusione
delle stime più ingenti si ebbe solo nel 1978, ma sono sovrastimate le vittime
della collettivizzazione cinese degli anni '50 (i dati per la Cina provengono
da Human cost of communism in China di Richard L. Walker).

 

I crimini del comunismoQuesta e l'ultima parte sono scritte
direttamente da Courtois ed espongono le sue conclusioni, sezione più
controversa del libro. Fornisce un riepilogo del numero di morti: URSS venti
milioni, Cina sessantacinque milioni, Vietnam un milione, Corea del Nord due
milioni, Cambogia due milioni, Europa dell'est un milione, America latina
centocinquantamila, Africa un milione e settecentomila, Afghanistan un milione
e cinquecentomila, movimento comunista internazionale e partiti comunisti non
al potere diecimila. Per un totale di poco inferiore ai novantacinque milioni
di morti. Successivamente indica le principali fasi della repressione che in
Unione Sovietica sono: fucilazione di decine di migliaia di persone
imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia
di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;
deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920; carestia russa del
1921-1923, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone; assassinio di
decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il
1930; deportazione di 2 milioni di kulaki (o presunti tali) nel 1930-1932;
sterminio di 7 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non
soccorsa (Holodomor); eliminazione di quasi 690 mila persone durante la grandi
purghe del 1937-1938; deportazione di centinaia di migliaia di polacchi,
ucraini, baltici, moldavi, bessarabi, tedeschi, tatari, ceceni e ingusci negli
anni fra il 1939 e il 1945.

 

Violenze, repressioni, terrori nell'Unione SovieticaGran parte di
questo capitolo, scritto da Nicolas Werth, analizza i crimini che vengono
imputati alla dittatura di Stalin, è anche dettagliatamente descritto il
periodo precedente, la rivoluzione e la guerra civile; mentre, al periodo
successivo, (1953-1991) è dedicato un solo paragrafo poiché la repressione
perde il suo carattere sanguinario. Questi sono i principali fatti di sangue
indicati da Werth: operazioni anti partigiane dopo la seconda guerra mondiale
poche decine di migliaia vittime, carestia dopo la seconda guerra mondiale
mezzo milione di vittime, morti nei campi durante la seconda guerra mondiale
mezzo milione, morti durante le deportazioni nel corso della seconda guerra
mondiale poche centinaia di migliaia, morti fra i prigionieri e i deportati
polacchi qualche centinaio di migliaia, giustiziati durante le purghe
settecentomila, morti nei campi fra il 1930 e il 1940 quattrocentomila,
carestia del 1932/3 sei milioni, repressione degli anni venti alcune decine di
migliaia, carestia del 1921/2 cinque milioni, morti nei primi anni alcune
decine di migliaia. Da notare che il Werth non da una stima totale delle
vittime ma fornisce varie stime a volte in contrasto fra loro per i vari
episodi di violenza.


 


 

Il sangue dei vinti viene definito da alcuni come un romanzo o resoconto
storico, ma secondo lo stesso autore e la casa editrice è un saggio. È stato
scritto da Giampaolo Pansa ed edito da Sperling & Kupfer.

Il libro - molto contestato da parte della sinistra italiana (in particolar
modo dall'ANPI) - racconta di esecuzioni e crimini compiuti da ex partigiani ed
altri individui dopo il 25 aprile 1945, a Liberazione ormai compiuta, verso
fascisti e presunti tali o antifascisti non comunisti. Secondo Pansa, tra i
giustiziati e le vittime vi furono numerosi fascisti responsabili di gravi
misfatti, militari e civili, ma anche, nel clima di guerra civile, alcuni
anziani, donne e bambini che, in alcuni casi senza colpa alcuna, furono legati
al fascismo, ai suoi crimini, ai suoi gerarchi, come pure l'omicidio di
partigiani non comunisti e giornalisti uccisi per il loro coraggio nel
denunciare le vessazioni e le violenze operate nel "triangolo della morte". In
questo quadro non pochi sarebbero stati i crimini animati da spirito di
rivalsa, vendetta, odio di classe e calcolo politico.

Il libro rende omaggio a questi morti, con un'impostazione ed un linguaggio
poco accademico indirizzato ai contemporanei, che ha contribuito alla
diffusione ed al significativo successo editoriale dell'opera.

 

.

Indice.
1 Due piani narrativi
2 La tesi centrale del libro
3 Documentazione e finzione
 

Due piani narrativiIl libro si sviluppa su due piani paralleli: da
un lato i misfatti vengono illustrati seguendo un percorso geografico che,
partendo da Milano ed irradiandosi al resto della Lombardia, passa al Piemonte
(terra natale dell'autore che arricchisce la descrizione con suoi personali
ricordi ed impressioni) lungo un itinerario che da Novara, a Torino, Cuneo e
Vercelli, sfocia a Genova ed in Liguria e poi giunge sino in Veneto, dopo aver
attraversato l'Emilia-Romagna da Reggio, a Modena, a Bologna.

È un itinerario dolente nel quale si dipana un tragico rosario di violenze e
di sangue, costellato ora di semplici seppur dolorose umiliazioni e
sopraffazioni, ora di processi sommari ed omicidi esemplari, sino a raggiungere
la dimensione di vere e proprie stragi. Ne fanno le spese indifferentemente
fascisti e personaggi accusati di essere spie o collaborazionisti, giovani e
ragazzini - difficilmente individuabili come criminali - la cui colpa era a
volte solo quella di essere imparentati con qualche fascista. Inseguiti a
fucilate e talvolta assassinati i reduci, alle giovani ausiliarie delle milizie
ed organizzazioni fasciste tocca spesso un duro calvario: umiliate e
disumanizzate, rasate a zero e trascinate come bestie dome in pubblica piazza,
sono esposte al pubblico dileggio cui, a volte, segue un'esecuzione sommaria.

 

Dopo i giorni dell'ira, che coincisero con la fine della guerra e culminarono
simbolicamente nell'esposizione dei cadaveri dei gerarchi fascisti, di
Mussolini e di Claretta Petacci in piazzale Loreto a Milano (che lo stesso
Ferruccio Parri stigmatizzò immediatamente definendolo un «episodio di
macelleria messicana») violenze, razzie, torture, stupri ed omicidi giungono a
colpire anche chi è solo sospettato di una qualche familiarità con i fascisti,
per poi allargarsi a colpire piccoli industriali e proprietari terrieri,
sacerdoti, e persino partigiani bianchi e cattolici impegnati in politica nella
DC.

Accanto a questo percorso spaventoso e dolente, l'autore affianca un piano
narrativo teso a focalizzare e a mostrare al lettore - da vicino e sin quasi
nell'intimo, dal loro punto di vista - l'umanità delle vittime di questa coda
di sangue e violenza che segue una guerra spaventosa e che si trascina nel suo
orrore per circa due anni. Vengono così narrati in vivido dettaglio drammi
vissuti da persone che oggi definiremmo gente comune, le tragedie di famiglie
anche solo sospettate di vicinanza al fascismo, o altrimenti giudicate degne di
essere colpite, che vedono i propri figli scomparire e le proprie figlie subire
stupri ed oltraggi.

 

Particolarmente toccante - ed allo stesso tempo paradigmatico rispetto alla
lettura che Pansa propone di quest'orgia di violenza - è il caso di Giorgio
Morelli, ventunenne partigiano cattolico delle Fiamme Verdi, nome di battaglia
"il Solitario". Entrato a Reggio Emilia a cavallo di una bicicletta prestagli
dal fratello di quello che diverrà famoso come don Giuseppe Dossetti, il 24
aprile 1945 per primo vi aveva issato il tricolore sul municipio della città
liberata. Testimone della misteriosa scomparsa del un suo amico Mario
Simonazzi, popolare comandante non comunista di una formazione partigiana,
trovato assassinato in circostanze mai chiarite, e di una serie di altre
violenze ed omicidi, Morelli anima un piccolo giornale, "La Penna", attraverso
il quale denuncia abusi e crimini perpetrati dagli ex compagni di lotta legati
al Pci.

Vittima a propria volta di un agguato, morirà a seguito alle ferite riportate,
non senza aver manifestato la propria sfida e la propria integrità sino
all'ultimo, indossando in pubblico il cappotto che aveva al momento
dell'attentato subito, i fori dei proiettili che lo avrebbero condotto alla
tomba ben in vista. Fra gli altri omicidi eccellenti successivi alla
Liberazione attribuiti al Pci di "nemici di classe" o avversari politici,
riportati nel libro, vi sono quelli di Don Umberto Pessina di Correggio, del
sindaco socialista di Casalgrande, Umberto Farri, dell'avvocato liberale e
antifascista reggiano Ferdinando Ferioli, figlio dell'ultimo sindaco
democratico di Sassuolo Aristide Ferioli, ucciso dai fascisti nel 1944,
dell'ingegnere Arnaldo Vischi, direttore generale delle Officine Meccaniche
Reggiane dopo la Liberazione con il gradimento del CLN.

 

La tesi centrale del libroPansa evidenziando l’elevato numero di
civili (non riconducibili al fascismo) uccisi in quelle zone d’Italia in cui l’
egemonia comunista era notevole, cioè nel triangolo della morte e più in
generale in gran parte dell’Emilia-Romagna, sostiene nel libro la tesi che in
quelle terre al termine della guerra civile di liberazione contro i
nazifascisti ne iniziò una seconda, una guerra civile sotterranea e clandestina
effettuata da settori più o meno deviati del PCI contro quelli che erano
ritenuti dei nemici di classe (proprietari terrieri, sacerdoti, esponenti di
partiti politici anticomunisti) in preparazione di un’eventuale rivoluzione
proletaria.

Di questa "seconda" guerra civile e delle uccisioni compiute a guerra ormai
finita, secondo Pansa fu in parte responsabile anche Palmiro Togliatti allora
segretario del PCI che fino alla fine del 1946 nulla fece per porre freno ai
numerosi omicidi, ma che anzi permise la fuga in quei paesi dell’Est Europa
sotto influenza sovietica di alcuni fra i responsabili di quei crimini.

 Documentazione e finzioneIl libro si sviluppa tra finzione e
cronaca vera e propria, ricorrendo all'artificio di dotarsi di un filo rosso
costituito da un'onnipresente alta funzionaria della Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze - significativamente scelta quale tempio archivistico e
letterario della Cultura italiana - che accompagna Pansa nella sua ricerca e
nel suo racconto e che molto sembra sapere a proposito del sangue dei vinti.

 

L'autorevole bibliotecaria è un personaggio inventato - come dichiarato
nell'introduzione del volume - alla quale Pansa dà il nome di Livia Bianchi,
omonima di una partigiana, Medaglia d'oro al valor militare, caduta
ventiseienne nel gennaio 1945 in Valsolda per mano dei nazifascisti. Tale
scelta, visto il tenore delle tesi del libro ha suscitato l'indignazione
dell'ANPI, che ha trovato la scelta del nome di Livia Bianchi di dubbio gusto
, mentre sono giunte denunce anche da privati cittadini circa l'accuratezza
e l'obiettività dei fatti riferiti da "Livia".

L'opera propone la denuncia di una congiura del silenzio, tema che verrà
affrontato in particolare ne La grande bugia, e di una cultura
dell'insabbiamento sistematiche alle quali la sinistra, in particolare quella
comunista, avrebbe fatto ricorso, per rintracciare le radici della stagione
delle stragi e della strategia della tensione, questa volta ribaltando i
termini della questione, laddove ai silenzi e ai compromessi segreti posti in
essere dalla Repubblica, si oppone l'amnesia e la supposta mistificazione che
avrebbe non solo colpito i vinti, ma la loro stessa memoria.

 

L'autore stesso infatti sostiene che l'obiettivo dell'opera è circoscritto nel
raccontare, sottraendolo ai decenni di oblio cui lo avrebbe condannato una
certa retorica resistenziale, il destino dei vinti, vittime, secondo Pansa, di
una persecuzione non casuale ed organizzata, tesa a realizzare l'egemonia del
PCI in guisa che, secondo le sue stesse parole, pubblicate dal quotidiano la
Repubblica in replica ad alcune critiche al suo libro, «i dirigenti comunisti
italiani intendevano indebolire un’intera classe, la borghesia, e sostituire il
vecchio ceto dirigente con una nuova leadership in cui il Pci fosse pienamente
rappresentato. È esattamente ciò che è accaduto dopo il 25 aprile, in tante
località, anche piccole. Dove sono stati giustiziati il podestà, il segretario
comunale, il medico condotto, la maestra, l’ostetrica, il possidente o il
commerciante più in vista.  Accoppando questa gente, e facendo sparire i
loro corpi, si creava un vuoto che sarebbe stato riempito da un altro ceto

 

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