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Post n°482 pubblicato il 09 Novembre 2018 da Guerrino35

I contenuti della manifestazione sitav a Torino sono i più geriatrici del pianeta

 
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Rosa Luxemburgh

Post n°481 pubblicato il 26 Gennaio 2017 da Guerrino35

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 22-01-17 - n. 617

Rosa Luxemburg, la rosa rossa del socialismo..

Josefina L. Martìnez (*) | lahaine.org
Traduzione da ciptagarelli.jimdo.com

17/01/2017

Mehring disse una volta che la Luxemburg era "la più geniale discepola di Karl Marx". Brillante teorica marxista e acuta polemista, come agitatrice di massa riusciva a commuovere le grandi masse operaie.

 Una delle sue parole d'ordine preferite era "primo, l'azione"; era dotata di una forza di volontà trascinatrice. Una donna che ruppe con tutti gli stereotipi che all'epoca ci si aspettava da lei, che visse intensamente la sua vita personale e politica.

Era molto piccola quando la sua famiglia traslocò dal paese di Zamosc a Varsavia, dove passerà la sua infanzia. Rozalia soffre di una malattia all'anca, mal diagnosticata, che la lascia convalescente per un anno a le produce una lieve zoppia che durerà per tuta la sua vita. Appartenente ad una famiglia di commercianti, sente nella propria carne il peso della discriminazione, come ebrea e come polacca nella Polonia russificata.

L'attività militante di Rosa comincia a 15 anni, quando si unisce al movimento socialista. Secondo il suo biografo P. Nettl aveva quell'età quando vari dirigenti socialisti furono condannati a morire sulla forca, cosa che colpì profondamente la giovane studentessa: "Nel suo ultimo anno di scuola era conosciuta come politicamente attiva e la si giudicava indisciplinata. Di conseguenza non le dettero la medaglia d'oro accademica, che le spettava per i suoi meriti studenteschi. Ma l'alunna più meritevole agli esami finali non era un problema solo nelle aule; allora era già, con sicurezza, un membro regolare delle cellule clandestine del Partito Rivoluzionario del Proletariato".

Avvisata di essere nel mirino della polizia, Rosa intraprende la fuga clandestina a Zurigo, dove diventa una dirigente del movimento socialista polacco in esilio. Lì conosce Leo Jogiches, che sarà l'amante e il più caro amico di Rosa per molti anni, e suo compagno fino alla fine.

Dopo essersi laureata in Scienze Politiche –cosa allora inusuale per una donna – decide di trasferirsi in Germania per entrare nell'SPD, il centro politico della Seconda Internazionale. Lì conosce Clara Zetkin, con la quale instaura un'amicizia che durerà tutta la vita.

La battaglia per le idee

A Berlino dal 1898 Rosa si propone di misurare le sue armi teoriche con uno dei protagonisti della vecchia guardia socialista, Eduard Bernstein, che aveva iniziato una revisione profonda del marxismo. Secondo lui il capitalismo era riuscito a superare le sue crisi e la socialdemocrazia poteva raccogliere vittorie nel quadro di una democrazia parlamentare che sembrava ampliarsi sempre più, senza rivoluzione né lotte di classe.

Al "dibattito Bernstein" parteciparono molte penne, ma fu Rosa Luxemburg chi produsse la critica più acuta nell'opuscolo "Riforma o Rivoluzione".

La Rivoluzione Russa del 1905, la prima grande esplosione sociale in Europa dopo la sconfitta della Comune di Parigi, venne percepita come una boccata di aria fresca dalla Luxemburg. Essa scrisse articoli e partecipò a molti comizi come portavoce dell'esperienza russa in Germania, finché riuscì a tornare clandestinamente a Varsavia per partecipare direttamente agli avvenimenti. E' il "momento in cui l'evoluzione si trasforma in rivoluzione" scrive Rosa. "Stiamo vedendo la Rivoluzione Russa e saremmo degli asini se non imparassimo da essa".

La Rivoluzione del 1905 aprì importanti dibattiti che dividero la socialdemocrazia. Su questa questione Rosa Luxemburg aveva la stessa posizione di Trotsky e di Lenin contro i menscevichi, difendendo l'idea che la classe lavoratrice doveva avere un ruolo da protagonista nella futura Rivoluzione Russa, contro la borghesia liberale.

Il dibattito sullo sciopero politico di massa attraversò la socialdemocrazia europea negli anni seguenti. L'ala più conservatrice dei dirigenti sindacali in Germania negava la necessità dello sciopero generale mentre il "centro" del partito lo considerava come uno strumento unicamente difensivo, valido per difendere il diritto al suffragio universale.

Rosa critica il conservatorismo e il gradualismo di quella posizione nel suo opuscolo "Sciopero di massa, partito e sindacati", scritto in Finlandia nel 1906. Il dibattito si riapre nel 1910, quando la Luxemburg polemizza direttamente con il suo precedente alleato, Karl Kautsky.

Socialismo o regressione alla barbarie

L'agitazione contro la 1° Guerra Mondiale è un momento cruciale nella sua vita, una battaglia contro la defezione storica della socialdemocrazia tedesca che appoggia la propria borghesia, contro gli impegni assunti da tutti i Congressi socialisti internazionali.

Nella sua biografia, Paul Frölich segnala che, quando Rosa viene a sapere della votazione del blocco dei deputati della SPD, per un attimo cade in una profonda disperazione. Ma, come donna d'azione quale era, risponde rapidamente. Lo stesso giorno in cui si votano i crediti di guerra, nella sua casa si riuniscono Mehring, Karski e altri militanti. Clara Zetkin invia il suo appoggio e poco dopo si aggiunge Liebcknecht.Insieme pubblicano la rivista L'Internazionale e fondano il gruppo Spartacus.

Nel 1969 Rosa Luxemburg pubblica "L'opuscolo di Junius", scritto durante la permanenza in una delle tante prigioni che sono diventate la sua residenza quasi permanente.

In questo lavoro esprime una critica implacabile alla socialdemocrazia e la necessità di una nuova Internazionale. Riprendendo una frase di Engels, la Luxemburg afferma che, se non si avanza verso il socialismo, resta solo la barbarie. "In questo momento è sufficiente guardarci attorno per capire cosa significa la regressione alla barbarie nella società capitalista. Questa guerra mondiale è una regressione alla barbarie". Nel maggio 1916, Spartacus organizza la manifestazione del 1° maggio contro la guerra, dove Liebcknecht viene arrestato; ma la sua condanna al carcere provoca mobilitazioni di massa. Si annuncia un tempo nuovo.

1917: osare la rivoluzione

La rivoluzione russa del 1917 trovò in Rosa Luxemburg un fermo difensore. Senza smettere di esprimere le sue differenze e le critiche sul diritto all'autodeterminazione o sulla relazione tra l'assemblea costituente e i meccanismi della democrazia operaia – su quest'ultima questione cambierà posizione dopo essere uscita dal carcere nel 1918 – la Luxemburg scrive che "i bolscevichi hanno rappresentato tutto l'onore e la capacità rivoluzionaria di cui mancava la socialdemocrazia occidentale. La loro insurrezione di Ottobre non solo ha davvero salvato la Rivoluzione Russa, ma ha salvato anche l'onore del socialismo internazionale".

Quando la scossa della rivoluzione russa colpisce direttamente la Germania nel 1918 con il sorgere dei consigli operai, la caduta del Kaiser e la proclamazione della repubblica, Rosa aspetta impaziente la possibilità di partecipare direttamente a questo grande momento della storia.

Il governo finisce nelle mani dei dirigenti della socialdemocrazia più conservatrice, Noske e Ebert, dirigenti del PSD – questo partito si era scisso con la rottura dei socialdemocratici indipendenti, il USPD.

Nel novembre di quell'anno il governo socialdemocratico raggiunge un accordo con lo Stato maggiore militare e con i Freikorps per liquidare la rivolta degli operai e delle organizzazioni rivoluzionarie.

Rosa e i suoi compagni, forndatori della Lega di Spartaco, nucleo iniziale del Partito Comunista Tedesco dal dicembre 1918, vengono duramente perseguitati.

Il 15 gennaio un gruppo di soldati arresta Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg alle nove di sera. Rosa "riempì una valigetta e prese alcuni libri", pensando si trattasse di un altro periodo di carcere. Avvertito dell'arresto, il governo di Nolke lasciò Rosa e Karl nelle mani degli infuriati Freikorps – corpo paramilitare di ex veterani dell'esercito del Kaiser. Venne organizzata una messa in scena: essi furono fatti uscire dall'Hotel Eden ma, appena usciti dalla porta dell'hotel, furono colpiti alla testa coi calci dei fucili, trascinati per terra e uccisi.

Il corpo di Rosa fu gettato nelle scure acque del fiume dal ponte di Landwehr. Fu ritrovato tre mesi dopo.

Un anno prima, in una lettera dalla prigione inviata a Sofia Liebknecht la vigilia del 24 dicembre 1917, Rosa scriveva con un profondo ottimismo sulla vita: "E' il mio terzo natale dietro le sbarre, ma non farne una tragedia. Io sono tranquilla e serena come sempre . (...)  Sto qui sdraiata, quieta e sola, avvolta nei vari panni neri delle tenebre, della noia, della prigionia in inverno (...) Io credo che il segreto non sia altro che la vita stessa: la profonda penombra della notte è così bella e morbida come il velluto, se una sa guardarla".

Clara Zetkin, forse la persona che meglio la conosceva, scrisse sulla sua grande amica e compagna Rosa Luxemburg, condividendo quell'ottimismo, dopo la sua morte: "Nello spirito di Rosa Luxemburg l'ideale socialista era una passione soggiogante che trascinava tutto; una passione, ugualmente, del cervello e del cuore, che la divorava e la spingeva a creare. L'unica ambizione grande e pura di questa donna senza pari, l'opera di tutta la sua vita, fu di preparare la rivoluzione che doveva portare al socialismo. Il poter vivere la rivoluzione e prendere parte alle sue battaglie era per lei la suprema gioia (...). Rosa ha messo al servizio del socialismo tutto quello che era, tutto ciò che valeva, la sua persona e la sua vita. L'offerta della sua vita all'idea non l'ha fatta solo il giorno della sua morte; l'aveva già data pezzo per pezzo, in ogni minuto della sua esistenza di lotta e di lavoro. Per questo poteva legittimamente esigere lo stesso dagli altri, che dessero tutto, compresa la vita, per il socialismo. Rosa Luxemburg simbolizza la spada e la fiamma della rivoluzione, e il suo nome resterà scritto nei secoli come quello di una delle più grandiose e insigni figure del socialismo internazionale".
 
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Etiopia

Post n°480 pubblicato il 17 Novembre 2016 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - etiopia - 14-11-16 - n. 610

Etiopia al bivio

Capitolo 2 - La dittatura di Menghistu

Capitolo 1: L'impero di Sélassié [Prima parte - Seconda parte - Terza parte]

Mohamed Hassan, Grégoire Lalieu | investigaction.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

10/10/2016

Al di là dei miti, l'impero di Hailé Sélassié nascondeva una realtà terribile per la maggior parte degli etiopi. Guidati da un grande movimento popolare, giovani ufficiali dell'esercito rovesciavano l'imperatore nel 1974. Menghistu diventa il nuovo uomo forte dell'Etiopia, ma si mostra incapace di rispondere alle aspirazioni del popolo. Come ha fatto la rivoluzione a far scivolare il paese nella dittatura militare? Perché gli etiopi furono condannati alla miseria che ebbe il suo apice con la drammatica carestia del 1984? Perché, mentre Michael Jackson e le star del mondo intero raccoglievano fondi per le vittime, Bernard-Henri Lévy e Glucksmann non volevano aiutare l'Etiopia? In questa seconda parte della nostra intervista, Mohamed Hassan esplora le contraddizioni della dittatura militare del Derg. Rivela anche le origini del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, ndt), quell'organizzazione politica che ha rimpiazzato Menghistu e che si aggrappa al potere da oltre venti anni. Domenica 9 ottobre, mentre la rivolta tuona ovunque nel paese, il TPLF ha dichiarato lo stato di emergenza.

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

Gli Eritrei non erano i soli a combattere Menghistu. Come era organizzata l'opposizione in Etiopia?

Il Derg non era riuscito a concretizzare l'uguaglianza delle nazionalità in Etiopia. Così i movimenti di resistenza si erano sviluppati un po' ovunque nel paese, su basi etniche. C'era il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF), il Fronte di Liberazione Oromo (OLF), ... e anche il Fronte di Liberazione Afar… Tutti questi gruppi conducevano una lotta armata contro il potere centrale per ottenere l'indipendenza della loro regione. Ma nessuno era in grado da solo di prendere le redini dell'esercito del Derg. Diversi fattori facevano muovere l'ago della bilancia.

Innanzitutto, Menghistu era diventato completamente dipendente dall'aiuto militare sovietico. Durante gli anni 80, l'URSS era impegnata in Afghanistan e la questione etiope non era prioritaria. L'Unione Sovietica inoltre era anche minata da una serie di problemi interni. Gorbaciov lanciava la Perestroika nel 1985 per tentare di risolvere la situazione. Ma queste riforme non impedivano il collasso del blocco sovietico. Alla fine degli anni 80 dunque, la dittatura militare del Derg vedeva il suo principale sostegno, evaporare. Nel marzo 1989 del resto, soldati dell'esercito etiope tentarono di rovesciare Menghistu. Fra le rivendicazioni, si trovava ancora una volta l'apertura dei negoziati con gli Eritrei. Le diverse offensive lanciate da Menghistu non avevano permesso di sconfiggere la resistenza del FLPE e i soldati etiopi erano esauriti a causa del conflitto. Menghistu riuscì a reprimere il tentativo di colpo di stato, ma ne uscì indebolito. Come Gorbaciov, lanciò riforme per prolungare la vita di un regime ormai senza fiato. Dopo avere nazionalizzato tutto, Menghistu cominciò a liberalizzare tutto.

Quale impatto ebbero le riforme?

Nessuno. Il regime era già condannato quando il Derg lanciò le riforme. Il colpo di grazia venne da una vasta offensiva del TPLF lanciata dal Tigrè nel 1991. In un certo modo, questo movimento ha fatto causa comune con gli Eritrei del FLPE per rovesciare Menghistu. Erano vicini e i quadri delle due organizzazioni condividevano radici comuni. Il Derg non aveva del resto prestato molta attenzione all'insurrezione del TPLF, pensando che non sarebbe sopravvissuto a una sconfitta del FLPE. Ma gli Eritrei hanno sconfitto l'esercito di Menghistu sulla loro terra, aprendo una via maestra al TPLF in Etiopia.

Tuttavia, la relazione tra questi due movimenti di resistenza non è sempre stata rose e fiori. Ciò si spiega con la mentalità molto ristretta dei dirigenti del TPLF. Non sono mai stati capaci di risolvere le loro contraddizioni interne con la discussione, ma funzionavano a colpi di stato all'interno del partito. I quadri fondatori sono stati del resto allontanati da una generazione più giovane che includeva un certo Meles Zenawi. Di tendenza marxista-leninista, il TPLF seguiva allora la linea di Mao. Quando i giovani presero la direzione del movimento, un britannico fece conoscere loro un libro di un gruppo filo-albanese e hanno iniziato così a seguire la linea di Enver Hoxha. In un congresso clamoroso nel 1985, i quadri del TPLF condannarono così Mao. Ai loro occhi, era un revisionista. Zenawi e la sua banda misero nello stesso cesto la Cina, l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, tutte potenze imperialiste! Ciò denunciava un'ignoranza profonda della natura dell'imperialismo e la vacuità della loro analisi politica. È stato Lenin che meglio ne ha descritto la natura, mostrando come il capitalismo conduce all'imperialismo e alle grandi potenze capitaliste che cercano di dividersi il mondo per esportare i capitali che le loro economie devono necessariamente accumulare. Anche se l'Unione Sovietica ha potuto commettere errori nella sua politica estera, sostenendo Menghistu in particolare, metterla allo stesso livello degli Stati Uniti è indice di una debolezza teorica.

Quale era la visione del TPLF?

Per loro, lo sciovinismo Amhara aveva generato tale odio tra le varie nazionalità dell'Etiopia e il solo mezzo per il Tigré per accedere alla democrazia, era quello di ottenere l'indipendenza della loro regione. Delegati del Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRP) erano presenti al congresso del 1985. Ricordate, questo movimento aveva partecipato alle manifestazioni per far cadere Sélassié. Ma rifiutava di affidare il potere ai soldati, tanto che il Derg lo aveva duramente represso. Proseguì la lotta armata durante gli anni della dittatura di Menghistu con forze molto limitate. Rappresentato al congresso del TPLF del 1985, l'EPRP si oppose a questo movimento del Tigré, che pretendeva di incarnare l'avanguardia della resistenza a Menghistu. "Siete un'organizzazione etnica e chiedete l'indipendenza della vostra regione, aveva dichiarato in sostanza il delegato dell'EPRP. Come potete di conseguenza essere l'avanguardia della resistenza etiope? Non rappresentiamo un gruppo etnico, ci battiamo per tutti gli etiopi. Spetta a voi aderire alla nostra lotta".

Ma i giovani quadri del TPLF non ascoltavano. La loro visione ristretta è del resto stata oggetto di discordia con gli Eritrei del FLPE. Avendo vissuto numerosi tentativi d'ingerenza durante la loro lotta per l'indipendenza, gli Eritrei non avevano l'abitudine di interferire negli affari delle altre organizzazioni. Tuttavia fecero un'eccezione nel 1985, dopo il congresso del TPLF, pubblicando un lungo documento sull'indipendenza dell'Eritrea e dei movimenti democratici etiopi. Il testo ritornava sulla creazione dell'Etiopia, analizzava le varie contraddizioni che attraversavano questo paese ed articolava un inventario delle organizzazioni attive nella resistenza. Il FLPE era d'accordo sul fatto che ci fosse un problema serio di nazionalità in Etiopia. Ma riteneva che questa sfida avrebbe potuto essere raccolta attraverso la lotta di classe, in un'Etiopia democratica.

Il TPLF non era d'accordo su questo?

Ancora una volta, non ha voluto ascoltare. Il TPLF aveva anche elaborato un documento, "Le nostre differenze con il FLPE", nel quale chiedeva come gli Eritrei potessero dire ai Tigré che dovevano fare. Per il TPLF, era un'intrusione inammissibile. In fondo i leader Tigré erano convinti che in Etiopia il problema delle nazionalità prevalesse su quello dell'economia e delle classi sociali. Per loro, le varie etnie non potevano vivere insieme. Sono dunque rimasti aggrappati all'indipendenza della loro regione e hanno preso le distanze dai loro compagni di Eritrea.

Ma è un'offensiva del TPLF sulla capitale Addis-Abeba che ha causato la fuga di Menghistu nel 1991. Perché il Tigré è finalmente uscito dalla loro regione?

Durante gli anni 80, mentre il Derg concentrava i suoi sforzi sulla Eritrea, il TPLF è diventato militarmente più forte. Si è anche costituita una base sociale importante nel Tigré. Ma ha anche capito che l'indipendenza della regione non sarebbe stata possibile senza la caduta di Menghistu. Il tenente colonnello avrebbe immediatamente dichiarato guerra a questa repubblica indipendente dal Tigré. Zenawi e la sua cricca hanno dunque avuto l'idea di prendere Addis-Abeba per poter in seguito organizzare un referendum che avrebbe accordato l'indipendenza alla loro regione.
Tuttavia, per riuscire a prendere la capitale, il TPLF doveva riconciliarsi con gli Eritrei e coordinare la lotta armata. Occorrevano loro anche alleati in Etiopia e il loro sguardo è logicamente andato alla principale etnia del paese, gli Oromo. Il TPLF non aveva buoni rapporti con Fronte di Liberazione Oromo (OLF). Le loro reciproche analisi divergevano troppo. Il Tigré ha dunque creato il suo movimento Oromo. L'Organizzazione Democratica del Popolo Oromo (OPDO), composta da soldati Oromo del Derg che il TPLF aveva fatto prigionieri. Il TPLF poteva anche contare su vecchi membri dell'EPRP che avevano fondato un nuovo partito, il Movimento Democratico del Popolo Etiope (EPDM), vicino al Tigré. Con queste varie organizzazioni, Zenawi andava a fondare una coalizione, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF).

Questo EPRD è la coalizione che ha conquistato il 100% dei seggi in occasione delle elezioni legislative del 2015?

Esattamente. Questa coalizione occupa il potere dalla caduta di Menghistu nel 1991. Ma dietro quest'organizzazione, tira le fila il TPLF. In realtà, mentre la caduta del Derg era imminente, Zenawi si è rivolto verso Addis-Abeba. Ma per prendere la capitale, non poteva presentarsi come un ribelle del Tigré Gli occorreva un abito da sposa. Quest'abito era l'EPRDF. Un dittatore cadeva nuovamente in Etiopia. Ma i problemi del paese erano lungi dall'essere risolti.
 
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Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: le tre etą di una dominazione

Post n°479 pubblicato il 02 Giugno 2016 da Guerrino35

www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo - 30-05-16 - n. 591

Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: le tre età di una dominazione

 


Saïd Bouamama | investigaction.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/05/2016

Iraq, Libia, Sudan, Somalia, etc., la lista di nazioni che sono andate a pezzi dopo un intervento militare statunitense e/o europeo non cessa di aumentare. Sembra che al colonialismo diretto di una "prima età" del capitalismo e al neocolonialismo di una "seconda età", succeda adesso la "terza età" della balcanizzazione. Parallelamente si può constatare una mutazione delle forme del razzismo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il razzismo culturale prese il posto di quello biologico e da diversi decenni il primo tende a presentarsi a livello religioso, sotto la forma attualmente dominante dell'islamofobia. A nostro parere, siamo in presenza di tre storicità strettamente vincolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.

Ritorno a Cristoforo Colombo

La visione dominante dell'eurocentrismo spiega l'emergere e la successiva estensione del capitalismo a partire da fattori interni delle società europee. Da qui deriva la famosa tesi che alcune società (alcune culture, religioni, etc.) siano dotate di una storicità, mentre altre ne siano carenti. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 che "il dramma dell'Africa è che l'uomo africano non è entrato sufficientemente nella storia" (1) non fa altro che riprendere un tema frequente delle ideologie di giustificazione della schiavitù e della colonizzazione:

"La "destoricizzazione" svolge un ruolo decisivo nella strategia di colonizzazione. Legittima la presenza di colonizzatori e certifica l'inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali e poi le "scienze coloniali" imposero una postulato sul quale si è costruita la storiografia coloniale: l'Europa è "storica" mentre è "l'astoricità" che caratterizza le società coloniali definite come tradizionali e immobili. […] Mossa dai suoi valori intellettuali e spirituali, l'Europa svolge attraverso la missione coloniale una missione storica, facendo entrare nella Storia i popoli che ne sono privi o che sono rimasti fermi ad uno stadio dell'evoluzione storica superato dagli europei (stato di natura, medio evo, ecc.)" (2)

Sia l'antichità di questa lettura essenzialista ed eurocentrica della storia del mondo che la sua ricorrenza (al di là delle diverse forme in cui si presenta) mettono in evidenza la sua funzione politica e sociale: la negazione delle interazioni. Da quando Cristoforo Colombo ordinò ai suoi soldati di sbarcare, la storia mondiale si è convertita in una storia unica, globale, collegata, mondializzata. La povertà degli uni non si può più spiegare senza interrogarsi sui nessi di causalità con la ricchezza degli altri. Lo sviluppo economico degli uni è indissociabile dal sottosviluppo degli altri. Il progresso dei diritti sociali qui è possibile solo per mezzo della negazione dei diritti lì.

L'invisibilità delle interazioni richiede una mobilitazione dell'istanza ideologica per formalizzare alcuni schemi esplicativi gerarchizzanti. Questi schemi costituiscono il "razzismo", sia nelle sue costanti che nelle mutazioni. C'è invariabilità perché tutti i volti del razzismo, da quello biologico all'islamofobia, hanno un risultato comune: la gerarchizzazione dell'umanità. C'è anche mutazione perché ogni volto del razzismo corrisponde a uno stadio del sistema economico di depredazione e a uno stadio dei rapporti di forza politici. Al capitalismo monopolista corrisponderà la schiavitù e la colonizzazione come forma di dominazione politica, e il biologismo come forma di razzismo. Al capitalismo monopolista globalizzato e senile corrisponderà la balcanizzazione e il caos come forma di dominazione, e l'islamofobia (in attesa di altre versioni per altre religioni del Sud in funzione dei paesi da balcanizzare) come forma di razzismo.

Tempo fa, nella sua analisi sull'apparizione del neocolonialismo come successore del colonialismo, Mehdi Ben Barka mise in evidenza le relazioni tra l'evoluzione della struttura economica del capitalismo e le forme di dominazione. Analizzando le "indipendenze concesse", le pone in relazione con le mutazioni della struttura economica dei paesi dominanti:

"Questo orientamento [neocoloniale] non è una semplice opzione nel dominio della politica estera. E' l'espressione di un cambiamento profondo nelle strutture del capitalismo occidentale. Dal momento in cui, dopo la Seconda guerra mondiale e grazie all'aiuto [del Piano] Marshall e a una interpenetrazione sempre maggiore con l'economia statunitense, l'Europa occidentale si allontana dalla struttura del XIX secolo per adattarsi al capitalismo statunitense, diventa normale che inizi anche ad adottare le relazioni degli Stati Uniti con il mondo. In una parola, che avesse anch'essa la sua "America Latina". (3)

Per il leader rivoluzionario marocchino ciò che suscita il passaggio del colonialismo al neocolonialismo è in effetti la monopolizzazione del capitalismo. Allo stesso modo, la precocità del processo di monopolizzazione negli Stati Uniti è una delle cause della precocità del neocolonialismo come forma di dominazione in America Latina.

Frantz Fanon, da parte sua, mise in evidenza le relazioni tra la forma della dominazione e le evoluzioni delle forme del razzismo. La resistenza che suscita una forma di dominazione (il colonialismo, ad esempio) obbligano questa a mutare. Tuttavia, questa mutazione richiede il mantenimento della gerarchizzazione dell'umanità e, in conseguenza, chiama una nuova età dell'ideologia razzista. "Questo razzismo", precisa Fanon, "che si vuole razionale, individuale, determinato, genotipico e fenotipico si trasforma in razzismo culturale". Per ciò che si riferisce ai fattori che portano alla mutazione del razzismo, Frantz Fanon menziona la resistenza dei colonizzati, l'esperienza del razzismo, ossia, "l'istituzione di un regime coloniale in piena terra d'Europa" e "l'evoluzione delle tecniche" (4), ossia, le trasformazioni della struttura del capitalismo, come rilevava Ben Barka.

Conseguentemente, senza entrare in un dibattito complesso di una periodizzazione del capitalismo datata con precisione è possibile porre in relazione i tre ordini di fatti che sono le mutazioni della struttura economica, le forme della dominazione politica e le trasformazioni dell'ideologia razzista. Le tre "età" del capitalismo chiamano tre "età" della dominazione, che suscitano tre "età" del razzismo.

L'infanzia del capitalismo

Lo stesso capitalismo come modo di produzione economica, a causa della sua legge del profitto, necessita di una estensione permanente. E' immediatamente in mondializzazione, anche se questa conosce i suoi limiti di sviluppo. Ossia, si tratta dell'ingannevole discorso attuale della globalizzazione, presentata come un fenomeno completamente nuovo, legato ai mutamenti tecnologici. Come mette in evidenza Samir Amin, la nascita del capitalismo e la sua mondializzazione vanno di pari passo:

"Il sistema mondiale non è la forma relativamente recente del capitalismo, risalente solo all'ultimo terzo del XIX secolo, quando si costituisce "l'imperialismo" (nel senso che Lenin diede a questo termine) e la spartizione coloniale del mondo ad esso associata. Al contrario, noi affermiamo che questa dimensione mondiale trova immediatamente la sua espressione, dall'origine, e prosegue come una costante del sistema attraverso le tappe successive del suo sviluppo. Ammettendo che gli elementi essenziali del capitalismo si cristallizzino in Europa a partire dal Rinascimento (la data del 1492, inizio della conquista dell'America, sarebbe la data di nascita simultanea del capitalismo e del sistema mondiale), entrambi i fenomeni sono inseparabili". (5)

In altre parole, sia il saccheggio e la distruzione delle civiltà amerindie che la schiavitù furono le condizioni affinché il modo di produzione capitalistico potesse esser dominante nelle società europee. Non ci fu nascita del capitalismo e successivamente sua estensione, ma un saccheggio e una violenza totali che riunirono le condizioni materiali e finanziarie affinché si installasse il capitalismo. Sottolineiamo inoltre con Eric Williams che la distruzione delle civiltà amerindie si accompagna alla loro schiavizzazione. Così, la schiavitù non è conseguenza del razzismo, ma quest'ultimo è il risultato della schiavitù degli indios. "Nei Caraibi", sottolinea questo autore, "il termine schiavitù si è applicato esclusivamente ai neri. […] Il primo esempio di commercio di schiavi e di manodopera schiavistica nel Nuovo Mondo non riguarda il nero ma l'indio. Gli indios soccombettero rapidamente all'eccesso di lavoro e al cibo insufficiente, e morirono di malattie importate dai bianchi". (6)

Quindi la colonizzazione non è che il primo processo di generalizzazione dei rapporti capitalistici al resto del mondo. E' la forma di dominazione politica che infine si è trovata per l'esportazione e l'imposizione di questi rapporti sociali al resto del mondo. Per questo, era necessario distruggere le relazioni sociali indigene e le forme di organizzazione sociale e culturale che avevano generato. L'economista algerino Youcef Djebari dimostrò la grandezza della resistenza delle forme anteriori di organizzazione sociale e l'indispensabile violenza per distruggerle: "In tutti i suoi intenti di annessione e dominazione in Algeria, il capitale francese si trovò di fronte una formazione sociale e economica ostile alla sua penetrazione. Dispiegò tutto un arsenale di metodi per schiacciare e sottomettere le popolazioni autoctone" (7). Per questo la violenza totale è consustanziale alla colonizzazione.

Il razzismo biologico appare per legittimare questa violenza e questa distruzione. Fanon mette in evidenza che il razzismo "entra in un insieme distinto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini sugli altri. […] Per questo l'oppressione militare ed economica prevede quasi sempre il razzismo, lo rende possibile e lo legittima. Bisogna abbandonare il costume di ritenere che il razzismo sia una disposizione dello spirito, una tara psicologica". (8)

Conseguentemente, il razzismo come ideologia di gerarchizzazione dell'umanità che giustifica la violenza e lo sfruttamento non è una caratteristica dell'umanità, ma una prodotto ritracciabile storicamente e geograficamente: l'Europa dell'emergere del capitalismo. Il biologismo come primo volto storico del razzismo conosce la sua età dell'oro nel XIX secolo, insieme all'esplosione industriale da una parte e alla febbre coloniale dall'altra. Il medico e antropologo francese Paul Broca classificò i crani umani con fini comparativi e concluse che "rispetto alla capacità craniale, il negro d'Africa occupa una posizione approssimativamente media tra l'europeo e l'australiano". (9) Di conseguenza, esiste qualcuno inferiore al nero, l'aborigeno, ma uno superiore indiscutibilmente, l'europeo. E siccome tutte le dominazioni richiedono dei processi di legittimazione, se non simili quanto meno convergenti, estende il suo metodo alla differenza di sesso per concludere che "la piccolezza relativa del cervello della donna dipende a sua volta dalla sua inferiorità fisica e dalla sua inferiorità intellettuale". (10)

1. Monopoli, neocolonialismo e culturalismo

Il XX secolo è quello della monopolizzazione del capitalismo. Questo processo si sviluppa a ritmi differenti per ognuna delle potenze. I grandi gruppi industriali dirigono sempre più l'economia e il capitale finanziario diviene preponderante. La relazione fisica e soggettiva tra il proprietario e la proprietà sparisce a beneficio della relazione tra il coupon dell'azione borsistica e l'azionista. Il grande colono proprietario di terre cede il passo all'azionista di miniere. Questa nuova struttura del capitalismo richiede una nuova forma di dominazione politica, il neocolonialismo, che Kwane Nkrumah definisce nel modo seguente: "L'essenza del neocolonialismo è che lo Stato sottomesso ad esso è teoricamente indipendente, possiede tutte le insegne della sovranità sul piano internazionale. Ma in realtà la sua economia e di conseguenza la sua politica sono manipolate dall'estero". (11)

Naturalmente, la presa di coscienza nazionalista e lo sviluppo delle lotte di liberazione nazionale accelerano la transizione di una forma di dominazione politica all'altra. Ma siccome l'obiettivo è mantenere la dominazione, continua ad esser necessario giustificare una gerarchizzazione dell'umanità. La nuova dominazione politica richiede una nuova età del razzismo. Il razzismo culturalista emergerà progressivamente come risposta a questa necessità facendosi dominante nei decenni che vanno dal 1960 al 1980. Adesso non si tratta di gerarchizzare biologicamente, ma culturalmente. L'esperto e il consulente si sostituiscono al colono e al militare. Adesso non si studia "la diseguaglianza dei crani" ma i "freni culturali allo sviluppo". Siccome adesso non si può legittimare su base biologica, la gerarchizzazione dell'essere umano si dispiega in una direzione culturale, attribuendo alle "culture" le stesse caratteristiche che prima determinavano in modo presunto le razze biologiche (immobilità, omogeneità, ecc.).

Sul piano internazionale il nuovo volto del razzismo permette di giustificare il mantenimento di una povertà e di una miseria popolare nonostante le indipendenze e le esperienze di emancipazione che ci sono state. Come si eludono le nuove forme di dipendenza (funzionamento del mercato mondiale, ruolo dell'aiuto internazionale, il franco CFA, ecc.), si trovano come cause esplicative alcuni aspetti culturali che presumibilmente caratterizzano i popoli delle ex colonie: l'etnicismo, il tribalismo, il clanismo, il gusto per le cose sfarzose, spese sontuose, ecc. Si dispiega così tutta una corrente teorica denominata "afro-pessimista". Stéphan Smith considera che "l'Africa non funziona perché continua ad esser "bloccata" da alcuni ostacoli socioculturali che essa sacralizza come i suoi gris-gris [amuleti] identitari" o anche che "il dattilografo, adesso provvisto di un computer, non ha più la fronte macchiata dal nastro della macchina da scrivere a forza di fare la siesta su di essa" (12). Gli fa eco Bernard Lugan, secondo cui la carità, la compassione e la tolleranza e i diritti umani sono estranei alle "relazioni africane ancestrali". (13)

Sul piano nazionale il razzismo culturalista assolve la stessa funzione, ma rispetto alle popolazioni sorte dall'immigrazione. Spiegare culturalmente alcuni fatti che segnalano le diseguaglianze sistemiche di cui sono vittime permette di delegittimare le rivendicazioni e le rivolte che suscitano queste diseguaglianze. Il fallimento scolastico, la delinquenza, il tasso di disoccupazione, le discriminazioni, le rivolte dei quartieri popolari, ecc., adesso non si spiegano per mezzo di alcuni fattori sociali ed economici, ma per mezzo di alcune causalità culturali o identitarie.

2. Capitalismo senile, balcanizzazione e islamofobia

Da quella che è stata chiamata "mondializzazione", il capitalismo si trova di fronte a nuove difficoltà strutturali. L'aumento costante della competizione tra le diverse potenze industriali rende impossibile la minima stabilizzazione. Le crisi si succedono una dietro l'altra senza interruzione. Il sociologo Immanuel Wallerstein considera che:

"Da trent'anni siamo entrati nella fase terminale del capitalismo. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase della successione ininterrotta di cicli congiunturali precedenti è che il capitalismo non riesce adesso a "fare sistema", nel senso che lo intende il fisico e chimico Ilya Prigogine (1917-2013): quando un sistema, biologico, chimico o sociale, si devia troppo e troppo spesso dalla sua situazione di stabilità non ottiene di recuperare l'equilibrio e si assiste allora ad una biforcazione. La situazione si rende allora caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino ad allora". (14)

Non si tratta semplicemente di una crisi di sovrapproduzione. Contrariamente a questa, la recessione non prepara nessuna ripresa. Le crisi si succedono e si incatenano senza ripresa alcuna, le bolle finanziarie si accumulano ed esplodono sempre più regolarmente. Le fluttuazioni sono sempre più caotiche e, pertanto, imprevedibili. La conseguenza di ciò è una ricerca del massimo profitto con qualsiasi mezzo. In questa competizione esacerbata in situazioni di instabilità permanente, il controllo dei flussi di materie prime è una questione più importante che nel passato. Adesso non si tratta solo di aver accesso per sé alle materie prime, ma di impedire che vi accedano i competitori (e in particolare le economie emergenti: Cina, India, Brasile, ecc.).

Minacciati nella loro egemonia, gli USA rispondono attraverso la militarizzazione e le altre potenze la seguono per garantire anch'essi l'interesse delle loro imprese. "Dal 2011", segnala l'economista Philip S. Golub, "gli Stati Uniti hanno intrapreso una fase di militarizzazione e di espansione imperiale che ha alterato profondamente la grammatica della politica mondiale" (15). Dall'Asia Centrale al Golfo Persico, dall'Afghanistan alla Siria passando per l'Iraq, dalla Somalia al Mali le guerre seguono il cammino dei luoghi strategici del petrolio, del gas, dei minerali strategici. Ora non si tratta di dissuadere i competitori e/o avversari ma di realizzare "guerre preventive".

Alla mutazione della base materiale del capitalismo corrisponde una mutazione delle forme della dominazione politica. Il principale obiettivo adesso non è insediare dei governi fantoccio che non possono più resistere in forma duratura alla collera popolare, ma balcanizzare per mezzo della guerra per far sì che questi paesi siano ingovernabili. Dall'Afghanistan alla Somalia, dall'Iraq al Sudan il risultato delle guerre è ovunque lo stesso: la distruzione della base stessa delle nazioni, la decadenza di tutte le infrastrutture che permettono la governabilità, l'installazione del caos. Da adesso si tratta di balcanizzare le nazioni.

Tale dominio ha bisogno di una nuova legittimazione, formulata in base alla teoria dello scontro di civiltà. Questa teoria vuole indurre certi comportamenti di panico e di paura, con l'obiettivo di suscitare una richiesta di protezione e approvazione delle guerre. Dal discorso del terrorismo, che richiede guerre preventive fino alla teoria della grande sostituzione passando per le campagne sull'islamizzazione dei paesi occidentali e sui rifugiati vettori di terrorismo, il risultato atteso è sempre lo stesso: paura, panico, richiesta di sicurezza, legittimazione delle guerre, costruzione del musulmano come nuovo nemico storico. L'islamofobia è, effettivamente, una terza età del razzismo che corrisponde alle mutazioni di un capitalismo senile, ossia, che non può più apportare nulla di positivo all'umanità, ma solo guerra, miseria e la lotta di tutti contro tutti. Non esiste uno scontro di civiltà ma una crisi di civiltà imperialista che esige una vera rottura. Ciò che cercano di evitare con tutti i mezzi non è la fine del mondo, ma la fine del loro mondo.

 
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La narrazione che ha ucciso il popolo siriano

Post n°478 pubblicato il 31 Marzo 2016 da Guerrino35

 

www.resistenze.org - popoli resistenti - siria - 29-03-16 - n. 582

La narrazione che ha ucciso il popolo siriano


Sharmine Narwani | rt.com
Traduzione da tlaxcala-int.org

23/03/2016

Il 23 marzo 2011, proprio all'inizio di quello che oggi chiamiamo il 'conflitto siriano', due giovani -Sa'er Yahya Merhej e Habeel Anis Dayoub- sono stati freddati nella città meridionale siriana di Daraa. Merhej e Dayoub non erano civili e non si opponevano al governo del presidente siriano Bashar al-Assad.

Erano due soldati regolari nelle file dell'esercito siriano arabo (ASA). Uccisi da uomini armati sconosciuti, Merhej e Dayoub sono stati i primi di ottantotto soldati uccisi in tutta la Siria nel primo mese di questo conflitto, a Daraa, Latakia, Douma, Banyas, Homs, Moadamiyah, Idlib, Harasta, Suweida, Talkalakh e nella periferia di Damasco.

Secondo la Commissione Internazionale Indipendente delle Nazioni Unite, incaricata di indagare sulla Siria, il bilancio delle vittime fra le forze governative siriane era di 2.569 entro marzo 2012, il primo anno del conflitto. A quel tempo, le Nazioni Unite stimano a 5.000 il totale delle vittime di violenza politica in Siria.

Queste cifre danno un quadro completamente diverso degli eventi in Siria. Decisamente non era il conflitto dipinto nei nostri titoli -se non altro, la 'parità' di morti da entrambe le parti suggerisce che il governo usò una forza 'proporzionale' nel contrastare la violenza.

Ma la morte di Merhej e Dayoub fu ignorata. Non un singolo media occidentale raccontò la loro storia o quella degli altri soldati uccisi. Queste morti semplicemente non erano in linea con la 'narrazione' occidentale delle rivolte arabe e non erano conformi agli obiettivi politici dei governi occidentali.

Per i politici americani, la "primavera araba" ha fornito un'occasione unica per scalzare i governi degli Stati avversari in Medio Oriente. La Siria, il più importante membro arabo del' 'Asse di Resistenza' a guida Iraniana, era il bersaglio numero uno.

Per provocare il cambio di regime in Siria, i temi della "primavera araba" dovevano essere impiegati opportunisticamente – e così i siriani dovevano morire.

Il "dittatore" doveva semplicemente "uccidere il suo stesso popolo", e il resto sarebbe venuto da solo.


Come le parole uccidono

Quattro narrazioni chiave sono state propinate fino alla nausea in ogni organo di stampa occidentale allineato, a partire dal marzo 2011 e con sempre più veemenza nei mesi successivi.

– Il dittatore sta uccidendo "il suo popolo";

– Le proteste sono "pacifiche";

– L'opposizione è "disarmata";

– Si tratta di una "rivoluzione popolare".

I governi filo-occidentali di Tunisia ed Egitto erano stati appena spodestati in rapida successione nei due mesi precedenti – e quindi l'idea di una primavera araba con cambi di regime messi in moto dal basso esisteva nella psiche collettiva regionale. Queste quattro 'narrazioni' accuratamente congegnate, che erano divenute significative in Tunisia e in Egitto, venivano ora rielaborate e scaricate su ogni governo da delegittimare e minare.

Ma per impiegarle a pieno potenziale in Siria, i siriani dovevano scendere in piazza in numero significativo e civili dovevano morire per mano di forze di sicurezza brutali. Il resto si poteva spacciare per "rivoluzione" con la vasta gamma di media stranieri e regionali impegnati in questa narrazione di "Primavera Araba".

Tuttavia, le proteste in Siria non crebbero com'era avvenuto in Tunisia e in Egitto. In quei primi mesi, abbiamo visto gruppi che per lo più si contavano a centinaia -talvolta a migliaia- ed esprimevano vari gradi di malcontento politico. La maggior parte di quei gruppi seguiva il canovaccio di un incitamento da moschee di influenza wahhabita durante le preghiere del venerdì, o dopo uccisioni locali, che dovevano incitare folle inferocite a riunirsi per i funerali pubblici.

Un membro di spicco di una famiglia di Daraa mi ha spiegato che c'era confusione su chi stava uccidendo la gente nella sua città -il governo o 'forze occulte'. Egli ha spiegato che, in quel tempo, i cittadini di Daraa avevano due orientamenti:
"Uno era che il regime stava uccidendo più persone per fermarli e per avvertirli di smetterla di protestare e di radunarsi. L'altra opinione era che milizie occulte volevano che ciò continuasse, perché se non ci sono funerali non ci sono ragioni per radunare le persone".

Con il senno di poi, diamo un'occhiata a queste narrazioni sulla Siria dopo cinque anni di conflitto:

Sappiamo ora che diverse migliaia di soldati delle forze di sicurezza siriane furono uccisi nel primo anno, a partire dal 23 marzo 2011. Perciò sappiamo anche che l'opposizione fu armata fin dall'inizio del conflitto. Abbiamo prove filmate di uomini armati che entrano in Siria attraverso il confine libanese in aprile e maggio 2011. Sappiamo dalle testimonianze di osservatori imparziali che uomini armati prendevano di mira i civili in atti di terrorismo e che le "proteste" non erano tutte "pacifiche".

Una missione della Lega Araba condusse un'indagine di un mese in Siria alla fine del 2011 e riferì:

"A Homs, Idlib e Hama, la missione di osservatori ha assistito ad atti di violenza, commessi contro forze governative e civili, che hanno causato diversi morti e feriti. Esempi di tali atti includono l'esplosione di un autobus civile con l'uccisione di otto persone e il ferimento di altre tra cui donne e bambini, e l'esplosione di un treno che trasportava gasolio. In un altro incidente a Homs, un autobus della polizia è stato fatto saltare in aria, uccidendo due agenti. Sono anche stati fatti saltare in aria un oleodotto e alcuni piccoli ponti".

Il sacerdote olandese padre Frans van der Lugt, residente da anni in Siria, ucciso a Homs nel mese di aprile 2014, aveva scritto nel gennaio 2012:

"Fin dall'inizio i movimenti di protesta non erano puramente pacifici. Fin dall'inizio ho visto manifestanti armati che marciavano nei cortei e cominciato per primi a sparare contro la polizia. Molto spesso la violenza delle forze di sicurezza è stata una reazione alla brutale violenza dei ribelli armati".

Qualche mese prima, nel settembre 2011, padre Frans aveva osservato:

"Fin dall'inizio c'è stato il problema dei gruppi armati, che fanno pure parte dell'opposizione… L'opposizione sulla strada è molto più forte di qualsiasi altra opposizione. Questa opposizione è armata e impiega spesso la brutalità e la violenza solo per poi dare la colpa al governo".

Inoltre, sappiamo anche che in Siria è successo di tutto tranne "rivoluzioni popolari". L'esercito siriano è rimasto integro, anche dopo che media compiacenti hanno riferito di presunte defezioni di massa. Centinaia di migliaia di siriani hanno continuato a marciare a sostegno del presidente in manifestazioni mai riferite dai media. Le istituzioni dello Stato e di governo e i dirigenti del mondo degli affari sono in gran parte rimasti fedeli ad Assad. I gruppi minoritari -alawiti, cristiani, curdi, drusi, sciiti, e il partito Baath, che è a maggioranza sunnita- non si sono uniti all'opposizione contro il governo. E le principali aree urbane e centri abitati rimangono sotto l'ombrello dello Stato, con poche eccezioni.

Una
"rivoluzione" genuina, oltretutto, non ha sale operatorie in Giordania e in Turchia. E non è "popolare" una rivoluzione finanziata, armata e assistita da Qatar, Arabia Saudita, Stati Uniti, Regno Unito e Francia.

Seminare "narrazioni" per interessi geopolitici

Il manuale delle Forze Speciali per la Guerra non Convenzionale degli Stati Uniti del 2010 afferma:

"L'intento [della Guerra Non Convenzionale – GNC] degli Stati Uniti è di sfruttare la vulnerabilità politica, militare, economica e psicologica di una potenza ostile sviluppando e sostenendo forze di resistenza per raggiungere gli obiettivi strategici americani… Per il futuro prevedibile, le forze Usa saranno prevalentemente impegnate in operazioni di Guerra Irregolare (GI)".

Un fonogramma segreto del 2006 del Dipartimento di Stato rivela che il governo di Assad, a livello nazionale e regionale, era in una posizione più forte rispetto agli ultimi anni, e suggerisce modi per indebolirlo:
"Ciò che segue è una sintesi di potenziali vulnerabilità e possibili mezzi per sfruttarla…". Segue un elenco di "vulnerabilità" -politiche, economiche, etniche, settarie, militari, psicologiche- e "azioni" raccomandate per "sfruttarle".

Questo è importante. La dottrina della GNC degli Stati Uniti postula che le popolazioni degli stati avversari di solito hanno minoranze attive che rispettivamente si oppongono e sostengono il loro governo, ma perché un
"movimento di resistenza" abbia successo, deve influenzare la percezione della larga "fascia non impegnata" perché si rivolti contro i propri leader. Dice il manuale (e qui prendo a prestito liberamente da un precedente mio articolo):

Per attivare la
"fascia non impegnata" in supporto della ribellione, la GNC raccomanda la "creazione di un'atmosfera di ampio malcontento attraverso la propaganda e gli sforzi politici e psicologici per screditare il governo".

A mano a mano che il conflitto si intensifica, altrettanto deve fare la "
intensificazione della propaganda; la preparazione psicologica della popolazione per la ribellione".

In primo luogo, ci dovrà essere
"agitazione" locale e nazionale -l'organizzazione di boicottaggi, scioperi, e altri sforzi per suggerire malcontento pubblico. Poi, la "infiltrazione di organizzatori e consulenti stranieri e propaganda, materiali, denaro, armi e attrezzature straniere".

Il livello successivo sarà di stabilire
"organizzazioni nazionali di facciata" [vale a dire il Consiglio Nazionale Siriano] e movimenti di liberazione [vale a dire l'Esercito per la Liberazione della Siria] che spingeranno più grandi segmenti della popolazione ad accettare "violenza politica e sabotaggi crescenti" e a favorire l'appoggio a "individui o gruppi che conducono atti di sabotaggio nei centri urbani".

Ho scritto che strategie di guerra irregolare sostenute da forze straniere erano applicate in Siria a un anno dall'inizio della crisi -quando le schiaccianti narrazioni multimediali vertevano ancora tutte su "il dittatore che uccide la sua gente", le "proteste pacifiche", l'opposizione per lo più "disarmata", la "rivoluzione genuinamente popolare", e migliaia di "civili" presi di mira esclusivamente dalle forze di sicurezza dello stato.

Erano queste narrazioni tutte manipolate? Le immagini che abbiamo visto erano tutte montature? O bastava solo fare alcune cose perché la "percezione" della vasta "fascia non impegnata", una volta forgiata, potesse creare un proprio sbocco naturale verso un cambiamento di regime?

E che cosa ce ne facciamo noi, nella regione, di questa sorprendente nuova informazione su come le guerre sono condotte contro di noi -usando le nostre popolazioni come soldati di fanteria per interessi stranieri?

C
reare un "gioco" nostro

Da questo gioco di narrazioni possiamo trarre due lezioni.

La prima lezione è che le idee e gli obiettivi possono essere fabbricati, incorniciati, rifiniti e impiegati con grande efficacia.

La seconda lezione è che abbiamo bisogno di stabilire media più indipendenti e canali di informazione per diffondere in lungo e in largo le nostre proposte di valore.

I governi occidentali possono contare su un esercito ridicolmente servile di giornalisti occidentali e regionali per rovinarci con la loro propaganda di giorno e di notte. Non abbiamo bisogno di contrastarli per numero o punti di distribuzione -possiamo anche utilizzare strategie per scoraggiare le loro campagne di disinformazione. Giornalisti occidentali che più volte pubblicano informazioni false, inesatte e nocive, che mettono in pericolo la vita, devono essere esclusi dalla regione.

Questi non sono giornalisti -preferisco chiamarli mercenari dei media- e non meritano le libertà riconosciute ai veri professionisti dei media. Se questi giornalisti occidentali, nel primo anno del conflitto siriano, avessero messo in discussione le premesse anche di una sola delle quattro narrazioni di cui sopra, avremmo 250.000 e più siriani morti oggi? Sarebbe la Siria distrutta, e oltre 12 milioni di siriani senza tetto? Esisterebbe l'ISIS?

Libertà di parola? No grazie – no, se dobbiamo morire per gli interessi di qualcun altro.

La Siria ha cambiato il mondo. Ha attirato i russi e i cinesi (BRICS) nella mischia e ha cambiato l'ordine globale, da unipolare a multilaterale -nel giro di una notte. E ha creato una causa comune tra un gruppo di stati chiave della regione che ora formano la spina dorsale di un crescente 'Arco di Sicurezza' dal Levante al Golfo Persico. Ora abbiamo immense opportunità di ri-disegnare il mondo e il Medio Oriente secondo la nostra visione. I nuovi confini? Li tracceremo noi dall'interno della nostra regione. I terroristi? Li sconfiggeremo noi stessi. Le ONG? Creeremo le nostre, con i nostri cittadini e con le nostre agende. Gli oleodotti? Decideremo noi dove farli passare.

Ma iniziamo a costruire quelle nuove narrazioni prima che 'Altri' vengano a riempire il vuoto.

Una parola di cautela. La cosa peggiore che possiamo fare è sprecare il nostro tempo confutando le narrazioni straniere. Quello fa di noi semplicemente i 'negazionisti' nel loro gioco. E rafforza il loro gioco. Quello che dobbiamo fare è creare il nostro gioco -un ricco vocabolario di narrazioni fatte in casa- un gioco che definisca noi stessi, la nostra storia e le nostre aspirazioni in base alle nostre realtà politiche, economiche e sociali. Lasciamo che siano gli 'Altri' a negare la nostra versione, facciamo diventare loro i "negazionisti' nel nostro gioco… dandogli vita.

 

 
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CINQUE ANNI DI GUERRA IN SIRIA

Post n°477 pubblicato il 24 Marzo 2016 da Guerrino35

Cinque anni di guerra in Siria

Higinio Polo | elviejotopo.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/03/2016

Oggi fanno cinque anni da quando è iniziata la guerra in Siria. La maggior parte delle fonti ne data l'inizio al 15 marzo 2011.

In quei giorni sulla stampa internazionale si parlava di manifestazioni a Damasco e in altre città siriane, di confuse informazioni sui morti nelle proteste represse dalla polizia e anche delle manifestazioni dei sostenitori di Bashar al-Assad, nella caotica ondata delle "primavere arabe" che ha avuto inizio in Tunisia, per proseguire in Egitto e in altri paesi. L'emergere di nuovi attori politici in Siria, come la "Organizzazione siriana per i diritti umani", che ha fornito informazioni ai media di tutto il mondo e che dietro aveva la mano dei governi occidentali, ha iniziato a cambiare la situazione. Allo stesso tempo, in quei giorni di marzo, Francia e Gran Bretagna stavano preparando la guerra contro Gheddafi, mentre Obama, che aveva minacciato il leader libico, dichiarava di non essere intenzionato a inviare truppe in Libia, ma che avrebbe agito secondo un altro piano. Una settimana dopo l'inizio della guerra in Siria, la flotta Usa si preparava a lanciare l'attacco in Libia, e gli aerei inglesi, americani e francesi cominciarono a bombardare il paese. E l'Arabia Saudita interveniva in Bahrain per reprimere le proteste della popolazione.

Non c'è dubbio che le prime proteste in Siria siano state duramente represse dal governo e il numero dei manifestanti morti, anche se oggi ancora non ben definito, lo dimostra. Queste manifestazioni di protesta furono rapidamente riconvertite dalle monarchie del Golfo e dai servizi segreti nordamericani in gruppi armati beneficiari di finanziamenti, armi e sostegno diplomatico, oltre a un enorme impatto sui media occidentali. L'emergere dell'Esercito Libero Siriano, costituito dai settori dell'opposizione siriana più estremi, da disertori dell'esercito e da jihadisti che iniziavano ad arrivare nel paese, fra i primi gruppi armati, segnarono l'inizio di una guerra civile aperta.

Quelle "primavere arabe", che da quanto si supponeva avrebbero inaugurato un'epoca democratica e di libertà in gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa, hanno condotto al caos libico (Gheddafi è stato ucciso nell'ottobre 2011, probabilmente da commandos guidati dai servizi segreti occidentali), in cui oggi anche i bambini vengono rapiti e impiccati. Hanno portato anche al colpo di stato egiziano, sostenuto dagli Stati Uniti, e in Yemen alla caduta di Ali Abdullah Saleh del febbraio 2012, avvenuta dopo il sanguinoso intervento militare di Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, con la complicità e l'appoggio statunitense, che prosegue oggi anche se non suscita tanta attenzione internazionale.

La Siria è stata trasformata in un campo di battaglia dove diverse milizie e gruppi terroristici sponsorizzati da Arabia Saudita, Turchia e dalle monarchie del Golfo Persico, aiutati dagli Stati Uniti e in compagnia di Daesh e al-Qaeda che occupano gran parte del paese, con i gruppi curdi che si oppongono sia al governo di Damasco che ai jihadisti, si fronteggiano con l'esercito siriano di Bashar al-Assad, che riceve l'aiuto dell'Iran e del libanese Hezbollah, oltre ai bombardamenti russi che attaccano le truppe jihadiste che si oppongono al governo di Damasco. La Turchia, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti si sono dimostrati disposti a inviare truppe in Siria, con l'obiettivo palese di rovesciare il governo siriano.

Gli incerti negoziati di Ginevra, stimolati da Mosca e infine accettati da Washington, possono essere il modo per raggiungere la pace. Ma la tregua è molto fragile. Gli Stati Uniti volevano fin dall'inizio rovesciare il governo siriano con la vecchia scusa di promuovere la democrazia, pretesto che ha già inondato di sangue tutto il Medio Oriente, dall'Afghanistan all'Iraq, passando per Siria e Yemen, per non parlare della Libia. Perché il mostro della guerra è sempre peggio di una dittatura. L'irresponsabilità Usa ha scatenato il massacro di centinaia di migliaia di siriani e un esodo di milioni di persone che affollano i paesi vicini e che lottano anche per raggiungere l'Europa. La cecità dei paesi dell'Unione europea, sempre accomodante verso Washington, li ha portati a sostenere i gruppi terroristici stimolati dagli Stati Uniti... senza prevedere che la guerra e la crisi umanitaria da essa innescata avrebbe causato centinaia di migliaia di profughi che cercano di raggiungere l'Europa, rifugiati che ora l'Unione europea vuole ignorare, in uno spettacolo vergognoso fatto di indifferenza e irresponsabilità dei principali governi europei.

Gli Stati Uniti hanno chiamato "opposizione moderata siriana" i feroci gruppi jihadisti da loro armati, che sul terreno non differiscono nelle loro azioni dal Fronte al-Nusra o da Daesh. In questo senso, il linguaggio fa parte della strategia di guerra. Questa "Coalizione Nazionale" promossa dagli Stati Uniti raggruppa decine di distaccamenti armati, molti dei quali dipendenti dai paesi della regione, dall'Arabia Saudita alla Turchia, come pure i gruppi guidati dai servizi segreti, tra cui emergono in particolare quelli di Israele. Va ricordato che nel marzo 2011 Israele aveva insistito con gli Stati Uniti perché venisse subito attaccato l'Iran e, per delega, il suo alleato nella regione, la Siria. In realtà, attaccare la Siria era stata un'ipotesi costantemente avanzata negli anni di presidenza Bush, inerzia poi proseguita da Obama. Il New York Times riportava nel gennaio 2002 che il principe Abdulaziz, capo dei servizi segreti dell'Arabia Saudita, estremamente turbato, aveva così risposto ai funzionari del governo Usa: "Alcuni giorni dite di voler attaccare l'Iraq, altri giorni la Somalia, altri ancora il Libano, altri la Siria ... Chi volete attaccare, tutto il mondo arabo? E volete che vi sosteniamo? È impossibile, impossibile". In seguito, lo scoppio delle "primavere arabe" avrebbe inaugurato uno scenario diverso e l'Arabia Saudita appoggiò il partito dei sostenitori del rovesciamento del governo di Damasco. Fino ad oggi.

Ora i bombardieri del Pentagono si limitano ad attaccare Daesh, la sinistra creatura partorita dalla disastrosa occupazione statunitense dell'Iraq e dai gravi errori dei suoi militari e funzionari nella gestione del paese. Gli Stati Uniti hanno inoltre trascinato gli alleati della Nato, sia pure con riluttanza, nelle loro avventure in Medio Oriente e Nord Africa, mentre la cancrena in Iraq e in Afghanistan, in Yemen e Libia avanza, mentre la sofferenza senza fine del popolo palestinese prosegue ignorata e Israele continua uccidere e mentre Washington lavora per tentare di limitare il peso di Mosca nella regione.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno cercato di evitare morti tra i loro soldati perché i cittadini americani non vedessero le scene desolanti dell'arrivo dei sacchi per cadaveri negli aeroporti, ma senza preoccuparsi troppo del fatto che altri alleati avrebbero preso il loro posto nel gigantesco letamaio in cui è stato trasformato il Medio Oriente. Né il governo Usa ha espresso preoccupazione per la gigantesca crisi dei rifugiati causata dalle loro guerre: la stragrande maggioranza di coloro che arrivano in Turchia, Libano e Giordania, come in Europa, sono cittadini afgani, iracheni e siriani. Una crisi che sta lacerando il continente europeo, riempiendolo di barriere, xenofobia, di indifferenza per la sofferenza altrui e di bande di estrema destra, mentre i governi europei convivono con la violazione dei diritti umani dei rifugiati, con l'umiliazione, con la vergogna.

Le scene dei rifugiati sotto la pioggia, al freddo, repressi dalla polizia in alcuni paesi europei, dei bambini davanti alle recinzioni; i trecentomila morti, gli undici milioni di sfollati, i cinque milioni di profughi: queste sono le uniche vittorie statunitensi, dopo cinque anni di guerra in Siria.

 
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SIGONELLA

Post n°476 pubblicato il 03 Marzo 2016 da Guerrino35

www.resistenze.org - osservatorio - della guerra - 29-02-16 - n. 578

From Italy to Lybia? Il caso dei droni armati a Sigonella

Matteo De Fazio * intervista Mazzeo | antoniomazzeoblog.blogspot.it

28/02/2016

Qualche giorno fa, il Wall Street Journal ha rivelato come da circa un mese governo italiano abbia autorizzato il decollo di droni armati statunitensi dalla base di Sigonella, in Sicilia, per permettere operazioni militari in Nord Africa. Fino al mese scorso infatti, questi droni sembravano utilizzati solo per sorveglianza aerea. I commenti di queste ore parlano del conseguente intervento in Libia auspicato dagli Usa e dissimulato dal Governo italiano: una decisione che non è un preludio di un intervento militare, secondo il ministro Gentiloni. Ne abbiamo parlato con Antonio Mazzeo, giornalista ed esperto di geopolitica militare.

Questa notizia è strettamente legata alla questione libica?

Ci troviamo di fronte ad un'escalation inarrestabile: questo tentativo di intervento in Libia, prima con i bombardamenti, poi con un intervento via terra è programmato da oltre un anno ed è all'ordine del giorno in ambito Nato e nella Conferenza dei paesi arabi. A meno che non ci sia da parte delle Nazioni Unite un tentativo diverso, penso che si andrà molto probabilmente verso un secondo conflitto in Libia. In questo quadro geostrategico la Sicilia e la base di Sigonella, che ormai è una capitale mondiale degli aerei senza pilota, assumerà un ruolo determinante. Però non è una notizia nuova: già nella 2011, nella prima grande guerra scatenata contro la Libia di Gheddafi, da Sigonella partirono non soltanto i droni di intelligence Global Hawke che operano in questa base da una decina di anni, ma soprattutto i droni killer Predator e Reaper. Nel 2013 fu presentato un rapporto al Parlamento da alcuni studi di ricerca che evidenziarono come un accordo bilaterale tra Italia e Stati Uniti per dislocare aerei killer stabilmente nella base di Sigonella era stato firmato nella primavera del 2013, quindi già da 3 anni questi sistemi operano dalla Sicilia e sappiamo di interventi sia in Nord Africa sia in Niger, in Mali o in Somalia.

Gentiloni ha detto che non sarà il preludio ad un intervento in Libia. Che ne pensa?

Stiamo parlando di droni killer, dunque con una funzione strategica di first strike: servono ad annientare gli obiettivi militari (ma spesso colpiscono anche quelli civili) impedendo qualsiasi tipo di risposta. Nelle logiche di guerra, a partire dalla prima guerra del Golfo (ma anche nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq o in Libia) prima di un intervento di terra e di un'eventuale occupazione da parte delle forze armate, c'è bisogno di un intervento massiccio di bombardamenti che distruggano le infrastrutture. Tentare di edulcorare la pillola come sta facendo il Governo italiano mi sembra una mistificazione. Un commento sulla questione del "di volta in volta" di Renzi: 30 anni fa, con la vicenda di Sigonella sul fatto dell'uso della parte americana della base per operazioni di pirateria internazionale che scatenò un momento di grande conflitto tra l'Italia e gli Usa, si pose il problema. Quando una forza armata straniera utilizza le infrastrutture italiane a uso proprio non ci sono strumenti diplomatici né tecnici per impedire un uso che sia contrario alle visioni politiche e agli interessi geostrategici del nostro paese. Tornando alla questione costituzionale, il problema dovrebbe portare a una discussione sulla presenza di basi straniere nel nostro paese, che non possono essere giustificate con il trattato Nato, che era un trattato di mutua sicurezza.

Come tocca l'articolo 11 della Costituzione?

I costituzionalisti pongono il problema sulle questioni relative alla difesa, soprattutto quando si concede l'uso del territorio a una potenza straniera per operazioni portate avanti unilateralmente, quindi fuori da accordi bilaterali o multilaterali come la Nato. Vorrei ricordare che la base di Sigonella, come Camp Derby vicino Livorno o la base stessa di Vicenza sono classificate basi Usa, date in concessione alle forze armate statunitensi fuori da una possibilità di valutazione geopolitica in ambito Nato. Ciò avrebbe richiesto per lo meno un passaggio parlamentare: alcuni costituzionalisti hanno posto il problema sia per strumenti di comunicazione, come il Muos, sia per esempio per la presenza di testate nucleari nella base di Aviano e di Ghedi che sicuramente violano il dettato costituzionale e la firma italiana all'accordo internazionale di non proliferazione nucleare.

Come pongono l'Italia nel quadro del terrorismo globale queste decisioni?

Non dobbiamo dimenticare che l'Italia negli anni '70 e '80 ebbe un ruolo determinante come ponte di dialogo tra l'Occidente e il mondo arabo: questo ha consentito per moltissimi anni di tenere fuori l'Italia da veri e propri attentati terroristici quando organizzazioni radicali del mondo arabo erano invece presenti in altre parti d'Europa e agivano profondamente colpendo la sicurezza e l'ordine pubblico. Questa situazione è cambiata, l'Italia ha fatto una scelta di campo, a mio parere disastrosa, fornendo la piattaforma per operazioni militari di altri, perdendo un ruolo che sarebbe stato importante per l'Ue per tentare il dialogo e proporsi come ponte di confronto e pace, determinando un'inversione di tendenza che va verso la guerra totale e globale che si sta preparando sotto i nostri occhi. Un'occasione persa che sovraespone milioni di persone, soprattutto quei cittadini che vivono accanto alle basi strategiche. Purtroppo chi di spada ferisce, non può che aspettare di perire di spada".

* Intervista a cura di Matteo De Fazio, pubblicata in Riforma.it, quotidiano on-line delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste e Valdesi, il 24 febbraio 2016.
 
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Perché č il “comunista“ Thomas Sankara č l’eroe della gioventł africana

Post n°475 pubblicato il 04 Febbraio 2016 da Guerrino35

Perché è il “comunista“ Thomas Sankara è l’eroe della gioventù africana

I giovani del Sahel e dell’Africa sub-sahariana si ispirano a Tom Sank, e non ai jihadisti

[3 febbraio 2016]

Thomas Sankara

L’articolo “Thomas Sankara, héros plébiscité par la jeunesse africaine” che Abdourahman Waber ha scritto per Le Monde fa giustizia di molte teorie sulla “fascinazione” che il jihadismo avrebbe sulla gioventù saheliana e africana in generale. E Waberi è uno che di queste cose se ne intende: è nato nel 1965 a Gibuti, quando il più piccolo Paese del Corno d’Africa era ancora una colonia francese, vive tra Parigi e gli Usa, dove insegna alla George Washington University ed è autore di libri come Aux Etats-Unis d’Afrique e La Divine Chanson. Secondo questo intellettuale africano, «Il capitano da berretto rosso appartiene a quelle figure profetiche che incarnano le più nobili aspirazioni di un popolo», aspirazioni di libertà, emancipazione femminile, autodeterminazione, autogoverno  che sono il contrario dell’ideologia islamo-fascistae del jihadismo e che probabilmente spiegano anche i recenti attentati nel Burkina Faso ritornato alla democrazia.

Waberi  scrive: «In Africa è usanza dire che gli antenati non muoiono mai, si mescolano e restano nella natura. Se si crede al poeta Birago Diop, il loro respiro è ovunque, anima l’aria e l’acqua, la pietra e la foresta. C’è una categoria di antenati più immortale degli altri: le figure profetiche, capaci di incarnare le profonde ispirazioni di uguaglianza, di liberazione e di giustizia del loro popolo. Thomas Sankara è uno di loro».

Anche se l’ex presidente del Burkina Faso è quasi ignorato dalla politica italiana (anche di sinistra) che invece ha tributato onori e finanziamenti al suo assassino Balaise Compaoré,  Sankara è, dopo Nelson Mandela, l’eroe più noto e amato tra i giovani africani ed anche i grafici, i videomakers, i fumettisti e i musicisti gli hanno dedicato molte opere.  Da Fela à Alpha Blondy, passando per  Smockey e Cheikh Lô, tutte le grandi voci del continente africano (ma anche Fiorella Mannoia in Italia)  hanno celebrato “Tom Sank” e tra qualche settimana uscirà “Sankara: a revolutionary life and legacy in West Africa” una nuova biografia dedicata all’uomo che trasformo l’Alto Volta in Burkina Faso, la terra degli uomini integri” in more e in bambara.

Eppure, anche Waberi dice che le ragioni della persistenza del mito di questo giovane uomo, un cristiano che governò brevemente un Paese a maggioranza musulmano e animista, propugnando un comunismo di nuovo tipo, sono difficili da spiegare. Resta il suo progetto politico ancora abbozzato, ma che rompeva con il “socialismo africanista” complice del neocolonialismo, e con il tribalismo e la divisione etnica e religiosa, restano  le sue scelte che resero autosufficiente un Paese poverissimo, i suoi interventi spiazzanti, sinceri, radicali nei consessi internazionali, che probabilmente gli sono costati la vita.

Il bilancio dei 4 anni di presidenza di Sankara è stato incisivo, coerente, ma appena abbozzato, eppure, «In quattro soli anni, in un contesto difficile, Sankara ha saputo meglio ispirare di altri in 40 anni».

Il Paese degli uomini integri, nato nel 1983 grazie ad un gruppo di giovani golpisti che avevano abbattuto l’ultima dittatura filo-francese che si era succeduta in Alto Volta, dimostrò subito di essere e di voler diventare qualcosa di davvero diverso, di voler fare una rivoluzione che avrebbe potuto essere l’esempio per un’Africa progressista. Il golpe e l’assassinio che misero fine al governo e alla vita di Sankara posero fine a tutto questo e dettero il via ad una nuova politica neocolonialista, basata sul controllo e l’accesso alle risorse, che hanno portato pria ad un succedersi di dittature e golpe e poi alla rivolta reazionaria jihadista, che mira a quelle stesse risorse per costruire un califfato islamico africano.

Sankara e il sankarismo era l’alternativa uccisa nella culla perché facevano molto più paura ai mandanti di Compaorè di qualsiasi ribellione etnica e religiosa. Waberi scrive: Visionario, il regime di Sankara si schierò con i più deboli, predicò le virtù dell’economia locale, respinse I prestiti della Banca mondiale e mise  in moto l’autosufficienza alimentare e la produzione tessile. Più autonomia per le donne, le classi lavoratrici e I contadini che vivevano sotto il giogo dei capi villaggio. Abolizione del lavoro obbligatorio che colpiva I piccolo agricoltori, promozione dell’uguaglianza dei sessi, divieto dell’escissione e della poligamia».

E non è tutto, Tom Sank avviò la costruzione di case popolari, istituì un programma di vaccinazioni di massa, rinnovò il trasporto ferroviario e fece della lotta all’analfabetismo il centro della sua politica. Ma soprattutto condusse una aggressiva campagna contro la corruzione, dando lui stesso l’esempio, assegnandosi lo stipendio di un lavoratore qualunque e guidando una vecchia utilitaria.

Sembra il programma alternativo, in tutto, alla predicazione jihadista, ed è questo che vorrebbero i giovani africani, che evidentemente, come invece vorrebbero farci credere in molti, non vogliono affatto arruolarsi nell’esercito nero della reazione islamista, ma vorrebbero un’africa progressista, libera, autonoma e solidale.

Il mito di Sankara è anche  quello di un seduttore che ha usato anche le maniere forti, che vietò i sindacati e i partiti del precedente regime  e che eliminò alcuni “parassiti”, “controrivoluzionari” e “militari corrotti”, ma la rivoluzione, come direbbe qualcuno, non è un pranzo di gala, soprattutto quando è armata e Waberi spiega: «Se il suo regime fu lontano dall’essere perfetto, la posterità riconosce la rivoluzione del Burkina Faso per quello che è: un’esperienza uguale a nessun’altra». Ed è a questa eccezionale esperienza socialista che si rivolgono i giovani, gli artisti, gli attivisti africani quando ritraggono o cantano Sankara insieme a Che Guevara e Nelson Mandela, quando pensano ad un continente finalmente libero da guerre, dittatori, regimi corrotti che svendono le immense risorse dell’Africa. E’ a questo che pensano quando vedono l’alternativa soffocata al jihadismo nero, alla fame in un continente ricco, alla povertà mentre l’africa viene spogliata delle sue risorse. E’ a questo sogno che pensano molti dei giovani che muoiono o sopravvivono nel mare in tempesta delle migrazioni.  E’ questo il sogno che ci accusano di aver ucciso.

Abdourahman Waber conclude: «La grande forza de Thomas Sankara è quella di aver dato voce e corpo alla forza morale di un popolo, alla sua capacità di indignazione ed al suo desiderio di essere libero. Aggiungiamo che I suoi predecessori avevano l’abitudine di di svendere i bisogni e i sogni  di quelli che una volta si chiamavano i Voltaici. Anche morto, assassinato dai  suoi camerati d’armi, il fantasma di Thomas Sankara disturba. O meglio, minaccia le poltrone dei leader africani  mal eletti, preoccupati dei loro piccoli confini. Sotto le ceneri, sotterraneo  e nel silenzio,  il fuoco cova. E’ lo stesso fuoco che ha raggiunto, 27 anni dopo, il regime di Blaise Compaoré. Al tempo di Biya, Sassou, Jammeh, Guelleh e di altri  Nkurunziza, tutti stretti nel loro mantello di potentato, non stupisce che la stella di Thomas Sankara brilli sempre nel firmamento. La loro mediocrità non fa che sottolineare l’aura solare del capitano dal berretto rosso».

 
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Burkina Faso

Post n°474 pubblicato il 24 Settembre 2015 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - burkina faso - 20-09-15 - n. 557

Golpe restauratore in Burkina Faso

Agostino Alagna * | senzatregua.it

20/09/2015

Nonostante i mezzi di comunicazione borghesi abbiano riservato poco spazio alla notizia, gravi eventi stanno sconvolgendo in questi giorni il Burkina Faso, dove mercoledì scorso si è materializzato un Colpo di Stato ad opera dei militari della Guardia Presidenziale guidati da Gilbert Diendéré, legati al dittatore Blaise Campaoré destituito dopo 27 anni in seguito alla sollevazione popolare del 30 e 31 ottobre 2014 (1) da cui si avviò un "periodo di transizione" verso le elezioni previste per il prossimo 11 ottobre.

Gli interessi imperialisti nel paese sub-sahariano e la presunta "transizione democratica"

Il Burkina Faso è situato in Africa Occidentale a nord della Costa d'Avorio. Ha una popolazione di circa 18 milioni di abitanti, ma nonostante sia uno dei principali produttori di oro a livello mondiale e possegga grandi risorse minerarie ha un Pil pro-capite pari a 1.500 dollari, il che lo rende uno fra i paesi più poveri del mondo, con un'aspettativa di vita media di circa 50 anni e un'età media della popolazione di poco inferiore a 17, oltre ad essere tra i primi paesi al mondo per mortalità infantile (2)

Dopo la caduta di Camporé, la borghesia locale e le potenze imperialiste hanno posto sotto il loro controllo reazionario il "processo di transizione" allo scopo di soffocare il processo rivoluzionario che si era messo in modo con l'insurrezione del 30 ottobre. Le potenze imperialiste (Francia, USA, UE) e i vari regimi reazionari africani attraverso l'ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale) e l'Unione Africana sono intervenuti pesantemente negli eventi con il pretesto di "aiutare il popolo del Burkina Faso" per risolvere pacificamente e democraticamente la crisi. Il Burkina Faso è soprattutto per l'imperialismo francese e americano una piattaforma strategica fondamentale per i loro interventi militari nella regione nel quadro della competizione inter-imperialista per la spartizione dei territori e il saccheggio delle risorse minerarie del continente africano. L'imperialismo francese ha installato stabilmente nel paese le proprie truppe e un corpo speciale di intervento con il pretesto della "lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti" così come l'imperialismo statunitense che ha nella capitale Ouagadougou una sua base militare che funge da base d'intelligence per gli interventi imperialisti nella regione, le cosiddette "Operazioni Antiterrorismo" come quella avvenuta in Mali nel 2013.

Nell'Agosto 1983, il rivoluzionario marxista Thomas Isidore Noël Sankara divenne presidente, cambiando il nome del paese da Alto Volta in Burkina Faso (Terra degli Uomini Incorruttibili), sotto la sua presidenza ebbero luogo straordinarie conquiste sociali e significativi miglioramenti nelle condizioni di vita delle masse burkinabè. Alcuni tra i successi più eclatanti furono la massiccia campagna di vaccinazione e assistenza sanitaria, la ridistribuzione delle terre ai contadini, la soppressione delle imposte agricole, la proibizione della poligamia e dell'infibulazione e l'assoluta parità dei sessi. Vennero inoltre assicurati cinque litri d'acqua e due pasti al giorno ad ogni cittadino. Nel 1987 un colpo di stato guidato dall'Imperialismo Franco-Statunitense con l'appoggio dei militari liberiani pose fine all'esperienza del governo anti-imperialista in Burkina Faso con l'assassinio di Sankara e altri dodici ufficiali per opera di Blaise Compaoré che prese in quel momento il potere nel paese conservandolo per 27 anni, cancellando le conquiste democratiche e sociali delle masse popolari e restaurando le precedenti condizioni di sfruttamento e di miseria, rendendo i profitti delle ricchezze minerarie a esclusivo appannaggio dell'oligarchia locale e dei monopoli internazionali.

Dopo che le rivolte dell'ottobre scorso furono inizialmente represse nel sangue dai militari che non esitarono ad aprire il fuoco sul popolo insorto, esasperato dalle disumane condizioni di vita nel paese e dai quasi trent'anni di dittatura degli assassini di Sankara, il potere venne assunto dalle stesse forze armate con il loro capo, Nampere Honoré Traoré, figura vicina al regime e alle potenze imperialiste che ve ne fanno capo, che si dichiarò a capo di un governo di transizione di durata massima di dodici mesi incaricato di mantenere ordine nel paese, passando poco dopo l'incarico di Presidente all'ex diplomatico Michel Kafando e di Primo Ministro a Isaac Zida, fino allo scorso 16 settembre quando agli ordini di Gilbert Diendéré, il Comandante Aziz Korongo e il Generale Celeste Coulibay, la Guardia Presidenziale, addestrata dall'Esercito e i servizi segreti francesi (3) hanno sequestrato il presidente ad interim sciogliendo le istituzioni e dichiarando pubblicamente "la fine del degenerato governo di transizione" con un comunicato del generale Mamadou Bamba sulla televisione nazionale. Il ruolo avuto nel golpe dalla Guardia Presidenziale indica la firma dell'imperialismo francese a cui sono strettamente legati i leader golpisti a garanzia della continuità della promozione degli interessi economici dei monopoli francesi nel paese e geostrategici nel continente africano.

Uno scontro interno alle fazioni della borghesia locale collegati agli interessi e manovre delle potenze imperialiste con l'obiettivo di restaurare l'ordine nel paese, alla luce dello sviluppo del movimento popolare e dell'ascesa in particolare dei partiti di ispirazione sankarista.

Il crescente protagonismo della classe lavoratrice e della gioventù nel mito di Sankara

La sollevazione di fine ottobre scorso fu figlia di una accumulazione di forze del movimento popolare dalla "rivolta della fame" del 2008, momento in cui si sono susseguiti nel paese diverse proteste sociali, in particolare nel 2011, che hanno coinvolti gli strati popolari, dai contadini poveri, agli operai e dipendenti pubblici, ai piccoli commercianti e artigiani, e persino alcuni settori militari, ma in particolare da parte dei settori più giovani della classe operaia, contadina e degli strati medi, per il diritto a una vita dignitosa, contro la fame, per la giustizia, l'istruzione, le libertà politiche e il progresso sociale in un cambiamento reale a favore del popolo. Lo sviluppo di queste lotte ha coinvolto gli strati più profondi della società portando alla rottura e la formazione di un potente movimento insurrezionale che è andato oltre la guida dei "partiti dell'opposizione borghese" che hanno però risolto la crisi dell'esplosione del partito di governo, il CDP (partito del Congresso per la Democrazia e il Progresso), con una riconfigurazione della scena politica nazionale funzionale a una riforma del sistema politico in collaborazione con l'alto comando militare attraverso un "governo di transizione" che ha salvaguardato il sistema soffocando il processo rivoluzionario.

Un risveglio radicale nella società e il fermento nelle masse popolare, in particolare nei giovani, è testimoniato dagli eventi dello scorso 25 maggio, nel giorno della riesumazione del corpo di Sankara, in cui nella capitale e nelle principali città del paese sono ricomparse le immagine di Sankara e manifestazioni inneggianti alla sua figura e al suo progetto rivoluzionario anti-imperialista facendo rivivere il suo mito nelle lotte per le aspirazioni delle masse popolari giovanili, cuore della rivolta dello scorso ottobre ma che non hanno ottenuto alcuna soluzione nel periodo della transizione, controllata dalle forze reazionarie, ai problemi del lavoro, dell'istruzione, delle abitazioni, della terra. Ma la progressiva forza e organizzazione assunta dal movimento popolare e la sua pressione per riforme democratiche nell'ordine borghese-oligarchico, a pochi giorni dalle elezioni, sono state viste come un pericoloso sviluppo per gli interessi imperialistici non solo in Burkina Faso ma in tutta l'area dell'Africa Occidentale, che necessitava di esser fermato attraverso il golpe guidato dagli imperialisti francesi.

La memoria di Sankara e di ciò che il suo governo ha rappresentato per il paese sono ancora ben vivi nelle giovani ed esasperate masse proletarie del Burkina Faso, che in questi giorni stanno generosamente lottando per le strade e nelle piazze, con numerosi arresti, feriti e almeno una decina di morti nei violenti scontri nelle principali città, innalzando barricate con la parola d'ordine di "resistere in ogni quartiere" contro i golpisti e per la fine della dominazione imperialista, della fame e la miseria endemica degli ultimi 28 anni per un miglioramento delle condizioni di vita e il soddisfacimento delle proprie necessità in base alle capacità e ricchezze che possiede il paese.

Mentre il Presidente del governo di transizione Kafando e il Primo Ministro Zida sono ancora imprigionati, il Presidente del Parlamento della transizione, Cherif Sy, ha chiamato la popolazione alla resistenza dichiarandosi nuovo presidente a interim: "Questo colpo di stato non è una sorpresa, ho sempre detto dall'inizio della transizione, che se tale unità [si riferisce alla Guardia Presidenziale] non fosse stata sciolta, queste forze sarebbero state schierate altrove e avremmo avuto dei problemi. L'ho ripetuto in questi giorni che a partire dal momento in cui entriamo nella linea dritta fino alle elezioni, a meno di un mese da esse, era ovvio che a un certo punto, si lanciassero per fare in modo di evitare queste elezioni" annunciando che è l'unica "autorità oggi effettivamente investita dalla Carta e dalla Costituzione nei poteri di capo dello Stato…"(4).

Gli eventi dimostrano come sia necessaria una forte organizzazione indipendente della classe operaia, dei settori popolari e della sua gioventù per realizzare le ispirazioni democratiche e antimperialiste delle masse liberandosi dall'oppressione della borghesia locale e internazionale. Riprendiamo il passo finale del precedente articolo sugli eventi in Burkina Faso: "affinché questa fiamma non venga spenta nuovamente è necessario approfondire la rivolta per una nuova rivoluzione burkinabé che non sia diretta solo ad un "formale cambio di governo" (con uomini vicini ai monopoli stranieri e alle élite locali) ma alla rivendicazione del potere e della ricchezza che produce". Solo in questo tipo di percorso si potrà giungere alla liberazione dalle catene dell'imperialismo.

Note:

1) Il nostro articolo di allora: http://www.senzatregua.it/?p=1465
2) Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo – UNDP – Rapporto sullo sviluppo umano 2009
3) Il Régiment de Sécurité Présidentielle (RSP) è un corpo militare formato da 1300 uomini al servizio di Campaoré (ma agli ordini in realtà del governo francese) responsabile dell'uccisione di 232 civili durante la sollevazione dello scorso Ottobre 2014.
4) http://www.rfi.fr/emission/20150916-burkina-faso-prise-otage-president-rsp-kafando-isaac
 
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La donna e l'oppressione coloniale

Post n°473 pubblicato il 25 Giugno 2015 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - senegal - 22-06-15 - n. 549

La donna e l'oppressione neocoloniale

Guy Marius Sagna* | afriquesenlutte.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/06/2015

Si racconta che Napoleone rimproverò una sua compatriota sul fatto che si occupasse di politica; ella gli rispose: "Sire, in un paese nel quale le donne sono condannate a morte è perfettamente naturale che vogliano sapere il perché". Cari compatrioti, in questo Senegal dove le donne sono la maggioranza di quel 46,6% della popolazione che vive sotto la soglia della povertà, dove sono la maggioranza di quel 50% di quindicenni non alfabetizzati, dove 392 di esse sono costrette a morire ogni 100.000 parti, dove ci sono appena due ostetriche ogni 1.000 partorienti – molto lontano dagli standard OMS, che ne raccomanda sei ogni 1.000 nati vivi - dove ogni giorno 93 donne – più di 33.000 all'anno - piangono la morte di un loro figlio con meno di cinque anni, dove quando nascono non possono sperare di vivere più di 59 anni – 10 anni in meno della media mondiale - ... è perfettamente naturale che qualcuno si chieda "perché?". Il destino ha riservato alla donna senegalese due bocconi amari: essere nata in un paese semicoloniale ed essere nata donna.

Essere nata in un paese semicoloniale

La verità è che non c'è nulla da esser fieri. La situazione del Senegal è grave. Per fare una dialisi non si hanno a disposizione che tra i 40 e 50 macchinari, mentre in altri paesi con una popolazione simile, la dotazione di questi macchinari è tra i 560 e i 600. Il Senegal vuole aumentare la sua produzione di sementi certificate dal 12 al 25% da qui al 2017. Nella regione di Sedhiou, 116 villaggi su un totale di 924 dispongono dell'elettricità, cioè il 12,6%. Ed il 40% delle aule scolastiche è situato in ambienti precari, cioè 1.666 su un totale di 2.996 aule.

In questo contesto, è possibile vedere una minoranza di senegalesi, servitori della maggioranza, condurre le stesse automobili con le quali si muovono i ministri e i deputati di paesi con un PIL altissimo o che posseggono ville, fortune, salari e fondi neri che fanno impallidire di invidia molti dei paesi sviluppati; uno scandalo. Infine, questo stato di cose, nonostante il frastuono fatto sulla buona gestione, è la condizione affinché questa minoranza accetti di percorrere la via del tradimento anti nazionale.

Il personaggio di Ousmane Sembène, Guelewar, sarebbe ancora più abietto di fronte al regalo fatto venerdì 13 febbraio 2015 di 2,3 miliardi di franchi CFA del Giappone al Senegal per l'acquisto di 8.000 tonnellate di riso nel quadro di un programma di aiuto alimentare. O di fronte, lo stesso giorno, all'incasso, dal Senegal, di una donazione di 1,2 miliardi di franchi CFA per l'elettrificazione solare di 120 centri di salute nel quadro del progetto di miglioramento delle prestazioni del settore sanitario in ambiente contadino. Che cosa dire allora – più di recente - delle 10.000 tonnellate di medicine del re [del Marocco] Mohamed V?

Il colono francese, quando fu concessa l'indipendenza, piazzò alla testa del Senegal quelle e quei nostri concittadini che non avevano mai pronunciato prima la parola "indipendenza" e la fuggivano appena la sentivano. Tutto questo con l'obiettivo di facilitare l'impresa di saccheggio e dominazione del nostro popolo attraverso politiche liberali. Questi concittadini per i quali il tradimento risultava redditizio si sono affannati per mantenere il potere per tutto il tempo che fosse possibile, fino ai nostri giorni. Il Senegal degno, con le sue battaglie vinte, ma senza aver mai vinto la guerra, non ha smesso mai di lottare per il [partito] "Mom Sa Rew" nonostante le angherie, le marginalizzazioni, gli assassinii... Ecco perché queste politiche neoliberali, ieri piani di adeguamento strutturali (PAS) e oggi accordi di partenariato economico (APE), come anche altri meccanismi come il franco CFA, sono stati imposti al nostro popolo con la complicità del Senegal indegno.

Sono queste politiche che privano il nostro popolo delle risorse necessarie per avere sufficienti ostetriche, pediatri, ginecologi, infermieri, infrastrutture sanitarie, personale e strutture educative; industrie e un mercato nazionale per queste; sufficienti macchinari per l'agricoltura e sovvenzionamenti per la popolazioni contadine...

Sono queste politiche che si accaparrano il settore bancario ed altre aree strategiche. Che privano il nostro popolo della sua terra e delle sue risorse alieutiche... anche del suo oro. Il presidente della repubblica del Senegal ha appena riconosciuto che "noi non possediamo più del 3 % dell'oro che si estrae nel nostro paese." La stessa cosa accadrà col petrolio che si è appena scoperto, finché il Senegal indegno sarà al potere. Il capitale a scapito del lavoro! L'attività africana di Bolloré è, secondo Capital.fr, di gran lunga la più proficua del gruppo, rappresenta solo il 25% del giro di affari, ma produce l'80% dei profitti; per i popoli africani implicati, è tutto tranne che il paese della cuccagna. Senza una vera sovranità, la crescita economica non si trasformerà mai nello sviluppo dei popoli".

Il 6 maggio 2015, durante la cerimonia di riabilitazione del programma "Jangando" per la regione di Dakar, l'ispettore accademico di Dakar disse: "stiamo ritornando ad assumere ad un minore costo". Allo stesso modo che i senegalesi nelle piroghe del 2006 o nelle bagnarole nel 2015 sono la dimostrazione di un Senegal raggiunto dalla Nuova Politica Industriale, la Nuova Politica Agricola ed i Piani di Adeguamento Strutturale, antenati degli Accordi di Partenariato Economico. Un chilometro di pista costa tra i 20 e i 25 milioni; un ospedale ben equipaggiato,1,5 miliardi; un magazzino di stoccaggio costa 80 milioni; un insegnate ed un ginecologo costano... Queste politiche ci privano di risorse che ci permetterebbero di fare di fronte alle necessità del nostro popolo. Come avere risorse sufficienti quando i telefoni, l'acqua, la ferrovia... sono privatizzati? Privatizzazioni imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale. Privatizzazioni di cui beneficiano le multinazionali del Nord.

Per illustrare questo, ritorniamo al caso della regione di Sedhiou. Prima del consiglio di ministri decentrato realizzato a Sedhiou, le necessità di investimento si stimavano in 856 miliardi di franchi CFA. Il primo ministro informa che lo Stato e i suoi partner hanno già individuato 137 miliardi (c'è dunque un gap di 719 miliardi). Ma il costo dell'urgenza è valutato 356 miliardi di franchi CFA (secondo Nfaly Badji, direttore del ARD di Sédhiou, in Le Soleil di martedì 24 febbraio 2015). Il consiglio dei ministri decentrato del 25 di febbraio 2015 annuncia un'estensione di 13 miliardi effettuata da Macky Sall ai 187 miliardi portati in bilancio dal consiglio interministeriale la vigilia. Cioè 200 miliardi d'investimento nel quadro di un programma speciale d'investimenti pubblici 2015-2017. In seguito si viene pubblicamente a conoscenza che ci sarà un programma triennale 2018-2021 che prenderà la staffetta dei grandi investimenti.

Questo è altrettanto vitale per il resto delle regioni senegalesi, come quella di Kaffrine. Per modernizzarsi, questa regione deve realizzare un programma di 344.431.664.403 F CFA. . Solo 19.745.250.252, cioè il 6% dell'importo, è già pronto da parte dello Stato e dei suoi partner, ha detto il governo.

Per la campagna agricola di questo anno, il governo ha informato che sovvenzionerebbe 13.000 seminatrici, 1.040 zappe occidentali e 650 zappe cinesi. Ci sono 14.958 villaggi in Senegal. Nel settore dell'agricoltura, la politica di oppressione contro il popolo senegalese in generale e in particolare del suo settore contadino, fornisce 0,869 seminatrici per villaggio, 0,069 zappe occidentali per villaggio e 0,043 zappe cinesi per villaggio. Queste quantità infinitesimali raddoppiate dalla mancanza di controllo dell'acqua, conseguenza sempre dell'oppressione neocoloniale del Senegal, in un anno di scarse piogge come è stato 2014, hanno come conseguenza 1,5 milioni di senegalesi in situazione di insicurezza alimentare a giugno 2015; una situazione che rivela la tragedia del mondo rurale senegalese, della donna contadina del Senegal in particolare.

Queste politiche colpiscono indistintamente tutti i senegalesi, non importa quale sia il loro sesso, né la loro età. È per questo motivo che spetta a tutti i senegalesi, senza distinzione di sesso ed età, il compito di liberare il nostro paese dalla dominazione di un sistema che c'impone una situazione tragica segnata in particolare da un gap da colmare di 4000 ostetriche e dove solo il 59% dei parti è assistito da personale medico qualificato.

"Se sentite le vostre catene, siete già per metà libere"

Attualmente, l'interesse dei popoli del Senegal e dell'Africa esige, con una forza particolare, l'entrata delle donne nelle fila organizzate del paese e del continente degno, per la liberazione del Senegal e dell'Africa. Questo compito sarà realizzato con più facilità nella misura in cui le donne vi prenderanno parte; la parte più importante, la più cosciente e la più volontaria.

Dato che le organizzazioni antimperialiste pretendono di prendere il potere, è pericoloso non agire sulle masse inerti delle donne non preparate nel movimento come quello delle casalinghe, delle impiegate, delle contadine... carenti nel concetto di collaborazione e non affrancate dai pregiudizi e non legate da un vincolo qualunque al gran movimento di liberazione che è l'antimperialismo. Le donne senegalesi che non partecipano a quel movimento costituiscono inevitabilmente un appoggio all'imperialismo ed ai suoi collaboratori ed un obiettivo per la loro propaganda semi coloniale. La mancanza di coscienza delle donne può svolgere un ruolo negativo nella lotta del nostro popolo contro l'imperialismo ed i suoi effetti.

Tutto quello che abbiamo appena detto è il compito immediato delle donne eredi di quelle di Nder: estendere l'influenza dell'antimperialismo ai vasti strati della popolazione femminile del Senegal e sottrarre le donne dall'influenza delle concezioni imperialiste e dall'azione dei partiti collaborazionisti per fare di esse autentiche combattenti per la liberazione totale della donna.

Quello che l'antimperialismo darà alla donna, in alcun caso potrà darlo il movimento femminile collaborazionista. Finché il Senegal è oggetto della dominazione, la liberazione della donna è impossibile.

La parità non elimina la sovranità imperialista

Qualsiasi relazione ed appoggio della donna antimperialista al femminismo pro imperialista non fa che indebolire le forze per l'indipendenza e ritardare la rivoluzione antimperialista, vale dire, la liberazione della donna. Libereremo Senegal ed Africa con l'unione nella lotta di tutte le donne e gli uomini antimperialisti e non con l'unione delle forze femminili appartenenti ai due campi opposti (anti e pro imperialisti). Di fronte alla questione nazionale, la questione di genere passa in secondo piano.

La lotta della donna contro la sua doppia oppressione, l'imperialismo e la dipendenza familiare e domestica, sono una lotta degli antimperialisti di entrambi i sessi contro l'imperialismo e per l'emancipazione delle donne.

Le radici dell'oppressione delle donne senegalesi sta in primo luogo nell'imperialismo. Per finire con questa oppressione è necessario un nuovo ordine sociale: un Senegal liberato dall'imperialismo.

Ciò ci porta ad interrogarci sulla parità uomo-donna nelle funzioni elettive senegalesi. Che cosa è cambiato nella gestione dei comuni senegalesi dal 29 giugno 2014, data delle prime elezioni municipali nelle quali si esigeva la parità di genere (sorta di quote rosa ndt) nella costituzione delle liste dei candidati? È differente il Consiglio Socioeconomico ed Ambientale da quando alla sua testa si trova una donna? Esiste un'assemblea nazionale senegalese di rottura sul fatto della parità nella costituzione delle liste di candidati durante le elezioni legislative del 2012? Le 33.000 donne che ogni anno perdono il loro figlio di meno di cinque anni, che perdono i loro figli o i loro mariti nelle fosse comuni del Mediterraneo ed altri mari o nel deserto come conseguenza delle politiche neoliberali o quelle comprese nel 46,6% che vivono sotto la soglia della povertà...

La parità è la loro priorità? Nello stesso modo in cui la borghesia fuorvia il popolo tentando di ricongiungerlo sotto la sua bandiera, allo stesso modo la borghesia e la piccola borghesia femminile si sono prese gioco delle grandi masse di donne riconducendole al loro ordine del giorno piccolo borghese.

La maggioranza delle donne senegalesi, ognuna nella sua capanna, pensa di alleviare il suo lavoro domestico, di avere accesso all'acqua, anela di potere lavorare fuori della sua casa... Mentre le altre, nei loro palazzi, sognano la partecipazione al parassitismo delle nostre risorse.

Nel quadro attuale, la lotta per la parità non può essere assimilata alla consegna leninista "Ogni cuoca deve imparare a dirigere lo Stato", lanciata in un contesto come quello russo nel quale era necessario attrarre le donne russe, anche quelle più arretrate, alla vita pubblica per i soviet. Qui quello che si insegna a fare è come imbrogliare i propri mandanti, cioè il popolo.

Cambiamo la situazione economica e sociale della donna senegalese e questa sarà emancipata. Non permettiamo che le donne piccolo borghesi accedano ai posti elettivi e che esse si integrino nella burocrazia borghese mediante l'accesso ai mezzi di arricchimento personale come i loro compagni maschili. Non è necessario reinventare G.Deville le cui parole suonano tanto adeguate: "(...) non intraprendiamo oggigiorno una campagna per l'ammissione delle donne ai diritti politici e di conseguenza la fantasia della candidatura femminile non ci conti tra i suoi sostenitori, benché, nei gruppi del partito operaio le donne hanno la più completa uguaglianza con gli uomini? Sapendo che il diritto al suffragio non è la strada verso l'emancipazione umana, non possiamo perdere un tempo prezioso nella persecuzione di un obiettivo che, per impossibile da raggiungere, è incapace di migliorare la situazione della donna. Per essa e per coloro i cui sforzi andrebbero persi, sarebbe un'altra delusione che si sommerebbe alla lunga lista di delusioni provocate dal suffragio universale; benché, in questo caso, la responsabilità cadrebbe interamente su chi si fosse abbandonato ad un sentimentalismo per niente riflessivo. L'emancipazione femminile è subordinata alla trasformazione economica; solo lavorando per questa trasformazione si farà qualcosa per la liberazione dalla donna. Agire è altrimenti, coscientemente o no, farsi complici di deviazioni dannose agli interessi che si pretende di difendere."

Allo stesso Deville chiederemo in prestito l'immagine. Così, infatti, come il malato ha del suo dolore una nozione più esatta del medico che lo cura, la donna ha più che tutto un'idea precisa delle privazioni che patisce, appena si tratta del rimedio da applicare, le donne, in quanto donne, non sono più atte ad indicare la soluzione della questione sociale, come i malati a diagnosticare il trattamento adatto; quando esiste, la loro competenza in questa materia proviene da studi speciali e non dal loro sesso di donne. Che siano un uomo o una donna (o un giovane) che sia eletto sotto la bandiera della collaborazione imperialistica, il risultato sarà lo stesso. La candidatura femminista in Senegal, in quanto è solamente la candidatura di una donna, è un'illusione. Occorre, oggi nel Senegal dominato, una candidatura anti imperialista. E per ciò bisogna scegliere dei candidati in virtù dei servizi che possono fare in termini di rottura e non del loro sesso o della loro età.
Cabral lo diceva già: il "nostro partito e la lotta dovrebbero essere dirette ai migliori figli e figlie del nostro popolo." E' lo stesso per i comuni e l'assemblea nazionale... quando gli antimperialisti avranno conquistato il potere.

Essere nate donne

Nella rubrica "Faits divers" ci parlano di una storia che si svolgea Yang-Yang. Quella di Taubel una donna uccisa, il 1° giugno 2015 da suo marito. Le avrebbe tagliato la carotide e reciso la spalla ed il ginocchio destri. Il 5 giugno, ci parlano di Fanta, questa volta a Goudiry che era stata picchiata da suo marito e dopo pugnalata. Questi atti di violenza, come altri praticati contro donne senegalesi sono lungi dall'essere fatti diversi. È il destino di molte donne senegalesi solo per il fatto di essere donne.

Nel 2014 si sono registrati 3.600 casi di violazione in Senegal. Potremmo parafrasare Angela Davis: La violenza deve ricordare alla donna l'immutabilità essenziale della sua femminilità. Nella società fallocratica senegalese, la parola "donna" continua a significare passività, accettazione, debolezza, rassegnazione, inferiorità. Essere umano di una dignità inferiore a quella dell'uomo e del cui corpo l'uomo può impadronirsi.

L'oppressione delle nostre compatriote per il fatto della loro condizione femminile è tale che il loro corpo non gli appartiene. E' ciò che conferma l'ultima indagine demografica e di salute continua (Eds-c). Il 25% delle donne tra i 15 e i 49 anni dichiara di avere subito l'escissione del clitoride .

L'uso dei contraccettivi è aumentato di otto punti tra il 2010 e il 2014, cioè, è passato dal 12 al 20,3 %. La maggioranza delle donne non può utilizzare metodi contraccettivi senza il permesso del marito. Allora, l'interruzione volontaria della gravidanza? I custodi del tempio fallocratico vegliano.

Un'altra immagine dell'oppressione che vivono le donne senegalesi è che l'80 % di esse non ha accesso diretto ai beni immobili. Solo il 20 % delle donne possiede un titolo regolare di proprietà della propria terra. A questo è necessario aggiungere che la superficie media degli appezzamenti sfruttati da un uomo senegalese gira intorno ai 6,9 ettari, mentre quelle delle donne è intorno ai 3,4 ettari.

È impossibile non ricordare questo altro pernicioso esempio della doppia oppressione delle nostre sorelle e madri rappresentata dalla pratica che consiste nello sbiancarsi la pelle generalmente chiamato "xeesal.". Il 50 al 60% delle senegalesi si dedicano al "xeesal". Un vero problema di salute pubblica. Alcune dei nostri compatrioti non dubitano e dicono con orgoglio: "Io la cosa unica che faccio è il leral." Due oppressioni contemporaneamente: razziale e fallocratica. Oltre alla lotta condivisa col resto dei senegalesi, le senegalesi hanno rivendicazioni specifiche.

Nella società che vogliono edificare i progressisti senegalesi, la donna è uguale all'uomo. È per questo che una lotta risoluta che si libera dalle teorie e dalle pratiche che mettono la donna su un piano di inferiorità continuerà ad essere condotta.

La trasformazione sociale del Senegal passa attraverso la liberazione dai legami con l'imperialismo; se non sarà così, non sarà possibile. Parallelamente, apostrofiamo i più audaci come lo fece così bene Sojourner Truth: "Piccolo signore in nero, laggiù, si dice che le donne non possono avere gli stessi diritti degli uomini perché Cristo non era una donna. Da dove viene il cristo? Da dove viene il vostro Cristo? Da Dio o da una donna? L'uomo non ha niente a che vedere con lui!". E se non sono disposti a capire, aggiungiamo: "Se la prima donna creata da Dio ero tanto forte da rovesciare il mondo ella sola, le donne dovrebbero essere capaci di tornare a metterlo diritto!". Non lavorare per l'emancipazione della donna equivale a mutilarsi. È la stessa cosa decidere di usare una sola gamba invece di tutte e due. Ma il Senegal andrebbe molto più rapidamente con due gambe che con una. La rivoluzione antimperialista anche. Di qui tutta la precisione di Sankara quando dice: "La rivoluzione e la liberazione della donna vanno insieme. E non è un atto di carità o uno slancio d'umanesimo parlare dell'emancipazione delle donne. È una necessità fondamentale per il trionfo della rivoluzione. Le donne sono l'altra metà del cielo". Questa metà, gli antimperialisti dei due sessi la conquisteranno insieme.

In un Senegal liberato, libereremo la donna poiché ogni azione contro l'oppressione neocoloniale è un progresso che allevia la situazione della donna. Incorporiamo la maggioranza delle donne senegalesi alla lotta contro l'oppressione neocoloniale. Esse costituiranno l'esercito decisivo che cambierà i fondamenti del Senegal. E si dirà di loro più di quello che si disse delle donne russe, cinesi, cubane, algerine, sudafricane... O anche ciò che un osservatore borghese della comune scriveva nel 1871 in un diario inglese: "Se la nazione francese fosse composta solo di donne, che terribile nazione sarebbe!".

Dakar, 7 giugno di 2015

Riferimenti bibliografici:

Femmes, race et classe, Angela Davis, 1981

La femme et le communisme, Jean Freville, Janvier 1950

La propagande parmi les femmes, IIIe congrès Internationale Communiste, Juin 1921

* Guy Marius Sagna è coordinatore della coalizione nazionale "Non aux APE Sénégal"
 
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GIU' LE MANI DALL'ERITREA

Post n°472 pubblicato il 25 Giugno 2015 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - eritrea - 23-06-15 - n. 549

Mohamed Hassan: "Giù le mani dall'Eritrea!"

Grégoire Lalieu, Investig'Action | michelcollon.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

22/06/2015

La tragedia umanitaria dei migranti nel Mediterraneo ha posto un paese del Corno d'Africa relativamente sconosciuto al centro dell'attenzione dei media. L'Eritrea sarebbe in effetti il più grande fornitore di rifugiati. Le loro testimonianze costruiscono l'immagine di uno Stato terrificante dove regna la dittatura, la tortura e la fame. Pochissimi giornalisti hanno visitato l'Eritrea. Andando controcorrente rispetto alcune informazioni che riceviamo su questo paese misterioso, Mohamed Hassan denuncia una campagna di demonizzazione. Conoscitore del Corno d'Africa, egli mette in dubbio ciò che viene detto, ma soprattutto quello che non viene detto sull'Eritrea. E si unisce ai rappresentanti delle comunità eritree in Europa, riunitisi il 22 giugno a Ginevra per inviare un messaggio chiaro all'Occidente: "Giù le mani dall'Eritrea!" (#handsoffEritrea)

Dopo l'ultimo naufragio dei migranti nel Mediterraneo, l'Eritrea è al centro dell'attenzione. Lei che conosce questo paese e che lo visita spesso, cosa ne pensa di quanto è stato scritto sull'Eritrea dalla stampa occidentale?

Occorre innanzitutto interrogarsi sul modo in cui i media ci informano sull'Eritrea. Le testimonianze dei rifugiati sono numerose. Ma avete sentito quelli della diaspora che sostengono il governo eritreo? Avete potuto leggere le risposte del presidente, di un ministro o anche di un ambasciatore agli attacchi indirizzati all'Eritrea? Immaginate di dovervi informare su Cuba. Quale sarebbe la vostra opinione se non si prendessero in considerazione che le testimonianze degli esuli cubani in Florida? Quando la stampa procede in modo tanto unilaterale, senza dare la parola a tutte le parti, fa più propaganda che informazione.

Le testimonianze riportate secondo lei non sono affidabili?

Ovviamente, coloro che fuggono dall'Eritrea hanno il loro punto di vista. Ma ho notato alcune lacune sistematiche nel ritratto che viene fatto di questo paese. Ad esempio, si sottolinea il fatto che nessuna elezione si sia svolta dopo l'indipendenza del paese nel 1993. Si fa anche riferimento alle misure adottate dal governo nel 2001, vale a dire la chiusura di media privati e l'arresto delle opposizione politiche. Ma non si dice nulla del contesto. Potremmo quindi semplicemente credere che il presidente Isaias Afwerki sia stato improvvisamente colto da un eccesso di autoritarismo, tratteggiando così il ritratto di un tiranno capriccioso. Lo hanno anche accusato di essere un alcolizzato e di avere denaro nascosto in Svizzera. Senza fornire alcuna prova, naturalmente. La realtà è diversa. Isaias Afwerki è un uomo lucido, che non ha alcun problema col bere. Conoscendo un minimo l'Eritrea, è assurdo dover controbattere simili voci! Il presidente è modesto. Se vi recaste ad Asmara, lo potreste incontrare mentre cammina per strada, in sandali e senza guardie del corpo. Ciò è molto lontano dall'immagine del tiranno megalomane che sfrutta il suo popolo per la sua ricchezza personale.

Ha parlato di misure nel 2001. Che cosa è successo che i media non dicono?

Nel 2001, l'Eritrea stava emergendo da una guerra terribile con il suo vicino etiope. L'Eritrea è stata una ex colonia dell'Etiopia e ha condotto la più lunga lotta del continente africano per ottenere l'indipendenza. Ma l'Etiopia non lo ha mai digerito e nel 1998 tra i due paesi scoppiò un conflitto. Durante la guerra, alcuni media privati eritrei, corrotti dall'Etiopia, chiamarono a rovesciare il governo. Anche alcuni politici e ufficiali dell'esercito collaborarono con il nemico, sperando di approfittare del conflitto per prendere il potere ad Asmara. Questa guerra fece cadere molte maschere in Eritrea, tanto più che erano in pochi a pensare che il governo vendesse cara la pelle. Ma alla fine riuscì a respingere l'invasione etiopica. E successivamente prese delle misure di sicurezza che vietano i media privati, imprigionando coloro che avevano collaborato con il nemico. Va anche ricordato che prima della guerra erano state pianificate le elezioni, istituita una commissione elettorale e predisposto il voto appena prima dell'invasione.

Sul piano democratico, la situazione non è certo delle più gratificanti. Ma nell'affrontare questo problema, si deve compiere un'analisi completa che tenga conto del contesto. Quello che i media occidentali non lo fanno.

Non c'è stata alcuna guerra con l'Etiopia da quindici anni a questa parte. Ma ancora non ci sono state le elezioni. E l'informazione resta nelle mani dello Stato. Perché?

In primo luogo, tra i due paesi le tensioni rimangono palpabili. Il governo etiope si lancia regolarmente in diatribe bellicose contro il suo vicino. E' anche alla luce di questa situazione di tensione che va analizzata la questione della coscrizione in Eritrea. Contrariamente a quanto è stato scritto dalla stampa, i giovani non sono arruolati a forza e a vita per il servizio militare. Prima della guerra, la durata del servizio era fissato a diciotto mesi. Poi si è alzata durante il conflitto, ma dopo è stata riportata alla sua durata originaria. L'Eritrea ha circa 6 milioni di abitanti, quasi la metà del Belgio. Dall'altro lato, l'Etiopia ha una popolazione di 90 milioni. Si capisce molto rapidamente che l'Eritrea non ha i mezzi umani e materiali per costruire un grande esercito in grado di tenere testa al suo vicino. Il governo non ha d'altronde la volontà di spenderci tanto denaro. Da qui, il servizio di leva che permette di utilizzare un esercito di riserva in caso di conflitto.

Quindi non dimenticate che l'Eritrea si trova in una delle regioni più caotiche dell'Africa. Su questo tema, inoltre, il governo ha una visione molto interessante di cui purtroppo non sentiamo parlare. Esso ritiene che l'ingerenza delle potenze neo-coloniali sia la principale responsabile dei conflitti che attraversano il Corno d'Africa. E per attenuare la tensione, l'Eritrea chiama a riunire tutti gli attori regionali intorno a un tavolo per dialogare pacificamente, senza intromissione delle potenze straniere. Infine, il governo è molto franco su questo argomento: elezioni e media privati non sono una priorità, senza offesa per la visione etnocentrica degli occidentali che glorificano il voto a scapito di altre questioni più critiche. Il governo eritreo sta combattendo in primo luogo sul terreno dello sviluppo. Di questo i media non parlano, finendo così col perdere, io credo, il punto essenziale. In effetti, dopo l'indipendenza l'Eritrea ha rifiutato gli aiuti della Banca mondiale e del Fmi, così come i programmi ad essi collegati. "Gli eritrei sanno meglio di queste istituzioni internazionali cosa è meglio per l'Eritrea", aveva obiettato il presidente Afwerki.

Così facendo, l'Eritrea è diventato il primo paese in Africa a raggiungere gli Obiettivi del millennio. Questo programma è stato messo a punto dalle Nazioni Unite nel 2000 per eliminare la fame, espandere l'assistenza sanitaria e l'istruzione, migliorare le condizioni di vita di donne e bambini, ecc. Esso si basa principalmente sull'aiuto dell'Occidente, ma è un po' caduto nel dimenticatoio con la crisi economica. Ora, ciò che di eccezionale ci mostra l'Eritrea è che un paese africano non ha bisogno di elemosine dall'Occidente per svilupparsi. Al contrario, dobbiamo fermare i saccheggi organizzati dalla Banca mondiale, dal Fmi e da tutte quelle istituzioni che vogliono imporre il neoliberismo ai paesi del Sud.

Ai primi di giugno, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha pubblicato un rapporto di condanna dell'Eritrea. Secondo il rapporto, "il governo eritreo è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, sistematiche e diffuse". Il rapporto aggiunge che "queste violazioni potrebbero costituire dei crimini contro l'umanità".

Anche in questo caso, il rapporto si basa esclusivamente sulle testimonianze di rifugiati, avendo il governo eritreo negato l'accesso alla commissione di indagine delle Nazioni Unite. Ma un rapporto costruito a partire dalle sole testimonianze dei richiedenti asilo non può essere attendibile. Infatti, per ottenere lo status di rifugiato politico, alcuni non esitano a mascherare la loro nazionalità e a raccontare ciò che il paese ospitante vuole sentire. Tra i profughi eritrei, si trovano pertanto degli etiopi che si fanno passare per quello che non sono al fine di ottenere asilo. Nel 2013, due parlamentari francesi hanno presentato al ministro degli Interni un rapporto che indica la pericolosa contiguità tra coloro che aspirano allo status di rifugiati politici e i migranti economici. A questi ultimi, le reti mafiose che gestiscono le filiere di transito verso l'Europa propongono la falsa testimonianza e dei dossier sulla persecuzione già pronti. Quindi, se alcuni ispettori dell'Onu fanno il loro lavoro con coraggio, anche dispiacendo le grandi potenze, altri non esitano a sacrificare il loro dovere di obiettività sull'altare degli interessi politici. Nel 2011, ad esempio, lo stesso Alto commissariato per i diritti umani agevolò l'intervento della Nato in Libia denunciando la repressione di manifestanti pacifici con carri armati, elicotteri e aerei. Oggi sappiamo che queste accuse erano del tutto campate in aria. Ma avevano lo scopo di fare pressione sul governo libico. La stessa cosa sta accadendo con l'Eritrea.

Chi vuole mettere pressione sull'Eritrea e perché?

Economicamente e politicamente, l'Eritrea è un sasso nella scarpa del neocolonialismo occidentale. L'Africa è un eldorado per le multinazionali. E' il continente più ricco... con le persone più povere! Ed ecco che un paese africano dichiara e dimostra attraverso la pratica che l'Africa può svilupparsi solo liberandosi dalla tutela occidentale. Il presidente Afwerki è stato molto chiaro sulla questione: "Cinquanta anni e miliardi di dollari di aiuti internazionali post-coloniali hanno fatto ben poco per sollevare l'Africa dalla sua povertà cronica. Le società africane sono diventate delle società zoppicanti". Egli ha aggiunto che l'Eritrea deve camminare con le proprie gambe. Poi, come tutti i leader africani che hanno tenuto questo genere di discorsi contro il colonialismo, Isaias Afwerki è diventato un uomo da abbattere agli occhi dell'Occidente.

Il governo eritreo non facilita questa campagna di demonizzazione rifiutando di ospitare una commissione di inchiesta delle Nazioni Unite?

E' necessario comprendere ciò che può apparire come un atteggiamento di chiusura. In primo luogo, l'Eritrea si trascina un pesante contenzioso con le Nazioni Unite. Il paese fu colonizzato dagli italiani. Dopo la Seconda guerra mondiale e la sconfitta di Mussolini, l'Eritrea avrebbe dovuto ottenere la sua indipendenza, ma fu ricongiunto all'Etiopia contro la sua volontà. L'ex segretario di Stato Usa, John Foster Dulles, all'epoca dichiarò: "Dal punto di vista della giustizia, le opinioni del popolo eritreo devono essere prese in considerazione. Tuttavia, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e le considerazioni per la sicurezza e la pace nel mondo rendono necessario che questo paese sia ricongiunto al nostro alleato, l'Etiopia". Questa decisione ha avuto conseguenze catastrofiche per gli eritrei. Sono stati letteralmente colonizzati dall'Etiopia e hanno dovuto condurre una terribile lotta lunga 30 anni per ottenere la propria indipendenza.

Inoltre, durante questa lotta, gli eritrei hanno affrontato un governo etiopico sostenuto alternativamente da Stati Uniti e Unione Sovietica. Durante la Guerra fredda, di solito si faceva parte di un blocco o dell'altro. Ma non accadeva mai di avere sulla schiena entrambe le due superpotenze del tempo! Cosa che lascia dei segni, ovviamente.

Ecco perché oggi l'Eritrea ritiene di non avere alcuna responsabilità nei confronti della cosiddetta "comunità internazionale". Essa difende fieramente la propria sovranità per sviluppare al meglio la sua rivoluzione. Non tutto è perfetto, naturalmente. Gli eritrei sono i primi a riconoscerlo. Nonostante i risultati eccezionali per un tale paese in termini di sanità, istruzione e di sicurezza alimentare, tutti vi risponderanno con grande umiltà che c'è ancora molto da fare. Ma perché l'Eritrea continui a progredire, la cosa migliore da fare è di non voler decidere al posto degli eritrei. Per questo mi unisco alla diaspora nel dire alle Nazioni Unite: "Giù le mani dall'Eritrea!"

Per un approfondimento, vedi il dossier: Tutto quello che non dovreste sapere sull'Eritrea
 
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La Comune di Parigi

Post n°471 pubblicato il 03 Aprile 2015 da Guerrino35

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 31-03-15 - n. 537

144 anni dalla gloriosa comune di Parigi

Giorgio Apostolou ilpartitocomunista.it

31/03/2015

Il 28 Marzo 1871 dalle fiamme della guerra Franco-Prussiana veniva proclamato solennemente il primo governo operaio rivoluzionario, la Comune di Parigi. Per la prima volta nella storia dell'umanità, all'interno della società capitalista, il potere statale passò per un breve periodo nelle mani del proletariato, nelle mani della classe operaia,  classe sociale d'avanguardia,  oggettivamente e risolutamente rivoluzionaria fino alla fine.

La Comune fondata dagli operai di Parigi durò 72 giorni, ma la sua importanza per l'ulteriore lotta di liberazione della classe operaia fu enorme. Dimostrò in modo inconfutabile che essa era entrata con determinazione nell'epicentro dello sviluppo sociale del nuovo periodo storico-politico.

Il maggior insegnamento della Comune di Parigi come scrive Karl Marx è che dando l'assalto al cielo, "la Comune ha fornito la prova che la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta a metterla in moto per i suoi fini."

L'idea di Marx è che la classe operaia deve spezzare, demolire la "macchina statale già pronta" e non  limitarsi ad impossessarsene. "Spezzare la macchina burocratica e militare": in questo concetto è espresso in modo chiaro e lampante l'insegnamento centrale del marxismo rivoluzionario sui compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo stato. Questo è il punto basilare che viene "dimenticato"  e cancellato dagli opportunisti, revisionisti e riformisti di ogni specie e di ogni latitudine e longitudine.

La Comune al posto della dittatura del capitale e della classe borghese crea la macchina statale instaurata dalla classe operaia; la dittatura del proletariato. Un genuino e autentico potere democratico di partecipazione e decisione, una diga d'acciaio contro le forze controrivoluzionarie, un potere classista autenticamente popolare e democratico finché esisterà ancora lo stato. Questo esprime anche la prima dichiarazione della Comune di Parigi con la quale il posto dell'esercito governativo fu preso dal popolo armato, composto principalmente da operai soldati di leva e dai "federali" cioè da operai armati dei quartieri di Parigi .  La Comune  fece lo stesso con la polizia e la magistratura.

La Comune fu un nuovo tipo di stato, non più un organo di repressione al servizio della minoranza borghese contro la grande maggioranza del popolo ma al contrario, uno stato al servizio del popolo contro i suoi sfruttatori.

La Comune fu un corpo operante, legislativo ed esecutivo contemporaneamente. Tutti i suoi eletti erano direttamente revocabili e i loro stipendi non potevano superare lo stipendio  di un operaio ( max. 6.000 franchi all'anno) . Gli eletti della Comune lavoravano obbligatoriamente, sorvegliavano l' applicazione delle leggi e rispondevano direttamente nei confronti dei loro elettori.

Come parte finale di queste brevi annotazioni consideriamo utile ed istruttivo esporre alcune citazioni  presi da due scritti del grande dirigente rivoluzionario Vladimir Ilic Lenin, riguardanti la gloriosa Comune di Parigi del 1871.

Scrive Lenin:

" ….Del resto, malgrado le condizioni cosi sfavorevoli, malgrado la brevità della sua esistenza, la Comune riuscì ad adottare qualche misura che caratterizza sufficientemente il suo vero significato e i suoi scopi. Essa sostituì l'esercito permanente, strumento cieco delle classi dominanti, con l'armamento generale del popolo, proclamò la separazione della Chiesa dallo Stato, soppresse il bilancio dei culti (cioè lo stipendio statale ai preti), diede all'istruzione pubblica un carattere puramente laico, arrecando un grave colpo ai gendarmi in sottana nera.

Nel campo puramente sociale, essa poté far poco; ma questo poco dimostra con sufficiente chiarezza il suo carattere di governo del popolo, di governo degli operai. Il lavoro notturno nelle panetterie fu proibito; il sistema delle multe, questo furto legalizzato a danno degli operai, fu abolito; infine, la Comune promulgò il famoso decreto in virtù del quale tutte le officine, fabbriche e opifici abbandonati o lasciati inattivi dai loro proprietari venivano rimessi a cooperative operaie per la ripresa della produzione. Per accentuare il suo carattere realmente democratico e proletario, la Comune decretò che lo stipendio di tutti i suoi funzionari e dei membri del governo non potesse sorpassare il salario normale degli operai e in nessun caso superare i 6000 franchi all'anno (meno di 200 rubli al mese)."

"….Il ricordo dei combattenti della Comune è venerato non solo dagli operai francesi, ma dal proletariato di tutti i paesi. Perché la Comune non combatté per una causa puramente locale o strettamente nazionale, ma per l'emancipazione di tutta l'umanità lavoratrice, di tutti i diseredati e di tutti gli offesi. Combattente avanzata della rivoluzione sociale, la Comune si è guadagnata le simpatie dovunque il proletariato soffre e combatte. Il quadro della sua vita e della sua morte, la visione del governo operaio che prese e conservò per oltre due mesi la capitale del mondo, lo spettacolo della lotta eroica del proletariato e delle sue sofferenze dopo la sconfitta, tutto questo ha rinvigorito il morale di milioni di operai, ha risvegliato le loro speranze, ha conquistato le loro simpatie al socialismo. Il rombo dei cannoni di Parigi ha svegliato dal sonno profondo gli strati sociali più arretrati del proletariato e ha dato ovunque nuovo impulso allo sviluppo della propaganda rivoluzionaria socialista. Ecco perché l'opera della Comune non è morta; essa rivive in ciascuno di noi.

La causa della Comune è la causa della rivoluzione socialista, la causa dell'integrale emancipazione politica ed economica dei lavoratori, è la causa del proletariato mondiale. In questo senso essa è immortale."
Rabociaia Gazieta, n. 4-5, 15 (28) aprile 1911
 
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AFRICA: le mani sui terreni agricoli africani

Post n°470 pubblicato il 12 Febbraio 2015 da Guerrino35

Africa: Gli agro-imperialisti fanno man bassa di terreni agricoli

Lyès Menacer | michelcollon.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

27/01/2015

Il continente africano, che possiede da solo un quarto delle terre fertili mondiali, concentra il 41% delle transazioni fondiarie, su un numero totale di 1.515 transazioni nel mondo, secondo una recente relazione dell'ONG ActionAid International datata fine maggio 2014. "Dal 2000, più di 1.600 transazioni su larga scala sono state documentate, su una superficie totale di 60 milioni di ettari", ha dichiarato l'ONG che ha precisato che "è probabile anche che un buono numero di acquisizioni di media o grande portata rimangano ad oggi non documentate, né quantificate". Questa relazione di una ventina di pagine intitolata "La Rapina delle terre: come il mondo apre la via agli accaparramenti delle terre da parte delle imprese" ci rivela infatti l'ampiezza di questo fenomeno che minaccia non soltanto la sopravvivenza di milioni di persone nel mondo, ma anche gli ecosistemi, le foreste e le specie animali in pericolo di estinzione.

L'ONG si è enormemente interessata all'Africa, poiché questo continente è diventato la nuova attrazione delle multinazionali, dei fondi pensione e dei grandi gruppi agroalimentari che hanno acquisito, con le complicità dei governi locali, milioni di ettari di terre coltivabili.

Anche gli Stati si sono messi a comperare le terre fertili, per soddisfare i loro fabbisogni alimentari e produrre biocarburanti. L'Arabia Saudita, il Qatar, l'India sono spesso citati nelle relazioni di queste ONG, che tirano in ballo anche le grandi potenze come gli Stati Uniti, alcuni Stati membri dell'Unione europea (Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi) e, da qualche anno, la Cina, che vuole avere la sua parte in Africa per soddisfare la sua domanda interna. Nell'Africa subsahariana, regione insicura e a forte instabilità politica, l'accaparramento delle poche terre fertili è stato realizzato dalle autorità che hanno privato migliaia di contadini della loro principale risorsa di sopravvivenza.

Il sequestro delle terre è stato facilitato dall'assenza degli atti di possesso che questi contadini non hanno mai potuto far valere, in una regione in cui i beni sono gestiti dai capi tribù.

Stati in guerra, paese da vendere?

Nell'Africa subsahariana, il 10% di queste terre coltivabili è registrato nei registri ufficiali. Sotto la copertura del rilancio dell'agricoltura per sradicare la carestia che sconvolge regolarmente la vita di milioni di persone in questa zona arida, i governi locali hanno ceduto quasi ad un prezzo simbolico centinaia di migliaia di ettari ai produttori di biocarburante. Questo fatto è stato denunciato da numerose ONG, tra le quali Grain che è costantemente oggetto di attacchi da parte di alcuni paesi acquirenti di queste terre.

È facile constatare che i paesi indicati come quelli che si fanno passare per investitori sono gli stessi che attualmente sono scossi dai conflitti politici e dalle guerre etniche e religiose. Si può citare il Sudan del Sud, la Repubblica Democratica del Congo (RDC o Congo-Kinshasa), il Sudan, la Sierra Leone, il Mozambico, la Liberia, la Tanzania, il Kenia, lo Zimbabwe, la Nigeria e la Repubblica Congolese (Congo-Brazzaville). L'Isola Rossa (il Madagascar) che ha vissuto una crisi politica nel 2009, dopo una protesta contro la vendita di 300.000 ettari di terre all'impresa sudcoreana Daewoo, resta un obiettivo dei predatori di terre fertili.

In altre parole, oltre alla guerra per il controllo dei giacimenti petroliferi e minerari in questi paesi, un'altra guerra si svolge lontano dagli sguardi e dalle curiosità dei media, che spesso vedono nella rivolta dei poveri in Africa soltanto delle violenze tribali per lo sfruttamento delle fonti d'acqua e delle zone di pascolo. Tuttavia, decine di persone, tra agricoltori ed allevatori, subiscono la repressione dei propri governi, che li cacciano a colpi colpi di polvere da sparo e di bulldozer dai territori che occupano da secoli. Territori che non sono soltanto spazi di vita economica, ma di culture ancestrali. Le sommosse della fame che hanno scosso Maputo nel 2010 non hanno impedito dal governo di cedere 6,6 milioni di ettari agli Stati Uniti ed a società straniere. Il Mozambico dispone di 36 milioni di ettari di terre coltivabili, cioè il 46% del suo territorio, di cui soltanto il 10% è sfruttato.

Anziché approntare una politica agrario-alimentare che garantisca la sicurezza alimentare, il governo Maputo preferisce cedere le sue terre all'industria distruttiva dei biocarburanti. Nel frattempo, secondo le cifre ufficiali delle ONG dell'ONU, il 40% dei mozambicani soffre di malnutrizione.

La Repubblica Democratica del Congo (RDC) non ha fatto eccezione, poiché il 50% delle sue terre fertili è passato sotto il controllo di paesi stranieri e delle imprese internazionali che sono più interessate dallo sfruttamento il sottosuolo che all'agricoltura, senza pagare tasse o diritti.

E quando devono pagare, le somme sono irrisorie e vanno per lo più a vantaggio dei membri del clan al potere. È il caso anche della vicina Repubblica congolese, che ha ceduto il 46% delle sue terre fertili agli stessi predatori che sono alla ricerca di ogni porzione di terreno coltivabile, che sia per l'industria agroalimentare o per nutrire la popolazione del paese acquirente, come nel caso dell'Arabia Saudita e del Qatar, due paesi desertici che importano tutti i loro prodotti alimentari. Questi due paesi hanno acquisito, al prezzo della repressione condotta dal governo di Addis-Abeba contro i contadini e gli allevatori, decine di migliaia di ettari per soddisfare la loro domanda interna di frutta e verdura. Le denunce dei massacri orchestrati dall'esercito etiopico per dissodare il terreno "agli investitori" sono rimaste lettera morta.

Chi sono gli acquirenti?

"Gli Stati Uniti sono all'origine della maggior parte degli investimenti portati a termine (7,09 milioni di ettari), seguiti dalla Malesia (3,35), dagli Emirati Arabi Uniti (2,82), dal Regno Unito (2,96), dall'India (1,99), Singapore (1,88), Paesi Bassi (1,68), Arabia Saudita (1,57), Brasile (1,37) e Cina (1,34)". Tutti questi paesi sono presenti nel documento reso pubblico da ActionAid International, che cita Land Matrix, un organismo indipendente che dispone di un ricco archivio delle transazioni fondiarie registrate in tutto il mondo.

Oltre agli Stati acquirenti, gli organismi finanziari, i fondi investimento e i gruppi industriali che sono stati molto toccati dalla crisi economica del 2008, hanno orientato il loro interesse verso questo mercato.

"Uno studio condotto dalla Deutsche Bank Research mette in luce l'esistenza di tre grandi gruppi di attori economici implicati nel settore dei terreni agricoli: i governi, che cercano di acquistare terreni all'estero per assicurare le loro riserve in prodotti alimentari ed energia, le imprese agricole che cercano sia di aumentare la loro produzione, sia di integrare la catena d'approvvigionamento, e gli investitori finanziari" aggiunge sempre lo stesso testo. Gli attori influenti delle industrie minerarie, delle imprese del turismo e delle concessioni forestali non sono restati lontani da questa battaglia che causerà, a lungo termine, una grande esplosione sociale nel continente. "Lo studio mostra che questi attori non agiscono in modo isolato. Viene aggiunto nella relazione di ActionAid International che, facendo pressione sulla terra, gli interessi di uno dei gruppi di attori motiveranno le azioni degli altri gruppi".

I contadini dei paesi africani provano ad organizzarsi, aiutati dalle ONG che tentano alla meno peggio di dare l'allarme all'opinione pubblica internazionale e alle alte istanze dell'ONU. Una battaglia che, per il momento, è in molti casi compromessa, con le varie dittature locali che reprimono ed imprigionano tutti coloro che osano mettersi contro ciò che è chiamato progetto d'investimento, sviluppo sostenibile, rilancio economico, ecc.

 
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VIOLENZA DI GENERE; VIOLENZA DI CLASSE

Post n°469 pubblicato il 22 Novembre 2014 da Guerrino35

Violenza di genere, violenza di classe

Partito Comunista | ilpartitocomunista.it

16/11/2014

Le donne del Partito Comunista partecipano alla manifestazione di Bologna in Piazza XX settembre, concentramento ore 18.00, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne

La giornata contro la violenza sulle donne per noi comuniste non è semplicemente una data da "commemorare" eventualmente  con tanto di gran cassa mediatica, come da alcuni anni a questa parte viene fatto da media e partiti di governo/ opposizione (la differenza non ha più alcun senso!)

La data e la vicenda delle sorelle Mirabal che la giornata internazionale vuole ricordare, ci parla di una lotta di classe, fatte dalle donne più povere e sfruttate, contro una dittatura imposta, organizzata e consolidata dallo stato principe del capitalismo.

E ancora oggi la situazione è la medesima: violenza, omicidio e  il disprezzo più atroce contro le donne arrivano dopo una serie infinita di violenze che la società retta dai principi capitalistici di prevaricazione e sfruttamento dei più deboli, viene portata avanti con sistematicità in ogni rapporto sociale, economico, culturale ed interpersonale.

Il degrado della condizione delle donne, dopo le conquiste degli anni 70 che in Italia sono avanzate grazie alla mobilitazione di massa ed alla presa di coscienza di strati sempre più vasti delle classi lavoratrici, è oggi più intenso che mai, in concomitanza con la condizione di difficoltà sociale e politica che gli stessi strati popolari stanno vivendo.

La forza del capitalismo e l'assenza di una rappresentanza politica e sindacale di classe effettiva, non solo impedisce ed ostacola la difesa degli interessi delle classi popolari e in particolare delle donne ma li ricaccia in condizioni sempre più critiche.

In una simile condizione le donne pagano un doppio prezzo di sfruttamento e violenza. Una violenza che inizia con l'esclusione e l'espulsione dal mondo del lavoro che, in una situazione di crisi strutturale, caccia per prime le donne, privandole di autonomia ed indipendenza economica, costringendole allo sfruttamento rappresentato sia dalla disoccupazione che dall'obbligo di sopperire gratuitamente ai lavori familiari e di cura. I servizi pubblici come sanità, scuola , trasporti, servizi sociali, inoltre, sono messi ormai da anni, pesantemente a rischio dalle politiche liberiste assunte come diktat dalle amministrazioni pubbliche centrali e locali di ogni colore, sempre e solo a danno degli strati popolari e prime fra tutte, le donne.

La privazione dell'indipendenza economica e delle conquiste legate all'autodeterminazione delle donne ha portato alla progressiva regressione della condizione sostanziale e culturale che nella considerazione generale, propagandata dai media e imposta da stereotipi tornati imperanti, impongono alle donne un ruolo subordinato, segnato dal pregiudizio e dalla emarginazione sessuale.

In un simile contesto la violenza contro le donne diventa una ovvia, normale conseguenza, ribadita in famiglia, nei rapporti interpersonali e nelle relazioni sociali che ridisegnano il ruolo delle donne come soggetto da sfruttare nel lavoro, nelle società e nelle relazioni.

Le ipocrite campagne mediatiche contro la violenza alle donne che puntualmente tornano in occasione del 25 novembre, le altisonanti azioni di propaganda dei partiti al governo / opposizione e delle loro vecchie e nuove cinghie di trasmissione,  tendono unicamente a svolgere la funzione di assicurare e mantenere saldo quel che resta del legame di consenso elettorale a queste compagini. Compagini il cui unico obiettivo è quello di amministrare un potere le cui regole sono dettate dai grandi potentati economici e sociali. Nessun miglioramento può derivare alle reali condizioni di vita delle donne da simili politiche che non solo sono eterodirette ma sono sostanzialmente contrarie agli interessi delle donne delle classi popolari. Partiti, sindacati, associazioni che non mettono in discussione l'attuale sistema sociale fondato sulle regole dello sfruttamento e quindi della violenza, non possono dunque aver alcuna credibilità nella lotta e nel movimento delle donne contro la violenza.

Le differenze di classe imposte dalla società capitalista generano violenza di classe e ancora più violenza sulle donne delle classi operaie, lavoratrici e popolari. Per le donne ricche non ci sono differenze né discriminazioni per ragioni economiche o di genere, di sesso o sociali: solo chi vive la realtà sociale dello sfruttamento conosce sulla propria pelle la violenza che la società capitalista usa abitualmente come propria arma.

Per le donne del Partito Comunista, dunque, occorre unire tutte le forze espresse nelle lotte delle donne per battere la violenza di genere che non è che un aspetto della violenza di classe messa in atto dalla classe dominante;  costruire una rappresentanza degli interessi di classe e quindi delle donne di questa stessa classe sociale con l'obiettivo di costruire una società nuova, retta dal principio socialista dell'uguaglianza sociale.

Con questi obiettivi le donne del Partito Comunista partecipano alla manifestazione di Bologna contro la violenza alle donne del 25 novembre e invitano tutte le lavoratrici, coloro che hanno perso il lavoro e che vivono le condizioni di sfruttamento ed emarginazione sociale imposte dalla crisi a partecipare al corteo che partirà alle ore 18.00 da P.zza XX Settembre.


 
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Le vicende del Burchina viste da Miriam Sankara

Post n°468 pubblicato il 13 Novembre 2014 da Guerrino35

www.resistenze.org - popoli resistenti - burkina faso - 09-11-14 - n. 519

Mariam Sankara: Blaise Compaore deve rispondere delle sue azioni e dei suoi crimini di sangue


Mariam Sankara |
thomassankara.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare


04/11/2014

In questo giorno storico, provo una immensa gioia. La mia gioia è quella della famiglia Sankara, è la vostra, quella dei numerosi amici che seguono con interesse le vicende del Burkina.

Si tratta di vera e propria esultanza per il successo dei coraggiosi burkinabé: le donne, i giovani, la società civile, i partiti di opposizione e gran parte dell'esercito repubblicano, rispettoso del popolo. La felicità di vedere spodestato colui che credeva che il Burkina gli appartenesse in eterno.

Cari compatrioti, compagni e cari amici. Blaise Compaoré non avrebbe mai immaginato una mobilitazione come quella che si è realizzata questo 30 ottobre 2014. Avete vinto una vittoria senza precedenti attraverso l'insurrezione popolare. Facendo riferimento alla rivoluzione del 4 agosto, i giovani hanno riabilitato il Presidente del Burkina Faso, Thomas Sankara. Sono fiera di voi, del vostro spirito combattivo, mi congratulo con voi. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno contribuito in un modo o nell'altro, a evitare il caos politico in cui Compaoré e i suoi amici volevano far precipitare il Burkina.

Compaoré e i suoi seguaci hanno inflitto l'ennesimo lutto sul popolo. Condivido il dolore delle famiglie delle vittime e porgo le mie più sincere condoglianze. Auguro una pronta guarigione ai molti feriti.

Inoltre, esorto le famiglie a interpellare la giustizia nazionale e internazionale perché Blaise Compaoré sia chiamato a rispondere dei suoi crimini.

L'immagine di mediatore della regione di cui si è ammantato, non deve esonerarci dal procedere contro di lui. E dire che nel 2012 ha anche accarezzato la scabrosa idea di esser premiato del Nobel per la pace, dimenticando tutti i crimini orditi dal 1987. Questo signore, che ha mediato i conflitti, ne era in realtà l'artefice. Paesi come Angola, Liberia, Sierra Leone, Guinea, Mali e Costa d'Avorio, dove ha trovato rifugio, hanno subito le sue manovre di destabilizzazione.

No, non deve trascorre giornate tranquille a Yamoussoukro. Deve rispondere delle sue azioni e dei suoi crimini sanguinari. Dobbiamo impegnarci fino alla vittoria finale che vedrà l'organizzazione di libere elezioni, eque e trasparenti.

Nel frattempo mi unisco all'idea che la gestione della transizione debba essere assicurata dai civili, nel rispetto del carattere democratico della nostra lotta. Questa vittoria non era attesa solo dal popolo del Burkina Faso, viste le molte testimonianze e i molti messaggi che ricevo da tutto il mondo.

Ora dobbiamo essere degni di questa vittoria, dobbiamo dimostrare che Blaise Compaoré non era indispensabile. Nulla sia più come prima, che le forze del cambiamento restino unite e vigili, preparino una alternativa politica, economica, sociale e culturale per il benessere del Burkina Faso.

Viva la democrazia e viva il Burkina Faso,
Patria o morte, vinceremo!

Mariam Sankara

Montpellier, 1° novembre
 
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