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Un'autrice dimenticaat ma non troppo: Marie Corelli

Post n°91 pubblicato il 05 Febbraio 2019 da Tanysha
Foto di Tanysha

 

 

 

Marie Corelli, alias del più neutrale Mary Mills, nata a Londra nel 1855, in piena era vittoriana, ragazza dagli oscuri natali, pare fosse figlia illegittima di un famoso giornalista e di una sua inserviente, era una gran sognatrice, respingeva la sua triste realtà di povera figlia di enne enne, come si usava allora, e nella sua mente costruiva un mondo immaginario ricchissimo. Della sua vita il regista Francois Ozon ha tratto nel 2007 un film, Angel, un  biopic romanzato ma abbastanza fedele al personaggio, film, trasmesso su un canale tv a tarda notte, che mi ha fatto conoscere questa dibattuta autrice.

         Sembra che le sue opere al suo tempo venissero etichettate come mediocri o addirittura  di pessimo gusto (un po’ come accade quando disprezziamo certi noti autori moderni su cui sorvolo in questa sede,  che tuttavia, a dispetto della qualità di ciò che scrivono, godono di un vasto pubblico – scusate la nota personale, ma rabbrividisco al pensiero che tali nomi, di cui preferisco tacere, tra un secolo verranno ripescati e apprezzati come  sottovalutati e bistrattati nella nostra epoca, ma tant’è).

         La sua vita di ragazza senza padre (che comunque pensò bene a riconoscerla diversi anni dopo, quando era ormai famosa), si prestava a diventare oggetto di film, anche perché Marie (o Mary), nella sua triste vita di ospite di convitto, come molte ragazze orfane o senza padre, con l’immaginazione viveva in ben altra realtà. Questo suo continuo allenarsi a inventare esistenze fittizie formò il substrato della sua vena di  scrittrice, e per di più di un genere difficilmente incasellabile. Alcuni la definiscono addirittura come  archetipo della Rowlings, la creatrice del fortunato maghetto Harry Potter, anche se il suo non è un genere propriamente fantasy, ma una commistione tra mistery e fantastico, con una spruzzatina qua e là di horror. I suoi libri trattano di amori soprannaturali, di contatti con realtà aliene, di dissertazioni filosofiche sull’aldilà e l’aldiquà, insomma, un poupourrì di argomenti paranormali che affascinano molti ma respingono altrettanti, non a caso all’epoca venne spietatamente additata come kitsch e di dubbio gusto, ma anche e soprattutto perché surclassava con le sue vendite persino il grande Conrad. Tuttavia, il fatto che venisse apprezzata dalla Regina Vittoria contribuì a riabilitare la sua fama,  che ebbe il suo massimo exploit negli anni venti del secolo scorso. Dopodichè Marie Corelli precipitò a poco a poco nel dimenticatoio. I suoi argomenti metafisici nell’epoca tra le due grandi guerre non affascinavano più, non catturavano, il pubblico aveva bisogno di   ben altro per dissipare l’inerzia dell’indifferenza che precede ogni lettura e così Marie Corelli diventò un nome oscuro, o al massimo una sorta di patetica immaginetta demodè che rappresentava la decadenza di un’epoca, nulla più.

         Solo quasi cento anni dopo, in epoca recentissima, Marie Corelli viene riscoperta, diventa un baluardo della  misconosciuta e sottovalutata scrittura muliebre dell’ottocento, emblema della fantasia femminile sbrigliata e impareggiabile. Non più considerata kitsch, ma un reperto interessante, la testimonianza di un’epoca  dispersa, viene ricollocata tra gli autori gotico-romantici (a paragone dei nostri tempi mi viene in mente un nome contemporaneo: Lisa Tuttle, autrice inglese dell’ineffabile Codice delle fate o de La maledizione del ramo d’oro, due deliziosi urban fantasy scritti con mano agile e  molte credibili fantasticherie, ma chi segue con costanza tale genere avrà sicuramente in punta di penna molti

altri autori o autrici).

         L’unico suo romanzo che ho letto, L’idillio dei due mondi, il suo primo e di maggiore successo, scritto in uno stile abbastanza disinvolto e  quasi moderno, parla di una pianista curata per un esaurimento da una sorta di mago Caldeo (ma i caldei non erano un popolo scomparso da millenni? Ovviamente licenza fantastica), che in una specie di stato di trance la immette in un universo parallelo dove regna l’assoluto e non esiste più la dimensione dualista (allusione casuale all’induismo?). Si tratta di un romanzo ricco di riferimenti dotti e di teorie filosofiche, di dissertazioni sull’elettricità che domina in tutto l’universo e sull’amore visto come mezzo per raggiungere la più alta dimensione spirituale (una strizzatina d’occhio al nostro grande Poeta?), il tutto soffuso da una lieve carica erotica mai del tutto esplicitata, con allusioni appena velate e non dichiarate a un platonico amore saffico che la protagonista vive con uno dei personaggi femminili.  Insomma, c’è carne al fuoco per inserire a pieno diritto Marie Corelli nel filone della letteratura new age. Purtroppo i suoi romanzi, editi da piccole e specializzate case editrici, sono ancora pressochè introvabili in libreria e reperibili solo online. Ma questo aspetto non fa altro che renderla ancora più affascinante, sofisticata e di nicchia.

 

        

 

 

 
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Sirene - Laura Pugno

Post n°90 pubblicato il 26 Luglio 2017 da Tanysha
Foto di Tanysha

Questa volta si tratta di un'autrice famosa, interrompo per un attimo la sequenza di autori emergenti per inserirne una che mi risuona in modo particolare, e per l'argomento e per lo stile:

             La naturale e istintiva ferocia femminile  

 

         Di questa autrice avevo già letto La ragazza selvaggia, questo romanzo, Sirene, il primo in ordine cronologico ripubblicato di recente da Marsilio editore, ha in comune con l’altro l’aspetto istintivo del femminile.

         Laura Pugno ha preso: Blade Runner, Splash una sirena a Manhattan, la donna scimmia di Ferreri, Il bacio della pantera (sia nella vecchia versione che nella nuova), una dose omeopatica de la Sirenetta di Andersen, qualcosina che può  ricordare Sotto la pelle di Michael Faber, li ha shakerati, ha aggiunto un pizzico quanto basta di  spietato cinismo e ha dato origine a questo avveniristico romanzo, che definire urban fantasy sarebbe oltremodo riduttivo. Alla fine Sirene, pur riferendosi a un’umanità di chissà quale epoca futura, ma nemmeno poi tanto, parla ai giorni nostri, attacca la soperchieria umana, specie in versione maschile, che crede di governare tutto ma alla fine  ci rimette la pelle – letteralmente, in questo caso, poiché un pernicioso cancro nero, prodotto da un’attività solare impazzita, sta decimando giorno per giorno centinaia di vittime e le uniche specie viventi destinate a sopravvivere sono le sirene, una razza più adatta al nuovo mondo,  fatto di acqua e luce spietata e assassina, quindi le sirene, specie più animale che umana, con la pelle protetta da uno speciale umore, i capelli composti da una sorta di gelatina muscolare e soprattutto in grado di vivere sott’acqua e proteggersi dal sole, sono gli individui più adatti a questa nuova realtà. (Da notare le descrizioni pseudoscientifiche spiegate al dettaglio che sembrano vere, stupefacente la specie sirena che ha la sua massima espressione nel genere femminile, mentre il maschio, usato solo per la monta, è ridotto a un volgare dugongo, sorta di cetaceo,  quasi un simbolo dell’inutilità del maschio).

 Ci troviamo in una zona imprecisata dell’oceano Pacifico, forse verso le coste del Giappone, dove Samuel, protagonista, che ha appena perso la propria ragazza a causa del cancro nero, di mestiere fa il guardiano delle vasche dove vengono allevate queste nuove specie, destinate a essere macellate e mangiate come nuova carne di mare, o al massimo come sfizio sessuale esposte in sofisticati bordelli acquatici, dal muso più animalesco che umano, capaci di emettere suoni simili a quelli dei gabbiani o delle foche. Samuel viene preso dalla smaniosa curiosità di unirsi a una di queste sirene. Ne conosce l’altissimo rischio, poiché  dopo l’estro dell’accoppiamento ogni sirena viene presa, per un fatto ormonale, da raptus omicida e  uccide e divora il proprio maschio. Samuel  si organizza in modo da evitare questo rischio e si sottrae prontamente dopo il rapporto.

         Da questa unione nasce un essere “mezzo umano”, apparentemente molto più animalesco che umano, un’altra piccola sirena, che Samuel, poco portato ad assumersi la responsabilità paterna, chiamerà Mia.

         Da notare come ci troviamo di nuovo nella dimensione primeva, nel cuore dell’istinto selvatico femminile;  Laura Pugno sembra tornare al fulcro della questione, anzi, lo annuncia, visto che questo è stato il suo primo romanzo, finendo per ribadirlo ne La ragazza selvaggia: l’essenza femminile, se ricondotta nel suo antico habitat, ritrova la sua vera natura feroce, al giorno d’oggi seppellita sotto strati di abitudini e condizionamenti. Così come era feroce e aggressiva Dasha, la ragazza selvaggia vissuta per dodici anni allo stato brado e ormai irrecuperabile, così appare Mia nel suo ambiente naturale.

         La scrittura è cristallina, a volte quasi didascalica, soprattutto nella prima parte prevale il raccontare sul mostrare, i discorsi pochi e quasi tutti indiretti, molti personaggi, come anche nell’altro romanzo, sono appena accennati e restano sullo sfondo.

         La potenza di questo romanzo risiede nel cinismo e nella spietatezza con cui sono descritti gli stati d’animo più comuni e le questioni implicite che solleva: che cosa s'intende  per ambiente naturale, perché ci si affeziona a qualcuno, è più importante sopravvivere in un habitat ostile pur di esserne padroni, oppure bisogna arrendersi e lasciarlo a chi è più adatto di noi? Non tutti questi quesiti  ottengono una risposta, ma anzi, sollecitano altri quesiti, in una concatenazione infinita di domande che sorgono spontanee, specie  sul finire del romanzo. Non ultima, la domanda clou: se non c’è due senza tre, se Laura ha intenzione di completare la trilogia della ferinità femminile, cosa s’inventerà nel prossimo romanzo?

 
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Due caffè - Graziella Boldrini - Editrice Ibiskos

Post n°89 pubblicato il 31 Gennaio 2017 da Tanysha
Foto di Tanysha

Proseguo con il mio carrello carico di storie ed eccovi un piccolo e delicato racconto da me recensito:

 

La vita di Alex si trova a un bivio, non sa se ha fatto le scelte giuste,  specie quelle sentimentali. Alex, da eterno indeciso, è consapevole di aver commesso molti errori, e in una mattinata un po’ anonima e incolore si reca al solito bar, gestito dalla solita graziosa ragazza, la quale, proprio in quel giorno gli appare in una luce diversa. A dir la verità, tutto in quel giorno gode di una luce particolare, da quando nel bar fa il suo ingresso un anziano e sconosciuto signore, tutto sembra di colpo girare all’impazzata e la vita, quella vera, sembra colorarsi  tutto insieme di significati. Non è più, per Alex, la solita vita rarefatta di paese dove non succede mai niente. In quel bar, in neanche mezz’ora, ne capitano di tutti i colori, si avvicendano strani e affascinanti personaggi, ognuno con il suo carico di storie, tutto concentrato lì, come sulla scena di un teatro. Mentre lo strano e distinto anziano signore racconta ad Alex la sua vita. Ma il racconto vira ben presto verso soluzioni inaspettate, come sa, appunto, essere la vita, spesso portatrice di sorprese.

            Un racconto garbato, soffuso di un’aura color pastello, come il delizioso disegno dell’autrice, artista a tutto tondo, che appare in copertina.

           

 
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Grazie di te - Francesco Pomponio - Editrice Amarganta

Post n°88 pubblicato il 17 Gennaio 2017 da Tanysha

Procedo con la mia carrellata di autori da me personalmente vagliati e  recensiti.

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Un romanzo d’amore scritto da un uomo- Una perla rara, dirà qualcuno, quasi un omaggio un po’ anomalo da parte della categoria maschile. E, ovviamente  non si tratta dell’amore edulcorato dei rosa classici, anche qui il rosa c’è, ogni tanto si intravede, ma sfumato del grigio delle autostrade, della neve mista al fango, o dell’anima dei protagonisti, velata dalla tristezza di un’esistenza sempre in movimento, o comunque rincorsi della necessità o dalla disperazione. In questo romanzo i personaggi vivono una vita instabile, e, paradossalmente, quando si fermano, il romanzo finisce. Una storia on the road, dove il viaggio simboleggia più che mai la vita, nelle sue pieghe impreviste.

            Il protagonista, dal buffo nome di Zeb, diminutivo di Zebedeo, aspetto su cui lui ama calcare,  autoironizzandosi spesso come “coglione”, e cioè un po’ sprovveduto, è in realtà un’anima candida, seppellita sotto strati di estrema consapevolezza e di spavalderia, atteggiamento  dettato dalla dura esperienza a cui è stato temprato sin dalla più tenera età, come si può  constatare dai suoi ricorrenti flash back, (forse un pochino incalzanti, tanto da far perdere a volte di vista la vicenda principale)  dove mostra una realtà di miseria, tristezza e violenza, la dura vita a cui, per l’appunto, è stato temprato.

Zeb, dicevamo, è un autotrasportatore di mezza età, una sorta di “vita venduta”, senza radici, vaga da un albergo all’altro,  di cui sa ogni  trucco e ogni segreto. In uno di questi spostamenti conosce Anna, una graziosa cameriera, “vita venduta” anche lei, angosciata da una realtà familiare che le esploderà tra le mani, in una tragedia dalle tinte fin troppo realistiche. Zeb in questa circostanza avvicinerà il suo dolore esistenziale a quello terribile di Anna, assai difficile da superare.

In questo romanzo, a parte la  triste vicenda centrale, che è solo accidentale ma non funziona da perno intorno a cui ruota il racconto, stringi stringi  accade ben poco. I protagonisti avranno a che fare  solo di sfuggita con la giustizia. Ci si aspetta che intervenga qualcosa di sconvolgente, ma tutto rimane nelle pieghe composte della passione privata dei due protagonisti, dei sentimenti a volte ondivaghi ma inesorabili, come il viaggiare da cui è caratterizzata la storia.

La voce che caratterizza l’intero registro narrativo è quella del  protagonista e anche se la narrazione è in terza persona, non si fatica a riconoscere  chi è che racconta, i toni spesso  scanzonati e sdrammatizzanti sono proprio  quelli di Zeb.

 Qualche episodio è narrato con eccessiva crudezza (in una delle tante digressioni, la vicenda dell’amichetta di Zeb bambino travolta dal camion è troppo ricca di  particolari cruenti descritti con eccessiva veridicità, a mio avviso certe descrizioni potevano tranquillamente sfumare nel generico), l’atteggiamento di Zeb è a volte spavaldo fino all’inverosimile,  si fa fatica a credere che abbia quasi malmenato il giudice farlocco garantista con un delinquente e i numerosi flash back rischiano a volte di diluire un po’ troppo la narrazione. Ma a parte questi dettagli, Grazie di te è una storia godibilissima, la scrittura assai fluida e molto figurativa coinvolge a 360 e ti prende per mano fino all’ultima pagina.

                                                   

 
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Luna Park, di Livia Rocchi - Camelozampa

Post n°87 pubblicato il 13 Dicembre 2016 da Tanysha
Foto di Tanysha

Ritorno dopo un bel po'. Non so se ritrovo coloro che già mi seguivano, e comunque mi ripresento con una storia scritta per ragazzi pre e post adolescenti. Mi preme precisare che il post-ado può protrarsi anche di parecchio. Insomma, il tema trattato è visto con l'ottica adolescenziale ma tocca un po' tutti. Leggetelo perchè ha una freschezza profonda e al tempo stesso spietata.

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Benny e Stella sono due amici sinceri. Frequentano la stessa classe, terza media, e hanno in comune, a parte  la solitudine - un po’ simile a quella dei numeri primi ma più giocosa - il luna park: il primo, quello di Benny, è un luna park virtuale, immaginario, come sarcasticamente lui ama  definire la sua situazione casalinga, con un padre manesco e ubriacone e una mamma costretta a subire “per il bene della famiglia”. Benny è un povero ragazzino perennemente terrorizzato e sotto scacco, il quale pertanto negli studi non può dare il massimo di sé.

         Stella è invece una ragazza brillante, brava a scuola, ma un po’ troppo buona e per questo sfruttata dai suoi compagni, che però il luna park lo vive davvero, essendo il suò papà uno dei progettisti del nuovo parco giochi in fase di inaugurazione. Sembrano quindi accomunati da ben poco. Sembrano.

         Questa è la situazione che Livia Rocchi delinea passo passo, lasciando uscire dal suo cilindro di sorprese, con un linguaggio scoppiettante e mimeticamente adolescenziale, giocoso ma spietato se occorre, le vicende che si dipaneranno lungo il corso della storia, diretta ai ragazzi, pre-adolescenti ma anche oltre.

         Livia Rocchi non è un’autrice che, per così dire “le manda a dir dietro”, sfodera battute a raffica, divertenti ma a volte caustiche, originali e sempre nuove, qualche volta si tratta di battute che fanno sobbalzare sulla sedia, ma di cui si coglie la necessità nell’economia della storia, dove non cerca a tutti i costi il lieto fine, ma un perché, e anche una sorta di equilibrio e di consapevolezza, specie verso il finale, proprio laddove non avresti mai ipotizzato, e dove l’apparenza tradisce molto più di certe crude realtà. Siamo quindi ben lungi dalla facile ipocrisia di una conclusione edulcorata e frettolosa di coprire le  magagne di cui troppe volte la vita ci costringe a prendere atto.

        

 
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