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alfredofiorani/


 
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Libro: Contronatura.Il caos climatico- Europa Edizioni

Post n°66 pubblicato il 13 Luglio 2014 da alfredofiorani

Perché il clima dovrebbe interessarci?In Italia c’è una scarsissima percezione delle problematiche legate al clima. Raramente si parla ad esempio della politica che sottende alcune scelte fatte dai governi in campo energetico e ambientale. Quando sono approvate proposte o certe leggi raramente ci si chiede: in vista di quale futuro? Vengono approvati sistemi di norme o fatte scelte di politica ambientale senza che vi sia nell’opinione pubblica alcuna reale coscienza degli effetti derivanti dalle loro applicazioni. Non c’e una chiara, solida e diffusa coscienza sui problemi che investiranno le prossime generazioni.Ben strana questa situazione se si parte dalla considerazione che, secondo gli esperti, saranno proprio le fasce sub tropicali a risentire maggiormente dei rapidi e sostanziali cambiamenti climatici. Saranno proprio le aree mediterranee a dover affrontare le maggiori difficoltà.In America, negli ultimi anni, soprattutto in conseguenza di alcuni eventi di natura catastrofica (uragani, incendi, ecc.) si è rapidamente diffusa una profonda consapevolezza circa la natura politica e civile delle scelte fatte in campo ambientale ed energetico. Fino a venti anni fa, non si parlava di clima e gli scienziati non erano ancora in grado di affermare con certezza che le mutazioni climatiche registrate fossero dovute all’azione diretta dell’uomo. Solo nel 1996 e precisamente dal terzo rapporto IPCC, si comincia a discutere e a divulgare quanto e come l’uomo abbia potuto incidere sulle condizioni di equilibrio del clima.Ora, ci chiediamo: Esiste la reale possibilità di decidere del nostro futuro? “ Se non si riescono a disciplinare i furbi, nessuno contribuirà più al bene pubblico” (Ernst Fehr). Occorre affermare con forza l’importanza di creare o riscoprire negli individui la coscienza del “bene collettivo” per uscire dalla dimensione dell’interesse personale, del bene individuale ed egoistico che si traduce poi in un sostanziale disinteresse per i problemi che investono la socialità. Non cambieremo gli scenari ipotizzati se non contribuiremo alla formazione di una coscienza sociale che segni l’equilibrio tra gli interessi personali/nazionali. Lo sviluppo della coscienza sociale diventa l’espressione di una più alta reciprocità e razionalità umana, il fondamento di un’efficace politica ambientale. Oramai le questioni ambientali riguardano l’intero pianeta: nessun Paese può sentirsi immune. Ciascuno in misura diversa dovrà dare il proprio contributo alla formazione del principio di sostenibilità. Tutti e a tutti i livelli dovranno sentirsi consapevoli e responsabili. I mezzi di comunicazione di massa, insieme con le organizzazioni ambientaliste, rivestiranno un ruolo fondamentale nella formazione e sensibilizzazione di una coscienza ecologica, focalizzando punti nevralgici: previsione, osservazione, soglie critiche ed innovazione. La concertazione di tutto ciò contribuirà alla costituzione di politiche di mitigazione e adattamento.

 
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Fermiamoci

Post n°65 pubblicato il 03 Marzo 2011 da alfredofiorani

Fermiamo il Carnevale e le carnevalate istituzionali. Ritagliamoci un momento di riflessiva solidarietà sulle tante (troppe) ingiustizie del mondo; per quanti cercano disperatamente di dare nuova luce alla propria esistenza straziata; sulle piccole morti che hanno segnato d'inguaribile dolore l'anima di molti.

 

 
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Saggio: La forza della memoria. Dal terremoto alla ricostruzione

Post n°64 pubblicato il 30 Gennaio 2011 da alfredofiorani

 

 

La Castelvecchi Editore è lieta d’annunciare l’uscita del libro di

             Giampaolo Giuliani e Alfredo Fiorani

 

La forza della memoria

Dalla tragedia del terremoto ai ritardi della ricostruzione

 

 

 

         La necessità di mettere mano ad un secondo libro è scaturita dagli avvenimenti che si sono succeduti dopo il terremoto del 6 aprile 2009.

            Questo libro, a differenza dell’altro, è stato scritto in forma più giornalistica e più critica, seguendo un percorso investigativo sulle varie realtà, figure ed organi istituzionali protagonisti a vario titolo dell’intera tragica vicenda. Si è puntata l’attenzione sulle negligenze, omissioni, disattenzioni e superficialità di quanti hanno avuto un ruolo durante e dopo il terremoto. Giuliani e Fiorani hanno curiosato anche nell’ombroso interno delle istituzioni nazionali che hanno dettato comportamenti e sovrinteso allo stato dell’emergenza e alla ricostruzione.

Si sono poste in parallelo due storie singolari: quella di Raffaele Bendandi e di Giuliani; due esempi di come, in questa contraddittoria Italia, vengono trattati coloro che non rientrano nelle accademie, pur disponendo di qualità, competenze e passioni.

            Gli Autori non hanno voluto mancare di dare alcuni cenni sulla ricostruzione che a tutt’oggi è ancora oggetto di controversie, polemiche, difficoltà finanziarie. A due anni di distanza, L’Aquila, resta una città lacerata, senz’anima, che stenta a ritrovare se stessa.

               Altresì, non si potevano tacere le vessazioni che Giuliani ha subite sul fronte scientifico. Ma anche sul versante personale è stato oggetto di un “programma d’osservazione” nella migliore tradizione spionistica, neanche facesse parte di “cupole” “ndrine”  o “cricche”.

Fortunatamente il 2009 si è concluso felicemente. Giuliani è stato invitato a partecipare all’AGU FALL MEETING di S. Francisco dove ha presentato la sua ricerca sul Radon, in qualità di precursore sismico, al cospetto di un nutrito numero di scienziati.

S. Francisco ha segnato una svolta per il ricercatore.  Ha potuto confrontarsi con il mondo scientifico ed in particolare con quei ricercatori che hanno individuato nel lavoro della sua equipe punti di convergenza e ragioni di collaborazione.

Si sono poste le basi per la realizzazione di un EARLY WARMING SYSTEM, ovvero un sistema d’allarme che sposta la ricerca sismologica dal probabilismo al determinismo, fondata sullo studio dei precursori sismici principali. Lo scopo è stato di sviluppare un organismo multidisciplinare volto a stabilire il dove il quando e l’intensità di un evento sismico. In sostanza, un sistema d’allarme preventivo che possa scongiurare la perdita di altre vite umane.

 

 
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Saggio

Post n°63 pubblicato il 18 Dicembre 2010 da alfredofiorani
 
Foto di alfredofiorani

Per l'edizioni CASTELVECCHI è uscito il saggio di Alfredo Fiorani e  Giampaolo Giuliani, intitolato

LA FORZA DELLA MEMORIA - Dalla tragedia del terremoto ai ritardi della costruzione

 
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saluti

Post n°62 pubblicato il 09 Settembre 2009 da RMUSCOLO

ciao a tutti

 
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Anna Maria Giancarli: “Laudomia Bonanni. Elzeviri”

Post n°59 pubblicato il 13 Marzo 2009 da alfredofiorani
 
Tag: Autori

di: Alfredo Fiorani
in: AbruzzoCultura, 27 ottobre 2008

In libreria una raccolta dei “pezzi” pubblicati dalla scrittrice aquilana sul “Giornale d’Italia” tra il 1960 e il 1965.

Altro utile strumento per la conoscenza e l’approfondimento della scrittrice abruzzese Laudomia Bonanni ci viene da Anna Maria Giancarli con la raccolta da lei curata di un mannello di elzeviri (1960-1965), pubblicati sul “Il Giornale d’Italia”.

Il volume, apparso mesi fa in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita della scrittrice (è bene ricordarlo), s’inserisce nel solco della lodevolissima opera di riscoperta di una delle scrittrici più autorevoli – e a torto meno celebrate – del novecento letterario, offrendoci la possibilità di seguire la Bonanni sul fronte squisitamente giornalistico.

L’impegnativo lavoro della Giancarli, nel curare la selezione, concorre ad aggiungere un ulteriore tassello, forse il meno conosciuto, alla rivisitazione della complessa attività e personalità della Bonanni, ma anche a consegnarci uno spaccato autentico e di prima mano sugli anni succedutisi al secondo conflitto mondiale: gli anni, per così dire, della rinascita sociale ed economica, così carichi di fermenti di un’Italia che ridisegnava il proprio destino.

«La sua penna implacabile» scrive la curatrice nella premessa, «registra il vero, disegna l’esistente con scioltezza e dinamicità, nonostante la densità della materia. Si resta, allora, colpiti dall’efficacia delle sue descrizioni, dalla sua abilità nel tessere intrecci intriganti, dai suoi piccoli capolavori di ritrattistica, dai suoi giuochi d’ironia che tendono a dissimulare lo sconcerto, senza rinunciare alla condivisione».

Bene ha fatto la Giancarli a dividere la raccolta in quattro sezioni di modo da orientare e favorire un percorso di lettura altrimenti dispersivo, d’assegnare un registro tematico dando risalto a quegli argomenti sensibili da sempre oggetto della poetica della scrittrice, rimarcando un’attualità sconcertante, poiché, ha annotato la Giancarli, «come tutti gli intellettuali e le intellettuali Laudomia, comunque, è dentro la storia, non se ne esilia come Emily Dickinson e neppure la subisce».

Come spesso accade, le piccole storie quotidiane o i microcosmi sociali covano sintomi di anticipazioni o sono epicentro di sommovimenti destinati ad investire larga parte della geografia sociale.

Fatti, personaggi, luoghi vivono e rivivono sotto la scrupolosa penna della Bonanni mai accompagnati da vaghezze di descrizioni approssimative o fasulle, mai frutto di uno spericolato soggettivismo, mai concedendosi al pressappochismo di tanto giornalismo contemporaneo. La visione accurata degli eventi (anche minimi) e dei suoi protagonisti, con l’uso di una scrittura ad essi collegata ed ogni comprensiva persino delle sfumature più irrilevanti, sostiene la testimonianza, ridestandola, di un’epoca “apparentemente” morta, ma che in realtà continua a vivere sotto forme diverse o in più o meno criptiche evidenze o di fenomeni di costume sul loro nascere come, ad esempio, quello televisivo a cui dedicherà una rubrica, “Taccuino televisivo”, con riflessioni sul mezzo mediatico con lungimiranti anticipazioni, che tanti dibattiti più tardi ispirerà.

Nell’introdurre le sezioni, Anna Maria Giancarli, denota un appassionato legame con la scrittrice, manifestando un’ammirazione totale per una sorta di corrispondenza elettiva sui temi della vita e, più in particolare, su quelli strettamente femminili per i quali entrambe hanno speso incondizionatamente e tenacemente se stesse.

(Anna Maria Giancarli, “Laudomia Bonanni-Elzeviri”, Edizioni Tracce, 2007, pagg. 322)

 
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La scrittura raccontata da chi la fa

Post n°58 pubblicato il 13 Marzo 2009 da alfredofiorani
 
Tag: Autori

di: Alfredo Fiorani
in: AbruzzoCultura, 30 ottobre 2008

Nei “Fantasmi gentili” Simone Gambacorta raccoglie venti interviste a scrittori italiani d’oggi.

Se un’intervista entra nella vita dell’intervistato, Simone Gambacorta lo fa con garbo e altrettanto rispetto. Brevi domande che conservano un che di famigliare senza mai abbandonare la distanza necessaria affinché venga tenuta sempre a bada la professionalità, l’attenzione per il lavoro altrui, in questo caso letterario, e viva la capacità di tirar fuori la personalità dell’intervistato che, per paradosso, se ne trascina dietro un’altra a cui s’è ispirato o da cui è rimasto condizionato.

L’insieme di venti interviste a diciotto autorevoli scrittori costituisce il volume di Gambacorta dal suggestivo titolo di “Fantasmi gentili”, ripreso da una definizione di Antonella Cilento, presente nella raccolta, là dove parla dei suoi personaggi che talvolta a distanza di anni tornano a “visitarla”.

L’intervista è un genere letterario “negletto e bistrattato”, come scrive a ragione lo stesso Gambacorta, quando invece gli andrebbe assegnato un valore documentale che potrebbe a futura memoria risultare significativo e rivelatore del “dentro” dell’intervistato, in questo caso di scrittori, per coloro che volessero accostarsi criticamente all’opera e trarne preziose indicazioni, spunti, riflessioni.

Bene ha fatto, dunque, Gambacorta a “fermarle” in volume, così da opporre alla dispersione, alla perdita quasi inevitabile nel tempo, di dichiarazioni/confessioni che testimoniano non tanto un carattere, quanto esperienze in qualche modo epocali, che evidenziano l’atteggiamento di uno scrittore nei confronti del proprio tempo.

A leggersi oggi un’intervista potrà non avere tale connotazione, ma a decenni di distanza chi avrà la fortuna d’imbattervisi rintraccerà evidenti peculiarità di stagioni passate legate ad opinioni, atteggiamenti, vedute intellettuali sempre che si voglia, come noi (e lo stesso Gambacorta, presumiamo), attribuire allo scrittore il ruolo di coscienza critica della società in cui vive e opera, o più sbrigativamente di testimone di un’epoca, poiché sarebbe, per chiunque intenda ritenersi tale, assai difficile prescindere da essa.

Ogni scrittore rappresenta la memoria storica di un tratto di vita dell’umanità, come afferma Raffaele La Capria: e se lo dice lui c’è da credergli. La storia degli uomini non è solo un fitto intrigo di date, di eventi politico-economici, di striscianti mutazioni sociali, ma comprende in sé anche impalpabili atmosfere quotidiane, imperscrutabili stratificazioni sentimentali, impercettibili estasi, svagatezze mentali, rapimenti umorali inafferrabili ad “occhio nudo” che pur tuttavia agitano nel profondo i singoli individui, ma dalla sensibilità degli scrittori colte e stipate per sempre in una pagina.

Cosa ne sarebbe del “fortissimo odore delle zagare” di Raffaele Nigro tra qualche decennio? In definitiva, se la Storia è il corpo dell’umanità, la letteratura ne è lo Spirito. L’intervista, dunque, favorisce la conoscenza di un autore, soprattutto la dove l’opera letteraria e la vita non sono esattamente sullo stesso piano, si discostano, almeno apparentemente. Ed è proprio su quell’apparentemente che un’intervista subentra, riducendone l’ambiguità del campo.

(Simone Gambacorta, “I Fantasmi gentili. Interviste a scrittori”, Media Edizioni, 2008, pagg. 130)

 
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Giuseppe Rosato: “Traccia di beltà”

Post n°57 pubblicato il 13 Marzo 2009 da alfredofiorani
 
Tag: Autori

di: Alfredo Fiorani
in: AbruzzoCultura, 12 dicembre 2008

Bisogna essere cauti nel riportare un giudizio sulle poesie di Giuseppe Rosato, almeno per quest’ultima raccolta, perché i versi ad una prima lettura “sembrano” filar via veloci sotto gli occhi e nella mente, come pattini sul ghiaccio, mentre poi a riporci lo sguardo sopra ci si accorge che le cose stanno in tutt’altro modo: in realtà, quella lastra di ghiaccio è disseminata d’insidie in cui cadervi rappresenterebbe la sciagurata perdita della bellezza del “sopra” da Giuseppe Rosato così mirabilmente costellato di gioielli espressivi.

Categoricamente, è il trarre dall’amore la consapevolezza del vivere: l’amor fati, inevitabile ed inestricabile legame con tutto ciò che si riconduce all’esistenza umana; quasi, con inesorabile dolcissima persistenza nella visione del poeta. L’amore è il permanente scambio intrecciato con la persona amata, l’indimenticabile ed indimenticata Tonia per Rosato, e con quanto vi gravita intorno, lo coinvolge e l’avvolge nello spazio interrotto del tempo che lui chiama “la traccia di beltà”. Ed è “La traccia di beltà” a dare il titolo a questa raccolta che assembla versi apparsi sulla rivista “Oggi e Domani” ed altri desunti da raccolte uscite a partire dal 1957 fino alla più recente “L’inguardabile vero” (Tracce, Pescara 2005).

La raccolta, si badi, non è da ridurre solo ad un cerimonioso canzoniere, ma ad un possibile diario intimo in cui confluiscono tutte le assenze e le presenze di una vita, che gliela hanno resa vivibile; anzi, talvolta sul fronte sentimentale, ineguagliabile ed inimitabile. Ma qui sentimentale conferisce l’atto ogni comprensivo delle “intermittenze vive” che hanno legato e legano al mondo il transito terreno di Giuseppe Rosato.

Molto si fa paradigma alle forme fondamentali dell’amore puro, della memoria implacabile, del “buio dolore”, della piena malinconia. Quando non è trascrizione fedele dei cicli della luce che accompagnano il tempo dandogli forma e colore, del vagare dei profumi quasi avessero con le cose un’intimità permanente da non dare scampo al pensiero sull’amata: “Ti sento nell’odore della pioggia”, “l’odore delle sere/tra la polvere estinta delle strade”; dell’”oscillare delle stagioni” su cui si dondolano teneramente i ricordi o si scandiscono i ritmi della tristezza.

Dunque, il consolante pensiero di lei è il pensiero di sé, pensare all’altra è pensare a se stesso, dandosi la vita. In questo ininterrotto, instancabile esercizio mentale riscorre il sangue, la linfa vitale della ragione risale dalla radice fino a fargli rigermogliare qualche bacca colorata nel mezzo del grigio della vita. Ma, soprattutto, a ridargli l’illusione di riuscire a spostare in avanti ancora un po’ il tempo - che comunque continua ad essere il “loro” tempo - e a dirsi: “facciamo finta che non è finita”.

(Giuseppe Rosato, “Traccia di beltà”, NOUBS Edizioni, 2008, pagg. 83, Euro 15)

 
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LORENZO CALOGERO, UN POETA DA RISCOPRIRE

Post n°56 pubblicato il 07 Gennaio 2009 da alfredofiorani
 
Tag: Autori

Lorenzo Calogero nasce a Melicuccà (RC) il 25 maggio 1910. Consegue la laurea in medicina nel 1937. Nel ’42 tenta il suicidio. Nel ’54 gli viene affidato l’incarico di medico condotto a Campiglia D’Orcia (SI) che abbandona l’anno dopo. Nel ’56 viene ricoverato a Villa Nuccia (CZ), una clinica per malattie nervose. Qui, tenta ancora il suicidio. Un nuovo ricovero imposto agli inizi del ’58 si protrarrà fino alla metà del ’59. Tornato a Melicuccà, visse isolato alla periferia del paese dove fece un uso incontrollato di caffé, sigarette e sonniferi. Morì misteriosamente fra il 22 e il 25 marzo del 1961.
         Questa è, in sintesi, la vita di una delle voci più alte e controverse della poesia del ‘900 italiano. Misconosciuto al grande pubblico e spesso ignorato anche dagli addetti ai lavori, Lorenzo Calogero è, con Dino Campana (anche lui internato, nell’ospedale di Castel Pulci), l’unico poeta orfico del secolo scorso.
    Ma, anche se la posterità non ha trovato ancora un consenso unanime sull’opera calogeriana, ciò non esclude che vi siano stati rilevanti contributi critici come quelli di Montale, Luzi, Zampa, Spagnoletti, Piromalli, Lanuzza e, in special modo, l’attenzione di Leonardo Sinisgalli, al quale Calogero inviò una copia di MA QUESTO… pregandolo di recensirlo “anche se dovesse dirne tutto il male che si può immaginare.” Invece, è proprio Sinisgalli che intuisce per primo le qualità del poeta e si offre di firmarne la prefazione.
L’attenzione su Calogero viene anche dall’estero: Telegram di Zagabria, Times, Die Welt di Amburgo, dallo Stockolms Tidningem, da Jo Guglielmi su Action Poétique di Grenoble.
Sopra tutti questi apprezzamenti, si pone quello lapidario di Ungaretti: “Lorenzo Calogero, con la sua poesia ci ha diminuiti tutti.”
Anche se quella virgola posta tra il nome e il resto della frase, sembra voler dire: sì, Lorenzo Calogero, quello lì, quel “giovane strano”, come lo definì Betocchi nel ’36, consigliandogli di non affrettare la stampa di POCO SUONO, titolo eponimo della bellissima poesia: Di tanto rovinoso mare/ poco suono giunge/ alle mie orecchie assorte/ in contemplazione dell’Eterno/che come un angelo passa.
    Strano, per la verità, doveva apparire il poeta agli occhi dei suoi tanti interlocutori. Strano per il suo aspetto dimesso, per la sua condizione mentale (che a molti altri ha arriso) e forse per il suo essere del Sud. Strano anche per la sua assoluta dedizione alla poesia alla quale sottomise, omologandola, la sua stessa professione di medico (dirà infatti: sono vissuto nella mia professione come se scrivessi versi). Strano: un aggettivo dall’interpretazione aperta ad ogni accezione possibile. Strano è, di fatto, colui che esce dall’ordinario, dalla consuetudine e che può, di conseguenza, nel bene e nel male, racchiudere in sé tutte le antitesi e le asimmetrie della fenomenologia umana.
    Una esperienza poetica atipica, dunque, quella di Lorenzo Calogero, sia sotto l’aspetto dell’uomo che sotto quello del poeta; un’esperienza che, in ogni caso, non perde mai la sua forza, né la sua capacità di scavo nella parola, ma che, nel suo integrale orfismo (inteso come anelito di liberazione, rifugio dello spirito migliore e luogo di conforto nel presente) si offre come una totalità scrittoria da riscoprire continuamente, nella quale l’espressività viene prima della verità. Un’esperienza poetica, in definitiva, che vive di sé medesima, nell’isolamento delle sue potenzialità semantiche, senza raccordi con l’esterno e con la storicità.
Molto indicativo, a tale riguardo, è quanto lo stesso Calogero ebbe a scrivere ad Alba de Cèspedes nel 1955, al tempo in cui era medico a Campiglia d’Orcia: “Se non ho preso mai in considerazione condizioni storiche come motivo di poesia è perché mi è sembrato che la storia (…) sia proprio la più grave nemica della poesia (…). Storia sono principalmente le condizioni della maggioranza e comunque di quelli che in un modo o nell’altro si sono imposti, scienza sarebbe la verità ancora da ricercare sia pure nel seno della storia qualora questa si consideri come un modo di agire anziché di essere…”  Calogero (l’uomo e il poeta) motiva così il suo certo isolamento.
    Pur prestabilito dall’annoso e nauseante clichè post  mortem, ci fu all’epoca un caso Calogero, caso che, non soltanto è ancora irrisolto, ma venne immediatamente relegato un una sorta di “terra di nessuno”. Un’anomalia dell’esperienza poetica italiana del Novecento da dimenticare al più presto…
A tale riguardo vale la pena riportare quanto scrive Stefano Lanuzza: ”Dopo la promozione, all’inizio degli anni sessanta di un caso-Calogero che ha provocato qualche soprassalto nella sonnecchiante  cultura italiana presso cui tutti i giochi erano stati fatti, si è assistito alla repentina reintegrazione dell’autore in un solco regionalistico o decentrato, valso esclusivamente a esorcizzare e immediatamente escludere come irrilevante una voce che, al contrario, a seguirne gli echi, non cessa di marcare la proprio presenza” (Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta” 
-Spirali Edizioni, Milano, 1987-)
    L’ampolla della solitudine entro la quale Calogero fu in vita, venne sempre assecondata dall’allitterazione suono-sonno-sogno, che diventò poi un ossessivo modo di vivere.
Calogero controlla al meglio la sua angoscia, uno stato d’animo a lui favorevole che lo rende un intelligente e “freddo” calcolatore, un abile ragno nel gioco della sintassi, dove il rincorrersi incessante d’immagini e sensazioni danno corpo ad una lettura che si delinea come un fluido incorporeo capace di sorprendenti malie oniriche e dove la penetrante insistenza della sua arte compulsiva si completa nella continua rigenerazione del “materiale” a sua disposizione e  che egli stesso si procura favorendo la paradossale insonnia, sostentandosi di caffé, sigarette e sonniferi.
    Purtroppo, però, ad onta dei suoi quindicimila e più versi, della sua produzione poetica poco suono echeggia nei laboratori della critica e della stampa italiana.
Ed è per questo forse che, conscio dell’indifferenza verso la sua opera, Lorenzo Calogero scrisse ai margini di un foglietto: Non affannarti troppo per le cose della vita, un gran fiotto d’oscurità regnerà dopo di esse.
    Il corpo del poeta senza vita venne ritrovato nella sua casa di Melicuccà il 25 Marzo del 1961 (ma, la morte potrebbe risalire anche a tre giorni prima).
Accanto alle sue spoglie c’era un biglietto sul quale il poeta aveva annotato: “vi prego di non essere sotterrato vivo”.


                                                                                                              

                                                                                                          Serafino Di Cesare

 
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La navigazione ininterrotta di Vito Moretti

Post n°55 pubblicato il 05 Agosto 2008 da alfredofiorani
 

di: Alfredo Fiorani

Un saggio sulla poesia di uno fra i più significativi letterati abruzzese.
“Giornale di bordo”. Così ci piace definire la raccolta antologica “Di ogni cosa detta” da Vito Moretti data alle stampe per i tipi delle edizioni Tracce, con una nota nel risvolto di copertina a firma di Ubaldo Giacomucci, che di poesia s’intende per antica ed assidua frequentazione.
Giacomucci c’informa, con un incipit quanto mai funzionale alla nostra interpretazione, che «La poesia di Vito Moretti ha attraversato (il corsivo è nostro) una lunga stagione culturale (…) e ha discusso i temi più rilevanti che la civiltà del secondo Novecento ha proposto nel suo complesso…» Ed è, allora, proprio su questa attraversata che ci pare imprescindibile incentrare la nostra attenzione.
“Giornale di bordo” - se è vero, come è vero che “il naviglio è la dimora”, lo confessa lo stesso Moretti – non espressamente, dunque, nel senso di un’arida, maniacale sequela di rilevazioni alla capitano Bligh del quotidiano svolgersi e consumarsi di sequenze ripetitive inerenti al più o meno corretto concorso di azioni disciplinate a che la navigazione persegua la migliore rotta, alle indicazioni di coordinate geografiche basate su determinazioni astronomiche, né tanto meno dell’alternarsi metodico dei quarti di guardia, dell’insopportabile durata delle calme di vento o della straziante agonia delle bonacce. Niente di quanto citato s’accorderebbe al significato che invece ci deriva nel leggere la successione poetica che Vito Moretti ci destina.
“Di ogni cosa detta” è il titolo di questa sorta di “giornale” in cui la riflessione intima dell’Autore, talvolta pacata talaltra inquieta ed appassionata, ferma i transiti dei ricordi, proietta il pensiero in avanti: «Mi domando che sarà…», valuta il presente nelle molteplici espressioni in esso stipate, si sofferma con sguardo lungo verso l’esterno ad individuare il particolare, consapevole che d’ogni particolare (o segno), persino del più irrilevante, si costituisce il mondo, interrogandosi di quale “quotidiano ordine di gesti” s’intrama l’esistenza a formare il reticolo dei giudizi, benché il suo giudizio resti sospeso ad attendere (per onestà) il sopraggiungere del successivo indizio, il nuovo svelamento per non uscire dal cerchio della meditazione che in “Oggi dodici del mese” convoglia in sé tutte le possibili, talvolta anche impossibili, forme dell’essere.
Il resoconto del poeta ha, quindi, la metodicità speculativa del filosofo, poiché non esclude nulla della creazione: «Il poeta penetra nelle sembianze nascoste delle cose, e la poesia adempie ad una vera conoscenza…», come ebbe a scrivere Dante Cerilli nella sua introduzione alla poesia di Vito Moretti (“L’enigma e la forma”), anche «esplorando gnoseologicamente la realtà che vive al di sotto delle apparenze».
E’ insito nella definizione di Cerilli che tralasciare qualcosa varrebbe quanto una perdita di senso, uno smarrimento pericoloso. L’esistenza non è fatta di numeri, come qualche matematico al fondo burlone vorrebbe indurci a credere con la sua teologia in opposizione alla casualità, all’eziologia della parola. Ed è qua che sbaglia. No, non solo di numeri, ma vieppiù sulle parole è stata architettata la creazione. Il silenzio di Dio è parola. La sequenza espressiva delle parole va interpretata, e se ognuna di esse è specchio del mondo e della rappresentazione della sua storia (la letteratura è il racconto del mondo e ne è testimonianza, come afferma R. La Capria, delle gioie patimenti e pene), l’omissione o la “manomissione” di una soltanto porterebbe inevitabilmente all’incomprensione, ad una confusa verità, al conflitto.
Ecco perché occorre affidarsi al pensiero che è misura, interpretazione, oculatezza, penetrazione. Il poemetto 2Oggi dodici del mese” ce ne offre un esempio mirabile già inciso nel primo verso: «il tempo è lama». Se il tempo è lama, giacché è perfettissimo, anche il pensiero che ne è il contenuto, sarà esso stesso lama per la perfezione nella realizzazione del sostrato della coscienza, dell’elaborazione dell’agire, foss’anche della più insignificante delle conclusioni o delle derive.
Il poeta se ne sta là, in veglia, sulla balconata del cassero di poppa ad osservare, e l’occhio, si sa, è la porta aperta del pensiero che va, raccoglie, scandaglia, scheda, soppesa, ricrea, via via convincendosi che il tempo è identico ed i cambiamenti sono tali solo nelle nuove meccaniche del fare: in realtà, è piuttosto un rifare con meno fatica, avvalendosi di ciò che la tecnica ha aggiunto all’esperienza. Il resto non cambia, o meglio, il dentro non cambia, poiché il pensiero torna sempre alla memoria di se stesso, non avendo un altrove ad ospitarlo.
Per intrinseca natura il poeta esercita un pensiero inarrestabile, sua prigione e libertà, sua croce sublime. Lo dichiara l’Autore stesso: il poeta è pellegrino e la sua identità è di «risalire di nodo in nodo/all’origine del filo». Per cercarla l’origine del filo, egli attraversa l’attraversabile: le terre, e i paesi, e le fedi, e i bivi, e i ricordi, e gli amori, e i dolori, ma vivendoci (si vive navigando verso isole lontane) che è l’unica forma possibile per capire i significati, dopo averli sottoposti al vaglio della ragione che, solitaria insaziabile dea, domanda dopo domanda, li ridiscute e li riconsidera per assegnarci i motivi necessari e giusti per la nostra sopravvivenza di uomini, per compiere le nostre liturgie quotidiane.
E’ evidente, ad essa dobbiamo tutto. Il poeta ne è toccato fin nel profondo. Sa che persino per accedere alla soglia delle spiritualità, quando non addirittura per entrarvi e sedervi alla sua mensa, deve fare i conti con essa. In questa certezza, il pensiero del poeta pare affiancarsi alla proposta di Benedetto XVI, non a caso il più teologo ed intellettuale dei papi.
Non si nasconde nulla d’artificioso in questa conclusione, basta reclinare la memoria all’indietro, ad un passato ancora recente, a quella cospicua porzione di lupesca umanità che ha deliberatamente ignorato la ragione e se ne è fatta beffa praticando altre ignobili idolatrie, non solo annientando se stessa, ma trascinando con sé nel baratro i destini di coloro che o, indissolubilmente ancorati alla propria cultura e fede, hanno accettato che si compisse una volontà superiore o hanno, impotenti, subito sino alle estreme conseguenze la follia distruttrice o, se per sorte benigna sono scampati alla tragedia, hanno rinsaldato la memoria, testimoniando ed avvertendo che l’infedeltà alla ragione si paga duramente.
L’uomo Moretti ha raccolto questa lezione, convincendosi che la vita e la poesia sono inscindibili, tutt’al più seguono un percorso parallelo, in tal caso sarà una navigazione a vista di costa: un lento scorrere lungo i profili della terra incisi dall’ostinazione corrosiva delle maree e dal ritorno implacabile delle correnti che di quel pensiero poetico sono chiara metafora: un progredire dell’inesausto bisogno di riportare sulla carta millimetrata del tempo (giornale) la sconsolante eco della vicenda umana ancora una volta, scelleratamente, tutta presa dal sottrarsi al giudizio della ragione. Al poeta, che è «custode di venti e di vele», basta poco per cogliere le «ambigue coincidenze/sui terrapieni della memoria», «l’ambiguo e cinico/presente», «un altro inganno/nel chiasso che non dà forza ai verbi giusti e veri,/un armamentario di comodi sotterfugi», «i portatori del fatuo,/il giorno blasfemo dei nocchieri e dei delatori».
E lui annota annota da benedettino su quelle carte il proprio sconforto nello scorgere «la vita che talvolta ci pare/una rasa terra di monsoni/e di negre lune», le amarezze appena appena consolate dal prodigioso ordine della natura o dal ricordo dei giorni buoni di fioriture di idee e sogni impollinati dall’ardore della giovinezza, con tutte le parole possibili, con tutte le parole che hanno accompagnato le età delle storia nel loro evolversi, consumarsi e scomparire: una similitudine impressionante: un calco già visto d’imbrogli, un riecheggiare di monete, uno zoccolio di cavalli nei mercati, un rincorrersi cruento di opposti sulla parola Dio, il mascherarsi dei circensi dietro promesse di rinnovamento. Quanto poco gli occorre per testimoniare la perdita dell’innocenza, della misura, del sentimento, dei «segni mansueti e benedetti dell’anima».
Quale prodigio poetico è la mente del navigatore che pur nell’angusto ambito del suo “quartiere” con la vista profonda dell’intelletto, e con orecchio divino, e con olfatto animalesco ci riporta, risistemandole sulla pagina, segmento dopo segmento, ciò che la vicinanza ci sottrae, la nebbia della quotidianità ci offusca, il gorgo dei mutamenti ci risucchia, i perimetri del nostro egoismo ci isola, la follia dell’avere ci allontana, al fine, il quadro che ne scaturisce è desolante, per dirla con lo stesso verso implacabile di Moretti, «di mediocrità da caporali».
Pur tuttavia, lui che conosce il retrobottega delle vicende terrene, i corpi infettanti dentro le sue vene, le ignobili compromissioni dell’essere con l’avere, del prendere col donare, della menzogna con la verità, della politica con il potere, ci ricorda che esiste l’anima: «…se rammenti, l’anima/che ci fece giurare di non camuffarci//all’incontro della sventura (ai compiti/della ragione e dei doveri) è tenace abitudine,/è bagaglio che erediteranno i figli/dopo le ostili dimore…»; ribadisce altresì, con la levità mistica della parola poetica, trascrivendone tutta la bellezza, «le laiche virtù dei traghettatori del vero,/e a sottrarre le maschere ai falsi circoncisi,/a fischiare gli ipocriti liberali/in camicia di lino e doppiopetto». La realtà sotto la sua penna si fa carne e sangue: vive.
La luce delle simbologie, poste sempre al centro della sua ottica cartesiana, illumina il nero inchiostro dei quotidiani televisivi o stampati, delle prodighe tresche mediatiche (preoccupate della loro sopravvivenza) di affidare ai lutti, ai disordini delle giovani coscienze, ai seminatori di morte in nome di Dio, agli irrisolti casi giudiziari, alle intercettazioni calcistiche o finanziarie, alle vite private di soubrette & boys il compito di testimoniare la realtà, mentre altrove risiedono le fonti della speranza che i veri eroi, quasi mai nominati, tengono in vita con la beatitudine, la rettitudine e l’operosità delle api, così come tengono alto il nome dell’uomo, della parola Uomo ancora carica delle risonanze di pietà e dignità e comprensione che gli appartengono pur apparentemente disperse tra le foschie del presente, pur nel turbine delle meccaniche economiche che forzano, adulterandoli, i comportamenti a cedere alle lusinghe che quanto proposto dai «nuovi bottegai», dai «merciai del tempio», dai «padrini bugiardi» sia necessario, vitale ed imprescindibile.
E’ uno spaccio di moneta falsa. E’ inesorabile avvelenamento del “dentro”. E’ occulto progetto di dissoluzione.
Come è profondo in Vito Moretti il senso morale che non è, o non solo, indignazione verso ogni forma di sottrazione – il peccato in sé è sottrazione – ma anche dato da quello sguardo pietoso, meglio, impietosito per quanto raccoglie di buono passo a passo, lega a lega d’acqua, per quante parabole si compiono e gli toccano il cuore. Davanti alla “visione” del «giusto che toglie il freddo ai risvegli», si ritrova marcata l’effige spirituale della sua condotta di uomo e di poeta, di quel senso morale, già citato, che è scelta ineccepibile nella direzione di una navigazione che ha come meta la verità se si aspira a che la propria coscienza non venga devastata dai rimorsi o che la ragione si arrenda al dominio degli ingiusti dal poeta implacabilmente sorpresi a barattare astuzie affinché non si perda la memoria di se stessi nella mente dei “fessi”.
Il navigatore sa che «la storia ha vele sue», come a dire che nulla le impedirà di percorrere le sue rotte; inesorabilmente marcerà in avanti fino alla fine a ristabilire una sorte degna, oltre ogni confine limite opposizione, e nulla le impedirà senza distinzione di fare giustizia di tutto e tutti: l’elenco è lungo, nutrito di dettagli, date, circostanze, atti, mancanze, abusi, poiché a qualcuno non è sfuggito nulla, a lui, al navigatore non è sfuggita la più esile scaglia di vissuto, perché ha provveduto a registrare meticolosamente l’insieme fitto di quanto ha visto ed ascoltato: cosa mai potrà essere nascosto ed omesso? Le sue parole avranno il peso micidiale della verità, il taglio affilato del tempo, la perfetta curvatura della lente. Nessun Caino troverà rocce dietro cui celarsi, né i silenzi più riposti avranno scampo dinanzi alle domande.
La salvezza sarà di chi avrà ancora rami sul tronco della propria vita una volta che saranno state potate le disubbidienze, le avarizie del cuore, le perversioni dei desideri, le umiliazioni inflitte, la crudeltà delle negazioni, la manipolazione dei sentimenti. E’ tutto scritto, annotato. Verrà il giorno che ogni azione avrà il suo presente, quando al navigatore verrà chiesto di mostrare il “giornale di bordo” in cui, pagina dopo pagina, la testimonianza della realtà – nei riguardi della vita, dell’agire, del destino e dell’essere dell’uomo, nella sua concretezza ed interezza (D. Cerilli) – assurgerà solo a prova e documento, il giudizio finale e la condanna saranno affidati a colui che chiederà a ciascuno conto particolareggiato di ogni cosa detta e fatta, ovvero delle proprie azioni, e dei significati sottostanti: ma qui, quanti sapranno rispondere?

 
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Domenico Defelice: “Resurrectio”

Post n°54 pubblicato il 05 Agosto 2008 da alfredofiorani
 

di: Alfredo Fiorani

La sua poesia non ricalca il cliché.
A Defelice, con questo poemetto dal titolo “Resurrectio”, arricchito dalla prefazione di Vittoriano Esposito e da una nota introduttiva di Maria Grazia Lenisa, va attribuito il merito d’averci ricordato che il mezzo poetico, proprio in ragione della sua immediatezza (lontani dall’intenderla nel riduttivo significato di semplicità, bensì di straordinaria rapidità nel cogliere il cuore delle cose), detiene il primato dell’efficacia concettuale più che di quell’aurea sentimentale, un po’ melensa cui spesso molti frequentatori della poesia indulgono a scapito dello stesso sentimento che li ha ispirati.
Lo scabro, a tratti ruvido, poemetto di Defelice riproduce l’odissea di un uomo colpito non solo nel fisico, ma anche e soprattutto nella sua complessiva condizione umana.
L’intelligenza, quanto i sentimenti, tutto indistintamente sbattuto su un “tavolaccio” d’ospedale, dall’Autore definito “Officina” con deliberata ironia a sottolineare quanta sconsiderata e disumana accoglienza ci riservino gli operatori sanitari, ritenendo i poveri malcapitati semplici macchine a cui dover sostituire o riparare un pezzo danneggiato.
Senza nulla togliere alla forma poetica di “Resurrectio”, vale più questa composizione di tante inchieste socio-giornalistiche sulla malasanità che con molta frequenza, oltre a non curare il corpo, spesso indegnamente offendono ed umiliano l’animo umano.
Viaggio nel dolore, dunque, «sia per certa crudezza della condizione umana», come evidenzia V. Esposito nella prefazione, «sia per l’icastica novità della forza inventiva che vi si connette.»
Nelle gelide, umanamente gelide, “celle” in cui il male è oggetto d’osservazione e d’indagine, nel barbaro condominio della Officina Santa Fragola i sensi e i non-sensi dell’esistenza configgono tra di loro, gettando nello sconcerto e nello scoramento chi di quelle dispute è vittima indifesa, sperando che dispongano di sufficiente volontà da trarre da se stessi la forza necessaria a che non gli si strappi persino la dignità.
Ma l’Officina è anche metafora estremizzata della società con i suoi vizi, le sue aberrazioni, i suoi paradossi, i suoi garbugli, quella medesima società ove la tanto masticata parola solidarietà è assente al punto da relegare l’uomo nei gorghi dell’incertezza, delle paure, dello sconcerto e, in ultimo, della disperazione.
La parola poetica di Defelice assume, distinguendosi, i toni impietosi della denuncia civile, quel castigat ridendo mores vagamente belliniana, con l’efficacia chirurgica del sarcasmo più di tanti manifesti o raduni alla V-day in cui si sviliscono i pur lodevoli intenti che l’hanno originati proprio a causa della perdita dell’anima per una sorta di ribaltamento di ruoli: come a dire che da agnelli gli uomini si rifanno lupi famelici. La poesia di Domenico Defelice, per fortuna, non ricalca il cliché.

(Domenico Defelice: “Resurrectio”, Genesi Editrice, pagg. 67, Euro 4,00)

Alfredo Fiorani

 
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Pietro Civitareale: “Mitografie e altro”

Post n°53 pubblicato il 04 Agosto 2008 da alfredofiorani
 

di: Alfredo Fiorani

Una nuova raccolta di versi del poeta abruzzese che vive a Firenze.
Quest’ultima impegnativa raccolta di Pietro Civitareale “Mitografie e altro” è il resoconto minuzioso di una “contemplazione esistenziale”, come non mai rispetto alle raccolte precedenti, avvolto da un tramato velo di malinconia e tristezza per quel fluido ed inesorabile andare del tempo a cui il poeta oppone la solidità della meditazione nel mero tentativo di arginarne lo strapotente dilagare.
«Non vogliamo che la vita passi» è il verso che sta dietro ogni altro, quasi impigliato fiocco di pioppo alla rete di recinzione che separa il di qua che resta da vivere dall’al di là che è stato. Incombe, insomma, una permanente linea d’ombra in questa raccolta: una linea di demarcazione a dividere le fasi della vita che solo la mente del poeta è in grado d’attraversare poiché ne conosce i punti di congiunzione, le zone di passo, i valichi, in una parola, i punti d’osservazione che gli permettono d’affacciarsi sui versanti aspri del passato di cui solo e soltanto lui ne conosce il paesaggio: solo lui ne conosce totalmente la storia e la geografia.
Gli è quasi divenuto un richiamo ossessivo tanto che vi ritorna sopra col pensiero per scrutare, per verificare dal suo privilegiato osservatorio che tutto quanto s’è compiuto si è compiuto nel modo in cui si doveva compiere, se magari qualcosa non sia stata considerata adeguatamente da determinare e condizionare il cammino, se ad altre occasioni non si sia mancato di riservare la giusta attenzione, perché «fummo indifferenti o distratti», se troppi abbandoni a scialbe astrattezze non abbiano prevalso sulla concretezza dell’agire, se non ci si è adattati alla quiete delle bonacce per paura di possibili tempeste… I sospetti si susseguono impietosi e lui vi scava dentro, come un famelico virus la carne ferita, a cercarvi la prova dell’innocenza, la prova convincente che gli facesse dire: “Non poteva andare diversamente”.
Ma è una fatica infinita, sfibrante, auto lesionistica. Eppure, non riesce a trattenersi. Così i dubbi si sommano ai dubbi, perplessità a perplessità, incertezze ad incertezze. Da assassino ad accertarsi che non ci siano indizi di sé a condannarne l’operato: «Librato sotto l’azzurro abisso,/scruto i venti,/decifro antiche visioni.»
Una speculazione non facile, giacché molto si è cancellato, alterato, altrettanto sbiadito ed eroso. Lo stesso paesaggio «non si ricorda più di noi ed a stento abbiamo/ritrovato il sentiero.»
Non gli resta che ridiscendere la china della memoria con qualche consapevolezza e molte insicurezze sull’epoca che gli è toccata, «un tempo» scrive, «così singolare,/dove le città sono fantasmi di vetro/e la gente ha gli occhi accecati/dallo splendore dell’oro»; ed ancora svariati ed irresoluti pensieri a trattenerlo su se stesso in questo autunno di vita e la méta è là, l’ultima «dimora nel cuore della terra» davanti a sé.
E’ vero, del corpo non resterà traccia alcuna, forse neppure del pensiero, a testimoniare una vita, ma questo riguarderà unicamente il destino degli uomini che non hanno voluto (potuto) parlare di se stessi o del mondo, che hanno preferito l’emenza della supina accettazione degli eventi senza la coscienza del loro compiersi all’inquieta complessità della meditazione; di certo, sarà il destino assegnato a coloro che hanno avuto paura di rischiare il giudizio di altri uomini e non quello dei poeti, non quello di Pietro Civitareale.

(Pietro Civitareale, “Mitografie e altro”, Raffaelli Editore, pref. Giuseppe Panella, pp. 102, Euro 10)

 
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Roberto Michilli: “Fate il vostro gioco”

Post n°52 pubblicato il 04 Agosto 2008 da alfredofiorani
 

di: Alfredo Fiorani

Un romanzo di incredibile forza affabulatoria.
La vita spesso, si sa, riserva delle sorprese. Altrettanto accade nel lungo racconto “Fate il vostro gioco”  di Roberto Michilli. Il finale, ovviamente, non lo sveleremo, ma una cosa va subito detta: tutto ci saremmo aspettati dalla vicenda narrata meno che l’Autore si prendesse (bonariamente) gioco del povero lettore, avendogli consegnato un finale che, probabilmente, gli risulterà un po’ irritante - a noi un po’ meno per le metafore che ne abbiamo tratte - da come nel corso della lettura se l’era diversamente prefigurato.
Ma non è su tale aspetto che vogliamo incentrare la nostra attenzione. Il finale di un racconto, breve o lungo che sia, può piacere o non piacere. Molto dipenderà da ciò che ha concorso al suo concepimento. Nel caso di “Fate il vostro gioco” la conclusione è da romanzo giallo per quel colpo di scena alla Agatha Christie, solo che è ancor più repentino e sconcertante, non trattandosi di un giallo, da lasciarci con un palmo di naso.
Ad ogni modo, ciò che invece ci preme sottolineare è (al di là di tutto) l’ineguagliabile potere affabulatorio dello strumento narrativo che, se ben adoperato, diventa micidiale. Come lo è diventato nel caso di Michilli/Shahrazàd. Prova tangibile della sua abilità a raccontare, così diabolicamente sottile da farci diventare burattini nelle sue mani, oltre a convincerci a bere la sua una storia fino all’ultima goccia. Ed è solo riconoscendogli questa abilità che gli perdoniamo il “finale”.
Alla stregua del malcapitato viaggiatore a cui il protagonista, Alberto, nello scompartimento di un treno confida la sua vicenda, lo abbiamo seguito nel suo intricato ed intrigante racconto anche lì dove la noia, per la specificità dell’argomento a tratti più simile ad un manuale sul gioco della roulette, stava lì lì per annientarci.
Siamo andati dietro ad Alberto, incallito frequentatore di casinò poi ravvedutosi, vivendone il dramma esistenziale: le amarezze, le sventatezze, i rimorsi, le nostalgie, le sconfitte; condividendone le delusioni e i rimpianti; deplorandone gli egoismi giovanili, perdonandogli i tradimenti sentimentali.
Di questo ed altro ci ha visti partecipi la storia di Alberto che in preda all’inquietudine, figlia del suo passato dissennato, quasi a perdere l’anima per ritrovarla (parafrasando Aleksandr Lurjia), escogita un sistema ingegnoso, ispirandosi a…………, allo scopo di sbancare il Casinò di Venezia presso cui svolge la sua mansione di funzionario nel tentativo di sfidare il destino e di risistemare la sua vita una volta per sempre.
In Michilli, il gusto del racconto è sorprendente, grazie a quella capacità di manipolare a suo piacimento la materia narrata e rendendola, per la perfetta meccanica e la meticolosa tramatura dei particolari, talmente verosimile da spronarci il dubbio se la storia riguardi il protagonista o l’Autore, se insomma non sia Roberto Michilli il “giocatore” di “Fate il vostro gioco”.
In realtà, poco importa. Ciò che, al di là della beffa finale, ci ha sedotti è l’ esserci trovati a partecipare incondizionatamente a l’intera vicenda, finendo come il viaggiatore (presumiamo) a chiedersi dove la realtà e dove la finzione, se credere e a chi credere, se la verità esiste o se tutto è illusione, incantamento, fascinazioni, se lo sconosciuto incontrato sia un demone o un angelo.
Alla fine, Michilli ci ha piantato un bel chiodo nella testa. Però, stia attento anche lui, e non si faccia maestro, poiché non è escluso che gli capiti d’imbattersi strada facendo uno “spiritello maligno”, e poi a ridere saremo noi. Come si dice: “Chi la fa l’aspetti”.

(Roberto Michilli, “Fate il vostro gioco”, Fernandel, pagg. 130, Euro 12)

 
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Post N° 51

Post n°51 pubblicato il 12 Giugno 2008 da qualchevoltasuccede

Sfoglio una margherita,sfoglio una millefoglie con le dite,dita imbrattate dal sapore di meringhe stonate su note suonate da una finestra aperta su una scoperta.Sfoglio una margherita e non trovo più le dita,mi si stringe la vita e la mia gatta si è svegliata.Sfoglio una margherita e resto stupita,nessun petalo né una meringa solo una salita,una salita che sa di margarita.

 
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Post N° 50

Post n°50 pubblicato il 25 Marzo 2008 da qualchevoltasuccede

Soffio delicato e sottile                                  

Azzurro e arancio come i colori d’estate

Un gabbiano e un ricordo

Il ricordo di quello che c’è stato

E già non c’è più

Di quello che c’è stato?

Un sogno…forse un sogno

Adesso ritagli di stoffa colorata

Dalle fantasie che non riesco a far combaciare

Non trovo il cotone per cucirle insieme

Ho perso il filo

Era un filo rosso, un filo sottile

Uno di quei fili sottili che però non si spezzano

Chissà se qualcuno lo ha visto

Chissà se qualcuno lo ha preso

Chissà…se lo vedi me lo riporti?

Lo cerco,lo cerco da tanto

Pensavo di averlo trovato…pensavo,

e adesso non c’è più

però non so perché io sono sicura di ritrovarlo!

Tu però, se lo vedi riportamelo,

devo cucire i miei pezzi di stoffa colorata

e poi io…io lo cerco,lo cerco da così tanto!

In foto: "Nature morte" (P.Picasso)

 
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Il solipsismo di genere femminile

Post n°49 pubblicato il 22 Marzo 2008 da alfredofiorani
 

A cura di: Francesca Rapini
In: D'Abruzzo, XX n. 80 (Edizioni Menabò)

In occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita della grande scrittrice aquilana Laudomia Bonanni, è stato pubblicato il saggio di Alfredo Fiorani dal titolo: Laudomia Bonanni. Il solipsismo di genere femminile.
L'autore ha voluto ricordare una grande scrittrice troppo spesso ignorata anche dalla sua città.
Con una scrittura agile ed avvincente, Alfredo Fiorani ci conduce nel mondo della Bonanni riproponendo con un'organica rivisitazione i motivi, le atmosfere, le ragioni e i contenuti della sua vasta opera letteraria.
Nel riproporre le tematiche che hanno caratterizzato la produzione letteraria della scrittrice, Alfredo Fiorani vuoi farci apprezzare anche gli aspetti della straordinaria sensibilità di donna e intellettuale che ha saputo cogliere con largo
anticipo sulle mutazioni sociali, i tratti più inquietanti e laceranti della modernità che hanno investito le nuove generazioni.
La narrativa di Laudomia Bonanni, come afferma l'autore, ha percorso per buona parte la temperie novecentesca, dalla capillare descrizione di una civiltà popolare e contadina con grande attenzione rivolta al mondo degli emarginati
e all'universo femminile, fino ad arrivare alle contraddizioni dell'opulenta società industriale ricadenti sulla parte di essa più indifesa e impreparata a contrastarle.
Muovendosi in modo alterno tra il pensiero di scrittrice e di donna, l'autore dialoga idealmente tra le pagine con Laudomia Bonanni arricchendo le proprie considerazioni con brani tratti dalle opere della scrittrice.
Il saggio si avvale di note bio-bibliografiche sulla Bonanni che consentono al lettore di orientarsi meglio tra la produzione letteraria e la sua vicenda personale e un'appendice finale con alcuni scritti inediti.
Alfredo Fiorani, Laudomia Bonanni. Il solipsismo di genere femminile, (Edizioni NouBs, Chieti, pag. 120, €15,00)

 
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Scrittura e critica

Post n°48 pubblicato il 22 Marzo 2008 da alfredofiorani
 

Laudomia Bonanni vista da Alfredo Fiorani
di: Patrizia Tocci
in: Der Wanderer (01.12.2007)

Lo scrittore Alfredo Fiorani ha appena pubblicato il libro “Laudomia Bonanni, il solipsismo di genere femminile” (Noubs – Chieti 2007): un testo di stretta attualità perché proprio il 12 e il 13 ottobre, con un appuntamento che ormai si ripete da anni, nella nostra città si svolge il Premio Letterario “Città dell’Aquila” intitolato a Laudomia Bonanni, grazie all’iniziativa della Carispaq e Provincia; sia perché quest’anno inizia un lungo anno di celebrazioni per il centenario di nascita della scrittrice (L’Aquila, 8 dicembre 1907 ). Molte le iniziative in cantiere: a cura dell’Associazione Internazionale di Cultura Laudomia Bonanni e dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, la realizzazione di un dvd di Patrizia Tocci e Carlo Nannicola “come se il fiore nascesse dalla pietra”; la pubblicazione del libro di Annamaria Giancarli (membro della giuria e fondatrice del premio Bonanni) che ha per titolo “Laudomia Bonanni: Elzeviri” (Tracce, 2007); un libro prezioso che inquadra e ci mette a disposizione gli articoli che Laudomia Bonanni pubblicò su varie testate giornalistiche e quindi di difficilissimo reperimento. Tra qualche mese verrà pubblicato dalla casa editrice Textus (che ha già curato la riedizione de Il Fosso e ha pubblicato il romanzo inedito La Rappresaglia, ambedue con una densa introduzione di Carlo De Matteis) L’Imputata a cura di Liliana Biondi; Gianfranco Giustizieri sta preparando una monografia completa che contiene anche il censimento di tutti gli articoli, elzeviri e persino alcune novità sui romanzi inediti rimasti nel “cassetto” della scrittrice. In questo quadro di studi e proposte di indagine, il libro di Alfredo Fiorani funziona perfettamente da apripista: percorre infatti un “bosco narrativo” non troppo conosciuto e sceglie un suo sentiero particolare per percorrerlo. Alfredo Fiorani, oltre ad essere poeta e scrittore di romanzi che hanno avuto numerosi e importanti riconoscimenti, è anche un critico letterario attento: già nel 1997 con “La tela di Penelope. Il vissuto femminile e la scrittura.” (Noubs, Chieti) si è occupato di questa letteratura “di genere”. Nel libro si rivela pienamente la “doppia natura” dell’autore: mescola infatti sapientemente e serratamente la frequentazione alla scrittura con l’acume, l’ironia e a volte il sarcasmo del critico. Manca a tutt’oggi un completo studio monografico su Laudomia Bonanni: questo testo è il primo, in tale direzione. Gli va quindi riconosciuta la difficoltà oggettiva di lavoro: poco reperibili i testi, assente una bibliografia completa, mancante un censimento preciso e dettagliato dei numerosi articoli ed elzeviri che sono spesso una miniera insospettata perché si legano in modo a volte sotterraneo, a volte addirittura preparatorio alle opere maggiori. Anche in questa direzione il libro è prezioso, perché in appendice ci regala alcuni articoli della Bonanni: Dalla pianura di Sulmona ai Prati di Tivo (Il Corriere d’Italia, 20-21 luglio 1961); La città del 99 (sempre ne Il Corriere, 19 marzo 1950); Il Gran Sasso; Teramo; L’imbroglio (Il Giornale d’Italia, 13-14 dicembre 1965). Il lavoro di Alfredo Fiorani evidenzia la perfetta capacità di scrittura di Laudomia di funzionare come un congegno preciso e perfettamente oleato: l’architettura dei romanzi principali accoglie numerosi personaggi, in un incastro plausibile e perfetto sia dal punto di vista del linguaggio che dalla cornice spaziale e temporale in cui vengono fatti agire. “La vita di Laudomia Bonanni era marcata, cadenzata come una poesia, da rituali precisi, sacerdotali. Osiamo ipotizzarlo (...) facendoci forti dell’architettura quasi medievale delle sue storie: edifici armonicamente e solidamente eretti a mattoni compatti e squadrati.” Molto spesso si fa fatica a distinguere lo scrittore dal critico: quando Fiorani cerca di ribaltare alcuni giudizi critici – i primi – sull’opera della scrittrice, quando cerca di ricostruire la forza e la particolarità innegabile di alcuni personaggi femminili usciti dalla penna di Laudomia, quando immagina la scrittrice “guadagnare l’ingresso dell’appartamento, a poco a poco riadattare la mente all’ambiente famigliare, farsi la consueta tazza di caffè, per poi riprendere il suo infaticabile, sacro lavoro letterario, dopo essersi accesa anche la calligrafia diventa materia di riflessione: “stendeva le sue storie in una minuta scrittura da maestra elementare, perfezionata con il taglio benedettino, raccordando gli appunti annotati con la stessa maniacale puntualità... su bordi di giornali, sul rovescio di bollettari, su foglietti sparsi”. Chi ha avuto, come chi scrive, la possibilità di vedere gli autografi di Laudomia Bonanni, sa quanto sia penetrante ed importante questa osservazione che poi si riverbera nella disposizione e nella costruzione narratologica della scrittrice. Oltre la cornice e la matrice aquilana di alcuni testi, Fiorani ricolloca la scrittrice nell’ambito delle varie tendenze letterarie del 900 sottolineandone quindi la modernità, anche in alcune scelte lessicali. Emerge in questo testo l’inesausta passione di Laudomia Bonanni per la lettura e per la scrittura, che l’accompagnò da bambina fino agli ultimi giorni della sua vita. Il libro esamina poi altri aspetti dell’opera della scrittrice che non vogliamo e non possiamo riassumere... Ci piace però sottolineare che, a volte, uno scrittore-critico può avere maggiore sensibilità e uno sguardo più attento e quindi fecondo di maggiori intuizioni (per passione, per consonanza, per conoscenza dei meccanismi interni alla creazione artistica) di critici che preparano recensioni su commissione delle case editrici, o per le pagine culturali di quotidiani famosi e spesso non leggono nemmeno il libro dell’autore.

 
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Aggiornamenti sul sito e sul blog

Post n°47 pubblicato il 22 Marzo 2008 da alfredofiorani
 

Vogliate scusare l'assenza dal blog, ma capirete che gli impegni letterari incombono.
Ringrazio tutti coloro che nel frattempo mi hanno scritto. Cercherò ben volentieri di rispondere a tutti.
Buona Pasqua
Alfredo Fiorani

 
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Riflessioni di un canzoniere

Post n°46 pubblicato il 07 Febbraio 2008 da AdamLeve
 
Tag: Poesia

LEGGENDA

Pensai un giorno
Disteso in un prato a contare le antenne di un grillo
Alle leggende dei giorni passati

In fondo al mare
In un forziere sommerso lì dove l’occhio di un uomo non deve guardare
È nascosto un raggio di sole

Chiusi gli occhi soltanto un istante
Per seguire il tempo fin dove si perde
E mi svegliai dove il prato era verde

Io
Aiuto di un servo pastore
Meno di niente a mischiar letame
Mi svegliai dove il prato era verde

Adam Leve, 1988

 
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Lavori in corso

Post n°45 pubblicato il 02 Febbraio 2008 da alfredofiorani
 

Scusate i lavori in corso sul blog, ma ogni tanto bisogna mettere un po' di ordine come in casa, no?

Se volete, potrete inviarmi i vostri consigli per migliorare questo spazio nell'aspetto, nei temi trattati o per qualsiasi altra segnalazione.

Intanto vi ringrazio calorosamente per la visita.

 
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All'amore il tempo
Romanzo

Manni Editore, San Cesario, 2007

Laudomia Bonanni.
Il solipsismo di genere femminile

Saggio
Edizioni Noubs, Chieti, 2007

 

Omaggio Video

Omaggio Video
a Laudomia Bonanni
da un'idea di
P. Tocci
direzione e montaggio di
C. Nannicola

http://www.archive.org./details/
ComeSeIlFioreNascesseDallaPietra

 

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