Creato da carlotta735 il 15/10/2009

Note a soqquadro

Schegge di sogni e freschi sorrisi

 

Concorso Letterario

Post n°267 pubblicato il 01 Marzo 2013 da carlotta735


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1° PREMIO LETTERARIO

"MARCO POZZA 2013"

IL PREMIO LETTERARIO “MARCO POZZA 2013” SI ARTICOLA IN DUE SEZIONI:

SEZIONE POESIA: inviare una poesia a tema libero di non più di 40 versi.

SEZIONE RACCONTO: inviare un solo racconto a tema libero che non superi le 4 cartelle dattiloscritte (una cartella = 30 righe).

TESTI: i testi devono essere inediti, in lingua italiana e mai premiati o segnalati in altri concorsi. Possono partecipare cittadini italiani che alla data di scadenza del concorso abbiano compiuto i 18 anni di età. E' possibile partecipare ad entrambe le sezioni.

NUMERO COPIE: i concorrenti devono inviare tre copie, di cui due copie assolutamente prive di segni di identificazione e una copia dei testi con firma e dati dell'autore (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, e-mail), il titolo dell'opera, la sezione alla quale si intende partecipare e una dichiarazione firmata che il testo è frutto della propria inventiva, inedito e mai premiato o segnalato in altri concorsi.

SPEDIZIONE A MEZZO POSTA: spedire entro VENERDI 8 MARZO 2013 al seguente indirizzo: Biblioteca Comunale, Piazza della Libertà 36010 Cogollo del Cengio (VI). Farà fede il timbro postale.

PREMI SEZIONE POESIA: 1° classificato 200 €; 2° classificato 150 €; 3° classificato 100 € ; 4° e 5° classificato assegnazione di “buono libro”.

PREMI SEZIONE NARRATIVA: 1° classificato 200 €; 2° classificato 150 €; 3° classificato 100 € ; 4° e 5° classificato assegnazione di “buono libro”.

Ai primi 5 partecipanti utilmente classificati verrà rilasciato un attestato di merito.

PREMIAZIONE: la premiazione avverrà SABATO 23 MARZO 2013 in occasione dell'inaugurazione della nuova Biblioteca Comunale. Tutti i partecipanti saranno invitati, i vincitori saranno chiamati a partecipare personalmente alla cerimonia.

GIURIA: tutti gli elaborati saranno valutati a giudizio insindacabile e inappellabile da una qualificata giuria che verrà resa nota al momento della premiazione.

RISULTATI: tutti i partecipanti riceveranno notizia dei risultati del premio. I risultati verranno anche pubblicati sul sito del comune di Cogollo del Cengio: http://www.comune.cogollodelcengio.vi.it.

INFORMATIVA: informativa ai sensi della Legge 675/96 sulla tutela dei dati personali. Il trattamento dei dati, di cui garantiamo la massima riservatezza, è effettuato esclusivamente ai fini inerenti il concorso cui si partecipa. I dati non verranno comunicati o diffusi a terzi a qualsiasi titolo e si potrà richiederne gratuitamente la cancellazione o la modifica scrivendo alla biblioteca comunale: biblioteca@comune.cogollodelcengio.vi.it

 

INFO

Manifesto Concorso Letterario Cogollo del Cengio 2013.pdf

Pieghevole Concorso Letterario Cogollo del Cengio 2013.pdf



Biblioteca di Cogollo del Cengio - Piazza della Libertà - 36010 Cogollo del Cengio (VI) (Tel. 0445 805060, e-mail: biblioteca@comune.cogollodelcengio.vi.it, prestiti@comune.cogollodelcengio.vi.it)
 
 
 

Come nasce un personaggio...

Post n°266 pubblicato il 11 Agosto 2011 da carlotta735

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Plot grows out of character. If you focus on who the people in your story are, if you sit and write about two people you know and are getting to know better day by day, something is bound to happen.[cit.]
Anne Lamott lo ha spiegato così bene nel suo libro Bird by bird che citarla era d’obbligo: la trama nasce dal personaggio. Facciamo interagire due persone e ne vedremo delle belle: diventeranno amici? Si ignoreranno? O tra di loro si scatenerà l’inferno?
In ogni caso qualcosa succederà e quel qualcosa sarà la nostra storia. Ecco perché la Lamott ci dice: “I say don’t worry about plot. Worry about the characters.”
Preoccupiamoci del personaggi, dunque.
Chi sono questi bellimbusti che incontriamo per la prima volta durante un viaggio in autobus o nel bel mezzo di un momento di riflessione personale? Si intrufolano nella nostra vita e vogliono a tutti i costi narrarci la loro storia: dirci perché sono così e quello a cui aspirano. Ma senza fretta. Loro hanno tutto il tempo del mondo. E se lo prendono.
I nostri personaggi sono proprio come le persone che incontriamo ogni giorno: hanno un certo aspetto e un certo carattere, desiderano alcune cose e ne ripudiano altre, ci stanno più o meno simpatici. Compiono scelte. Eh sì, non pensare che in quanto autore tu abbia il potere assoluto su di loro, nossignore! Prima accetti il fatto che sono i personaggi a raccontarti la loro storia, e non tu a imporgli la tua, prima te la racconteranno.
Lasciamo di nuovo la parola a Anne Lamott:
Whatever your characters do or say will be born out of who they are, so you need to set out to get to know each one as well as possible. One way to do this is to look within your own heart, at the different facets of your personality. You may find a con man, an orphan, a nurse, a king, a hooker, a preacher, a loser, a childe, a crone. Go into each of these people and try to capture how each one feels, thinks, talks, survives.[cit.]
Un consiglio che dovresti far diventare una regola d’oro è: scrivi di quello che sai, conosci quello che non sai.
I personaggi devono apparire “ reali ”, non semplici stereotipi da racconto d’osteria. Più li conoscerai, più avrai la possibilità di farli conoscere anche a chi legge, di conferire loro una “personalità a tutto tondo”, una “ tridimensionalità ”.

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Come nascono i personaggi

Che cos’è che stimola la nostra fantasia? La realtà. E’ proprio dalla realtà circostante che dobbiamo quindi partire per cercare l’ispirazione: dall’ambiente, dalle persone, dalle situazioni e anche da noi stessi.
Naturalmente l’osservazione ti fornirà delle idee, ma non devi descrivere pari pari quello che vedi, né tantomeno sottoscriverlo e giurare che è tutta la verità e nient’altro che la verità!
Lasciati ispirare, ma poi concedi spazio ai tuoi personaggi: accorda loro ampia espressione, non scrivere sotto la dettatura della realtà.
Ad esempio: forse tua nonna è una vecchina simpatica e la sua abitudine di prendere il tè alle cinque del pomeriggio con il defunto marito, ti sembra un’idea tanto romantica da inserire in una storia, ma la vecchina che ti sta parlando e vuole il suo ruolo nel romanzo non è tua nonna e il marito defunto a cui offre il tè lo prende anche a bastonate quando non risponde alle sue domande (cosa che probabilmente tua nonna non farebbe mai)!
Capito l’antifona? ;)

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Mentre di tua nonna potresti non conoscere molte cose, della tua “amabile” vecchina saprai tutto: non solo come si veste e che aspetto ha, ma anche le pieghe più nascoste del suo carattere, il motivo per cui ogni giorno prepara il tè per due e si arrabbia quando il defunto marito rimane in silenzio per ore (possiamo anche immaginarne il motivo…!). Tu sai tutto e se non lo sai, allora devi scoprirlo. Impara a conoscere i tuoi personaggi come forse non vorresti conoscere neppure te stesso. :P
Devi saperti calare nelle situazioni che vivono e viverle con loro: perché tu sei al contempo il buono e il cattivo, lo sfigato e il vincitore.
Inoltre, non ti preoccupare solo dei protagonisti, scandaglia le vicinanze alla ricerca dei personaggi secondari e dei comprimari: se esistono ci sarà un buon motivo.


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I sentimenti di un personaggio devono essere mostrati… diventano reali solo quando prendono la forma di eventi, azioni (o gesti), dialoghi o reazione fisica all’ambiente. 
John Gardner

Ricorda: un personaggio che non coinvolge te non coinvolgerà neppure il lettore. Hai bisogno di emozioni, belle o brutte che siano. I tuoi personaggi devono coinvolgere emotivamente perché solo in quel caso il lettore si preoccuperà della loro sorte e li accompagnerà durante il romanzo: al contrario sappiamo bene come andrà a finire, vero? 

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Per approfondire:


 
 
 

Premio letterario " L'ARCOBALENO DELLA VITA "

Post n°265 pubblicato il 17 Luglio 2011 da carlotta735


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Il Bando
 
Premio letterario internazionale per opere inedite
in prosa e poesia in lingua italiana
Decima edizione – Anno 2011


 REGOLAMENTO

Il concorso è aperto a tutti e non richiede alcuna quota d’iscrizione. È gradito e facoltativo un libero contributo per le spese organizzative e di segreteria.
Possono partecipare autori italiani e stranieri con opere in lingua italiana.
Si riconoscono due categorie di partecipanti:
- Giovani (fino ai 22 anni)
- Adulti (dai 19 anni in poi)
I giovani fino ai 22 anni possono, a propria discrezione, concorrere anche nelle sezioni dedicate agli adulti, è sufficiente che indichino le sezioni alle quali intendono partecipare all’interno del plico dei testi inviati, secondo le modalità descritte più sotto.
Ai fini della premiazione la categoria Giovani sarà ulteriormente suddivisa in tre fasce d’età: fino ai 10 anni compiuti, dagli 11 anni ai 15 anni compiuti, dai 16 anni ai 22 anni compiuti.
Il premio è articolato in sei sezioni:
- Sezione A Adulti – prosa o racconto breve a tema libero (1 solo racconto di lunghezza massima 3 cartelle o 2 racconti di lunghezza massima 2 cartelle; 30 righe ciascuna cartella)
- Sezione B Adulti – poesia a tema libero (massimo 3 poesie; lunghezza massima 40 versi ciascuna)
- Sezione C Giovani – prosa o racconto breve a tema libero (1 solo racconto di lunghezza massima 3 cartelle o 2 racconti di lunghezza massima 2 cartelle; 30 righe ciascuna cartella)
- Sezione D Giovani – poesia a tema libero (massimo 3 poesie; lunghezza massima 40 versi ciascuna)
- Sezione E Silloge inedita di poesie a tema libero (1 silloge di minimo 5 e massimo 10 poesie con versi di lunghezza libera. Si precisa che i fogli dovranno essere spillati tra loro in modo da formare un fascicolo per ogni copia inviata, pena l’esclusione dal concorso)
- Sezione F Haiku (massimo 10 haiku in forma classica: 3 versi rispettivamente di 5, 7 e 5 sillabe)
Ogni partecipante può concorrere a più sezioni.
Le opere inviate devono essere inedite e non devono aver mai ricevuto premi in altri concorsi letterari.

[...]

I lavori dovranno essere consegnati o inviati a:
Premio letterario “L’Arcobaleno della Vita”
c/o Gloria Venturini

Via E. F. Foresti, 6/E

45100 ROVIGO
entro e non oltre il 15 settembre 2011, farà fede il timbro postale.

[...]

PREMIAZIONE

Per le sezioni A, B, E e F verranno premiati i primi cinque classificati, ai quali saranno donate targhe artistiche di pregio e diplomi di riconoscimento. Ai successivi dieci classificati saranno attribuite segnalazioni di merito attestate con diploma.
Per la sezione C sarà premiato, con targhe artistiche e diplomi, il primo classificato di ogni fascia d’età.
Per la sezione D saranno premiati, con targhe artistiche e diplomi, i primi due classificati di ogni fascia d’età.
All’interno della categoria Giovani saranno attribuiti ulteriori premi speciali e segnalazioni di merito a discrezione della giuria.
La giuria e gli organizzatori si riservano il diritto di assegnare premi speciali ad autori e/o opere di particolare rilievo.
Potrà inoltre essere istituita una sezione Intercultura che premierà i componimenti più meritevoli inviati dall’estero e/o da cittadini abitanti in Italia ma nati in altri Paesi.
I vincitori e i segnalati verranno tempestivamente contattati telefonicamente e avvisati tramite comunicazione scritta (eventualmente anche attraverso e-mail). L’esito del concorso sarà comunque pubblicato su vari siti internet di carattere letterario e sul sito del concorso www.arcobalenodellavita.it.
La cerimonia di premiazione si svolgerà presumibilmente in un sabato pomeriggio della prima metà del mese di dicembre 2011.

[...]

 
 
 

Mattia Pascal, forestiere della vita

Post n°264 pubblicato il 16 Aprile 2011 da carlotta735
 


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...L'uomo si ribella, rifiuta le convenzioni e la maschera che è costretto a portare e con il nome di Adriano Meis intraprende un viaggio cercando una individualità vera, la libertà, l'amore autentico, la giustizia, l'onore. Gode finalmente di una disponibilità senza limiti. Ma tutto questo dura poco perchè l'amore vero è rapporto, la giustizia è confronto con gli altri, la coscienza sono gli altri. Capisce che in ogni esperienza c'è bisogno di un patteggiamento. Allora ritorna sui suoi passi, riveste uno ad uno i vestiti della vecchia mascherata, ricompone i pezzi dell'antica forma che, anche se falsa, rappresenta, alla fine, l'unica forma possibile...

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 La vicenda narrata nel romanzo - suddiviso in diciotto capitoli titolati, inclusi due a mo' di premessa - ha inizio a Miragno, immaginario paese ligure. Il protagonista Mattia Pascal e suo fratello Berto, dopo essere cresciuti sotto le cure di un bizzarro precettore soprannominato Pinzone (maestro d'umorismo, per quanto soffocato di erudizione retorica, che talora fa «il matto»), conducono una vita da gaudenti «scioperati» con cui completano l'opera dell'avido e disonesto Batta Malagna, l'amministratore che, dopo la morte del loro padre, ha prosciugato a poco a poco il patrimonio di famiglia. Berto si sottrae alla miseria con il matrimonio; Mattia, invece, con il matrimonio - determinato da una rete d'interessi, mire e inganni, talora farseschi, intorno alla "roba" di Malagna - la aggrava e complica ulteriormente la sua esistenza.

Di fronte alla conclusione farsesca di un'ennesima lite in famiglia, Mattia sperimenta il rimedio di
«ridere di tutte le sue sciagure e d'ogni suo tormento», piangendo lacrime di riso, miste al sangue dei graffi ricevuti, mentre un occhio «s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo»: maschera grottesca che, nel misto di lacrime e riso nonché nella visione strabica, simboleggia l'umorismo pirandelliano. Lavorando in una biblioteca invasa dalla polvere e frequentata solo dai topi, con sede in una vecchia chiesa sconsacrata, Mattia Pascal scopre poi il secondo rimedio - che è anche un approfondimento del male della vita perché ne dà più piena e profonda coscienza - della lettura di libri di filosofia che gli «sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano». Arriva così a compimento la sua antinomica, umoristica, identità, inscritta nel nome: matto e filosofo al contempo (il cognome allude a Blaise Pascal).

Quando una serie di lutti si aggiunge alla
«noja» che lo ha «tarlato dentro», Mattia, come impazzito, fugge, non visto, dal paese per farsi una nuova vita in America. La fortuna e il caso modificano però il suo destino: una clamorosa vincita al gioco a Montecarlo, che gli assicura un cospicuo patrimonio, e la notizia, sui giornali, del suo suicidio (la moglie e la suocera lo hanno identificato con il cadavere di un uomo annegato) lo rendono miracolosamente «libero, nuovo e assolutamente padrone di sé» e di un diverso, possibile, futuro. Per sbarazzarsi del tutto della vecchia identità, egli modifica il suo aspetto, assumendone uno, brutto e ridicolo, da filosofo, da cui fa discendere l'intento di armarsi «d'una discreta filosofia sorridente», con la quale contemplare «da fuori» la vita degli altri. Si dà poi il nome fittizio di Adriano Meis, traendolo da una dotta discussione sulla bruttezza fisica di Cristo, e si costruisce una storia, una memoria fittizia, con l'immaginazione e l'esperienza di un anno di viaggi per l'Italia e l'Europa. «Forestiere della vita», Adriano Meis, patendo il suo essere nessuno, si stabilisce infine a Roma, in una stanza d'affitto in via Ripetta, in casa di Anselmo Paleari, impiegato in pensione, che vive con la figlia Adriana e ospita il genero Terenzio Papiano, vedovo di un'altra figlia, e la nubile quarantenne Silvia Caporale.

Il Paleari, ingenuo cultore di pratiche spiritiche nonché di studi teosofici e filosofici, in alcuni passi di grande importanza per spiegare l'opera di Pirandello, illustra la sua filosofia: eleva la sua protesta, d'impronta leopardiana, contro l'illusione scientista del progresso e i limiti della scienza (cap. x), come fa lo stesso Mattia (cap. IX); si sofferma sul problema della morte e dell'Essere, del buio della crisi individuale e sociale, senza una luce che illumini: siano i lanternoni delle ideologie collettive o le lucernette, individuali, del pensiero e della letteratura (cap. XIII, pagine che torneranno nel saggio su L'umorismo); fornisce, ancora, un'immagine emblematica dell'umorismo pirandelliano: lo
«strappo nel cielo di carta» di un teatrino di marionette, da cui deriva l'incertezza che trasforma Oreste in Amleto e la tragedia antica in moderna.
Paleari infine, questo umoristico «Amleto in ciabatte» (la definizione è di Nino Borsellino), svolge delle considerazioni sulla morte di Roma che s'intrecciano con alcune riflessioni sul moderno, come perdita del sacro, che costituiscono una dimensione fondamentale del romanzo, esplicitata nella seconda premessa: il «destino di Roma» nella modernità è anche, metaforicamente, quello della letteratura. Queste riflessioni sul destino collettivo avranno un notevole peso anche sul destino individuale di Mattia Pascal. Tra Adriano e Adriana si sviluppa una reciproca simpatia e attrazione che, nel buio di una seduta spiritica, si materializza in un bacio furtivo. L'identità fittizia si rivela ora al protagonista una nuova prigione che lo costringe a una vita di menzogne e, nel contempo, a essere nessuno, un'ombra inconsistente che tutti possono calpestare, visto che egli non può concretizzare un legame stabile con Adriana, né può denunciare alla polizia il furto subito da Papiano.
Mattia simula perciò il suicidio di Adriano Meis nel Tevere e torna a Miragno dove, tuttavia, non può riassumere la propria vita precedente con la moglie Romilda che, nel frattempo, si è risposata col suo amico Pomino, da cui ha avuto una figlia. Distaccato dalla vita, «in pace», Mattia vive nella biblioteca un'esistenza e un'identità del tutto particolari: «io non saprei proprio dire ch'io mi sia», risponde a don Eligio; e a coloro che lo vedono visitare la propria tomba: «Io sono il fu Mattia Pascal».

Il noto explicit del romanzo va letto, tuttavia, contestualmente alle due premesse (ma conclusioni, nella fabula). Infatti, sulla sua tomba d'uomo, il fu Mattia Pascal accende metaforicamente - seguendo un'indicazione di Paleari - la sua lucernetta di scrittore: egli affida la propria identità postuma (il manoscritto dovrà essere aperto dopo la sua morte) a una storia che, paradossalmente, racconta di un'identità impossibile.

La biblioteca cui è affidato il manoscritto - fuor di metafora, la letteratura - è sì deserta e in abbandono, sconsacrata come la chiesetta che la ospita, ma può sempre conservare un'opera «da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore»; e dunque essa mantiene una, qui sminuita e postuma, forma di sacralità, ancor più evidente nelle due premesse che svolgono una funzione di "cornice" narrativa e metaletteraria. Nella «Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa», il fu Mattia Pascal dice di scrivere, «oltre che per la stranezza del suo caso» (una delle atipicità registrate dalla letteratura naturalistica), «in grazia di» una «distrazione provvidenziale» che consente all'uomo di vivere, nonostante gli sforzi «di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene».
Mattia Pascal affida alla scrittura la propria identità, illudendosi per un attimo e dimenticando la moderna sconsacrazione della letteratura, in grazia di una «distrazione» che costituisce un preciso riscontro testuale leopardiano inserito in un contesto interamente e chiaramente leopardiano, in cui appare decisivo il motivo copernicano che prefigura la teorizzazione poetica del saggio su L'umorismo.

Infatti nel saggio (
cap. 5 della seconda parte), Pirandello, richiamando esplicitamente Il Copernico di Leopardi, considererà umoristica la compresenza di due sentimenti opposti: quello della piccolezza dell'uomo che, dopo la rivoluzione copernicana, si scopre parte infinitesimale dell'universo; e quello opposto, ma paradossalmente inscindibile, della grandezza dell'uomo, basato però non più sulla sciocca superbia razionalistica ma sulla percezione di una compenetrazione all'infinito. Se la fonte prossima di questo atteggiamento umoristico era Leopardi, quella più lontana era Blaise Pascal.
Con
Il fu Mattia Pascal nasce il romanzo del Novecento. Le «storie di vermucci» che Mattia Pascal rifiuta di scrivere sono quelle, nei canoni ottocenteschi del realismo (e poi del naturalismo), di una narrazione fatta «per raccontare e non per provare», cui egli preferisce un romanzo filosofico, saggistico, il moderno romanzo umoristico. Da questo punto di vista è veramente emblematica la vicenda dell'incontro - proprio nella tipografia che stampava il romanzo - tra Pirandello e Verga, e della loro successiva, breve corrispondenza (non ancora ben indagata). Verga si vedeva superato da una nuova forma di romanzo in cui si «intuiva la presenza non più del personaggio che vive, anzi lotta per la vita, ma del personaggio che si sente vivere. L'evento indicherebbe una radicale trasformazione dell'ottica narrativa: quella che intercorre tra la deformazione "strabica" dell'umorista e la focalizzazione convergente del verista» (Nino Borsellino).
L'ambivalente duplicità dell'umorismo pirandelliano, qui già in atto, nella scrittura, in un misto di narrazione, riflessione e commento, si manifesta però, prima ancora, nell'atteggiamento di
«distrazione» che la rende possibile. La letteratura, per quanto sconsacrata e morta, rinasce e vive: essa - come l'uomo - può essere grande solo a patto di riconoscere la propria piccolezza (senza atteggiamenti da nuovi vati dannunziani); e la grande luce della sua piccola lampada può accendersi perché, leopardianamente e umoristicamente, a fianco della visione demistificante dell'arido vero, persiste, antinomicamente, l'illusione stessa.

Tre gli adattamenti cinematografici. Nel 1925 Feu Mathias Pascal (negli USA The living dead man), con la regia e la sceneggiatura di Marcel L'Herbier; interpreti Ivan Mousjuokine, Lois Moran, Pierre Batcheff. Nel 1937 L'homme de nulle part (in Italia Il fu Mattia Pascal, con la regia di Pierre Chenal; sceneggiatura di Pierre Chenal, Christian Stengel, Armand Salacrou; dialoghi di Roger Vitrac, con la revisione di Luigi Pirandello; interpreti Pierre Blanchard, Isa Miranda. Nel 1985 Le due vite di Mattia Pascal, con la regia di Mario Monicelli; sceneggiatura di Suso Cecchi d'Amico, Ennio De Concini, Amanzio Todini e Mario Monicelli; interpreti Marcello Mastroianni, Flavio Bucci, Laura Morante.
Una riduzione teatrale di Tullio Kezich fu messa in scena da Luigi Squarzina (1974) e Maurizio Scaparro (1986). Nel 1960 andò in onda una riduzione televisiva con la regia di Diego Fabbri.

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 Pirandello all'epoca del Fu Mattia Pascal, e copertina del romanzo


Il tema principale de Il fu Mattia Pascal è ancora quello, così caro a Pirandello, dell'identità.
Fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Così dice al protagonista il colto sacerdote don Eligio Pellegrinotto, lo stesso che lo consiglierà di scrivere le sue memorie.
E questo mi sembra il succo del libro o, per usare una brutta parola, il messaggio.
Chi non è riconosciuto dalla legge e dalle burocrazie, non esiste. E' il dramma delle società moderne.
La persona che noi rappresentiamo, non è solo una maschera che ci inchioda in un'esistenza che sentiamo inautentica, ingabbiandola, a volte, in un inferno senza vie d'uscita. E' ancora questa maschera che indossiamo nella vita sociale, l'unica che ci permette di dispiegare, pur con le dovute limitazioni, la nostra genuina personalità.
Le convenzioni sociali, storicamente determinate, sono le coordinate che delimitano la nostra esperienza vitale, pur creando un doloroso dissidio tra uomo e società.
Pirandello sembra qui anticipare motivi della psicologia del profondo, junghiana in particolare.
Il suo romanzo, inoltre, mi ha fatto pensare a certi terrificanti incubi burocratici del miglior Kafka.
Altri motivi del romanzo sono l'importanza del caso e dell'assurdità nel condizionare l'esistenza dell'individuo (è impossibile volere estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre) e la crisi dell'uomo che, dopo le teorie di Copernico, non è più al centro dell'universo (Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo... Storie di vermucci ormai, le nostre).
Certa critica contemporanea (De Rienzo, 1997), considera il Mattia Pascal, il primo romanzo esistenzialista italiano.
La narrazione è condotta in prima persona dal protagonista stesso e molte sono le digressioni che egli fa sulla tecnica da usare nella stesura delle sue memorie, così da poter parlare di metaromanzo (Cudini, 1999)
Mi è sembrato, che, al di là delle profondità filosofiche, il romanzo abbia un intreccio suggestivo, che avvince il lettore al libro, con momenti di pura suspense, come ad esempio quando Mattia Pascal fa il suo ritorno a casa.
Naturalmente non mancano l'ironia, la comicità e l'umorismo pirandelliani.
Dal punto di vita stilistico, trovo la scrittura di Pirandello piacevole e asciutta, lessicalmente ricca senza essere barocca, che, se da un lato non indulge a preziosismi letterari, dall'altro assume spesso il carattere del parlato, del colloquiale, del conversazionale, consentendo alla narrazione una fluidità ammirevole e innovativa.
Pur avendo l'opera di Pirandello un respiro internazionale, i suoi romanzi mi sembrano riflettere alcune caratteristiche nazionali, che ci permettono di capire meglio il Paese in cui viviamo.

     SCHEDA E TRAMA DEL FILM 

          L'homme de nulle part, 1937 
 
      ( Il fu Mattia Pascal )


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Dal romanzo omonimo di Luigi Pirandello. Mattia Pascal, uomo debole e sognatore, si sposa ad una giovane ed è tiranneggiato dalla madre di lei che, in breve tempo, riesce a rendergli ostile anche la moglie. Quando sua madre, ridotta in miseria per avergli fornito il capitale preteso dalla suocera per acconsentire alle nozze, muore di crepacuore, il Pascal si allontana all'improvviso con le poche centinaia di lire che la mamma gli ha lasciato. Capitato a Montecarlo vince in poche ore una grande fortuna. Ritorna allora al suo paese, ma viene a sapere che il cadavere di un vagabondo è stato scambiato per il suo ed è stato seppellito. Si allontana allora di nuovo, celandosi sotto il nome di Adriano Meis. A Roma, dopo una certa permanenza, ama riamato da una fanciulla, fidanzata di un losco figuro. Costui intuisce qualche segreto nel passato del giovane Meis e cerca di farlo sospettare anche dalla ragazza. Poiché la situazione del Pascal non gli consente di opporsi alle mene del malvagio, egli decide di ritornare in famiglia. Ma qui trova che sua moglie è risposata ed ha un bambino; e allora approfitta della minaccia rappresentata dal suo ritorno per chiedere al secondo marito di lei, impiegato allo Stato Civile del Municipio, di fabbricargli le carte di identità al nome di Adriano Meis. E con questa nuova personalità ritorna a Roma, sgomina il rivale e sposa la fanciulla.

FOTOGRAFIA: Joseph-Louis Mundwiller, Ugo Lombardi, André Bac
MONTAGGIO: Guy Simon
MUSICHE: Luigi Ferrari Trecate, Jacques Ibert
PRODUZIONE: ALA - COLOSSEUM FILM
DISTRIBUZIONE: COLOSSEUM FILM
PAESE: Francia, Italia 1937
GENERE: Drammatico
DURATA: 93 Min
FORMATO: B/N

SOGGETTO:  TRATTO DALLA PIECE TEATRALE OMONIMA DI LUIGI PIRANDELLO    

fonte "RdC - Cinematografo.it"


http://soleottobrino-onthebook.blogspot.com/search?updated-max=2011-03-12T15%3A08%3A00%2B01%3A00&max-results=5

 

 

 
 
 

I libri curano, nutrono, confortano

http://3.bp.blogspot.com/_l5qdsYUv6ws/TNlmZVGm_CI/AAAAAAAAAoo/yfDSoOdkjQA/s1600/Nati%2Bper%2Bleggere%2Bdef.jpg

Quante volte la lettura di un libro ci ha aiutato a superare un momento di difficoltà o, molto più semplicemente, ci ha aiutati a scivolare in un sonno piacevole; ci ha distratto con una risata, ci ha fatto riflettere su noi stessi attraverso un personaggio nel quale ci siamo rispecchiati? Cosa sia la libroterapia ce lo spiegherà Miro Silvera, autore del fortunato libro che s’intitola appunto Libroterapia. Un viaggio nel mondo infinito dei libri, perché i libri curano l'anima.


La libroterapia non cura i disturbi psichiatrici, anche minori, ma costituisce un prezioso strumento d’intervento per tutta quella “zona grigia” che va dalla crisi esistenziale o familiare alla normale tristezza o alle crisi delle “età di passaggio”, dallo smarrimento d’identità alla caduta di ruolo, situazioni che quasi mai richiedono di essere “medicalizzate”.
In un mondo che corre vertiginosamente e che ha fatto dello “scaricare da internet” una sorta di nuovo comandamento, la lettura, attraverso il contatto fisico con la pagina scritta, rappresenta un’ancora di salvezza, un momento di pausa e di riflessione, irrinunciabile per ascoltarsi, scoprire se stessi e prendersi cura del proprio sé.

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I libri danno benessere, e la biblioteca è la farmacia dell'anima. Per qualsiasi disturbo, carenza o bisogno, i libri curano, nutrono, confortano. Tenendo sempre teso il filo sottile dell'ironia, Miro Silvera accompagna i lettori tra gli scaffali e accanto ai comodini, gira attorno alle poltrone preferite e porge il cuscino giusto.
"Il vero luogo natìo è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su sé stessi. La mia prima patria sono stati i libri" afferma l'imperatore Adriano ricostruito dalla sottile penna della Yourcenar.
Libri come veicoli di libertà, occasioni di incontro, compagni di solitudine, immagine speculare di sè, o forse più semplicemente come rimedi al male di vivere, "il più imbarazzante di tutti i mali". 
Sembra infatti che la mera visione di libri eserciti un certo effetto terapeutico e forse c'è in questo qualcosa di vero se si considera che un pittore italiano, Armodio, ha fatto dei libri la sua principale musa ispiratrice. Libri quindi come lenitivi un po' a tutto tondo. Del resto, che le parole curino se ne è cominciato a fare esperienza diretta con la nascita della psicoanalisi.
Scrive Barry Lopez "a volte, per sopravvivere si ha bisogno, più ancora che di cibo, di una storia". Ma Silvera non si limita a prescrivere libri a seconda del malanno, ma va oltre, dedicando qualche paginetta anche ai luoghi dove praticare la libroterapia senza con questo giungere alla soluzione estrema adottata da Saba che scelse addirittura di vivere nella sua libreria. Forse perché anche solo sentirsi circondati dai libri può avere un effetto catartico e rassicurante. Questa la sensazione che si riceve nel vedere Astrid Lindgren all'interno del suo salotto di casa letteralmente sommersa da edizioni della sua eroina dalle trecce rosse o ancora Tiziano Terzani immortalato in uno scatto domestico mentre è sprofondato in una poltrona con alle spalle una parete di libri schierati, quasi in veste di numi tutelari. Se poi i libroterapeuti suggeriti da Silvera non dovessero rivelarsi all'altezza dei nostri malanni riprendendo sempre Lopez, caro apprendista lettore che alberghi in tanti di noi, mi verrebbe da suggerire "Se ti arrivano delle storie, abbine cura. E impara a regalarle dove ce n'è bisogno"

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“Leggere è vivere attraverso gli occhi di un altro. In questo modo si esce poco a poco fuori da sé, dimenticando i problemi e gli assilli mondani per calarsi in un altrove sovente straniero e sconosciuto. Che miracolosamente calma e guarisce”.

Miro Silvera

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Prendetela come una specie di terapia intensiva, una rehab sentimentale a base di letteratura. Per ripescare lui, se mai l’aveste perduto, o per ripartire con nuovi flirt. Secondo i neuroscienziati dell’università del Kentucky la fiction, allenando a immaginarsi diverse, sviluppa abilità cruciali dal punto di vista evoluzionistico (sintonizzarsi con gli altri, diventare più empatiche) e quindi ad affrontare meglio i love affair. Interessate a un percorso di uscita dal tunnel della disgrazia amorosa? Con l’aiuto dello psicosessuologo Alberto Caputo abbiamo fatto la top ten dei grandi classici, i romanzi indispensabili alla guarigione.

1. Per (s)fidanzate perenni - La macchia umana, di Philip Roth
Prescrizione per capire che l’amore vero spesso arriva quando si abbandonano pregiudizi e falsi miti. E ci si ritrova finalmente sullo stesso piano, senza più veli (come diceva anche Charlotte Brontë in Jane Eyre). Per riscoprire in due il valore della complicità.
2. Per quarantenni a corto di pathos - L’amante, di Marguerite Duras
Intriso di una sensualità forte, sconvolgente e cruda, è la prova che a ogni età è possibile riattivare l’onda e amare appassionatamente, con il corpo e con la mente. Magari sovvertendo le regole e scegliendo l’uomo che credevate il vostro opposto.
3. Per traditrici seriali - Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marías
Ecco l’occasione per (ri)scoprire che l’inganno fa parte del gioco sempre ambiguo dell’amore. Anche senza volerlo, a volte senza saperlo, presto o tardi tutti in qualche modo lo infliggiamo o lo subiamo. Un invito a perdonare (e a perdonarsi).
4. Per quelle che non c’è limite all’attesa - Il museo dell’innocenza, di Orhan Pamuk
Sintomi: un fidanzato fedifrago, appassionato ma allergico a scelte e responsabilità. Rimedio: come Fusün, protagonista del romanzo del Nobel, dimostrare al partner che la vostra pazienza non è eterna e il vostro amore ha un prezzo. Risultato: sottrarlo all’altra ed evitargli di rimpiangere voi per tutta la vita.
5. Per martiri della coppia - Tutta un’altra musica, di Nick Hornby
Avviso alle vittime del mito dell’amore a ogni costo. L’errore è credere di non poter cambiare e non voler vedere quando la coppia scoppia. Tarpando le ali all’anima. Rimedio: tornare se stesse, seguendo la melodia della libertà ritrovata.
6. Per eterne seconde (ma ancora per poco) - Rebecca la prima moglie, di Daphne du Maurier
Dedicato a tutte quelle che sentono aleggiare il fantasma delle sue ex, ma vogliono far piazza pulita del passato. Perché ormai hanno capito: è amarsi il miglior modo per farsi riamare.
7. Per innamorate deluse - Le parole che non ti ho detto, di Nicholas Sparks
Anche le grandi storie a volte finiscono. Tra incomprensioni, dubbi e mezze verità. Morale? Quello che sembra il blando e immeritato epilogo di una folle infatuazione forse è molto di più:l’ultimo round di un incontro che ci ha evitato noia e banalità.
8. Per geishe dei fornelli - Dolce come il cioccolato, di Laura Esquivel
Come cucinare quaglie ai petali di rosa (spolpando il bouquet offerto da lui) e scoprire che la seduzione è un gioco sottile che passa (anche) attraverso il cibo. Una storia per imparare a tessere la tela della malia amorosa senza temere rivali.
9. Per chi non vuole ballare da sola - Dance, Dance, Dance di Haruki Murakami
Un disastro (sentimentale) vi risucchia l’energia. Terapia d’urto: riconnettersi al mondo e ricominciare a danzare. Ma sempre sull’onda delle proprie good vibrations. Murakami docet.
10. Per bulimiche affettive - Follia, di Patrick McGrath
Ok scegliere l’impossibile senza risparmiarsi né risparmiare nulla. Ma quando il flusso dei sentimenti diventa anarchia emotiva, è l’ora di uno stop. Perché il rischio, a non dire mai no, è di farsi manipolare. Misura d’urgenza: un romanzo per ripensarci.

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Sogno o son desto?

Post n°262 pubblicato il 10 Aprile 2011 da carlotta735
 

 

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I sogni ad occhi aperti migliorano la vita


Lasciatevi andare alle fantasie. Gli psicologi assicurano che sono utili. Perche' allentano le tensioni, scaricano l' aggressivita' e aumentano la capacita' di risolvere problemi, suggerendo soluzioni alternative

Fantasie e sogni ad occhi aperti non sono fatti trascurabili e privi di senso; anzi, possono rivelarsi il fondamento della serenita' e la ragione della vita. Con la fantasia superiamo i limiti della realta' e del controllo cosciente, lasciando che il pensiero vaghi libero. Molte volte, questo processo sorge da insoddisfazioni della vita quotidiana e dal bisogno di cambiare le cose, sia pure a un livello immaginativo; in altre parole, la fantasia serve da valvola di scarico, difendendoci con una specie di evasione. Tutti facciamo sogni a occhi aperti. E un fatto normale. Il fenomeno si verifica di piu' negli adulti giovani (dai 15 ai 30 anni), poco prima di addormentarsi e nei momenti di solutidine o di riposo, quando non si ha niente di preciso da fare: sono gli attimi in cui siamo "imbambolati" a guardare il soffitto o fuori dal finestrino dell' autobus. Impulsi proibiti. Un genere molto diffuso di sogni a occhi aperti riguarda cose che, nella vita reale, sono difficilmente raggiungibili: una grossa vincita al totocalcio, la conquista amorosa della diva (o del divo) del cuore, il potere. Ancora, con la fantasticheria si ha l' alleggerimento, sia pure parziale e intimo, di impulsi considerati socialmente inaccettabili come quelli aggressivi e sessuali: ecco, allora, che possiamo trascorrere qualche istante immaginando di essere una specie di Superman distruggitore di cattivi o un califfo da Mille e una notte circondato da una schiera di meravigliose odalische. Si e' parlato di valvola di scarico: in realta' , dedicandoci a questa operazione mentale alleggeriamo le tensioni interne e riusciamo, in seguito, a mantenere piu' a lungo l' attenzione e la concentrazione, ritardando la noia e la stanchezza; siamo inoltre piu' rilassati, piu' indipendenti e meno portati ad avere disturbi del comportamento. Immaginazione positiva. La capacita' di fantasticare consente di mettere alla prova, sia pure mentalmente, la risoluzione dei problemi, risparmiandoci tentativi ed errori e perdite di tempo. Possiamo fare progetti e prevederne le conseguenze. In breve, il vivere con la fantasia nel passato e nel futuro ci libera, fino a un certo punto, dalle influenze del presente.

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Di contro, alcune ricerche provano che le persone incapaci di fantasticare possono dedicarsi a eccessi alimentari, all' alcol, alla droga e ad atti di violenza; in fin dei conti, come aveva gia' sostenuto Freud, chi scarica gli impulsi aggressivi con la fantasia e' difficile che si comporti aggressivamente. Per esempio, George G. Spivack, della Devereux School in Pennsylvania (USA), ha studiato un gruppo di adolescenti con comportamento antisociale sottoponendoli a un test, una specie di gioco, in cui essi dovevano completare storie; i risultati dimostrano che questi soggetti terminavano il compito in quattro e quattr' otto, senza dare alcuno spazio alla fantasia e mostrando di avere un' immaginazione poverissima. " Il mondo interiore di quei ragazzi - commenta Spivack - " sembra un luogo alquanto deserto ". I sogni a occhi aperti, sono non solo innocui, ma utili. E certo che non bisogna esagerare; altrimenti significherebbe ritirarsi dal mondo della realta' per vivere in uno stato di isolamento e di inerzia. 

*Cattedra di Psicologia Medica Universita' di Bologna

Farne' Mario

(29 maggio 1995) - Corriere della Sera

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Sognare ad occhi aperti è un modo che noi abbiamo per estraniarci dalla realtà, a volte si pensa a qualcosa e ci ritroviamo a fantasticarci su per un pò di tempo e anche più volte… a scuola quante volte vi sarà capitato mentre la prof traduceva le versioni di latino, voi staccavate l’audio e vi tuffavate nel vostro mondo! A me succedeva spesso soprattutto con il latino, la storia e la filosofia!
Ma secondo una ricerca canadese sognare ad occhi aperti non è un modo per distrarsi e basta, è anche un meccanismo che la nostra mente adotta per risolvere i problemi più importanti. Il cervello si rilassa e anche se noi non lo sappiamo, lavora per aiutarci a capire e a risolvere cose molto complesse.
Kalina Christoff, una ricercatrice della University of British Columbia in Canada ha condotto una ricerca proprio per capire nel nostro cervello quando sognamo ad occhi aperti, ha usato la risonanza magnetica funzionale per monitorare la mente di alcuni volontari ed è stato dimostrato che nei momenti in cui fantastichiamo e sognamo una vita parallela, la nostra mente è in piena attività
Fino ad ora si pensava che il fantasticare occupasse un terzo delle nostre giornate e che fosse una perdita di tempo, ora si è capito che non è così, che anche quando ci estraniamo dalla vita reale, la nostra mente lavora proprio per lei. Il sognare ad occhi aperti ha anche delle aree del cervello a cui è associata questa attività, sono i cosiddetti circuiti di default, che sono quelle che controllano le attività mentali di routine. 
Kalina Christoff ha dichiarato: Quando si sogna ad occhi aperti non è possibile concentrarsi e portare a termine un compito immediato come leggere un libro o stare attenti in classe ma è possibile che la nostra mente stia prendendo tempo per mettere a fuoco problemi importanti, ad esempio questioni che riguardano la carriera o i rapporti sociali .

La possibilità di sognare ad occhi aperti è concessa a tutti noi ed è ancora gratuita, forse perché non ha prezzo; ad essa si può attingere liberamente ed in qualsiasi momento ci piaccia, senza chiedere permesso, senza fare anticamera, senza aspettare l’orario migliore e soprattutto - una volta fatto fuori quell’insopportabile Super- Io, capace di rovinare ogni cosa - senza provare insostenibili sensi di colpa.
Il sogno ci mette a contatto con la parte di noi non ancora pienamente espressa e con situazioni fantasiose e poco realistiche, ma non per forza impossibili, generalmente, comunque, ben diverse da quelle a cui la quotidianità – rassicurante ma di solito piuttosto noiosa - spesso ci obbliga nostro malgrado.
Esso esercita su di noi fascino ed attrazione perché al suo interno senza pareti siamo veramente e totalmente liberi di prendere iniziative, di sperimentare atteggiamenti e comportamenti diversi dai soliti e magari di riuscire anche – con insolita disinvoltura - a fare colpo, lasciare di stucco, destare ammirazione e, alla fin fine, a riscattare la nostra immagine ai nostri occhi ed agli occhi degli altri.
Il sogno ad occhi aperti può dunque aiutarci a “fare pratica”, a rinforzare noi stessi e la nostra identità, a scoprire nuove sfaccettature che ci appartengono e, soprattutto, a metterci profondamente a contatto con ciò che vorremmo essere e realizzare.

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Se la ricchezza immaginativa riesce a collegarsi con la realtà in cui viviamo e siamo, ed a tradursi in concretezza, la nostra vita diventa luogo e tempo di continuo arricchimento ed evoluzione e la nostra personalità ha una possibilità in più di costruirsi in maniera completa ed armoniosa, fresca, sempre nuova e, allo stesso tempo, dotata di una mobile stabilità, che non è né formalismo, né immobilismo.
Il rifugio nella dimensione immaginativa è tuttavia anche spesso dettato dall’esigenza di evadere dalle situazioni difficili, frustranti o, semplicemente, non gratificanti della vita di tutti i giorni, all’interno della quale, ci piaccia o meno, dobbiamo affrontare prima di tutto noi stessi, le nostre carenze e inadeguatezze, fare i conti con l’immagine che gli altri hanno di noi ed inserirci in un andamento quotidiano non sempre sentito e voluto.
La fuga nel sogno diventa allora, in molti casi, l’unica valvola di salvezza della persona, ma l’eccessiva permanenza nel mondo della fantasia, in cui il Sé reale lascia gradualmente posto al Sé ideale, causa un rientro sempre più difficile nella dimensione concreta ed una sensazione costante di estraneità e di solitudine. 

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Quando l' immaginazione confonde la realtà...The Secret Life of Walter Mitty (1947)

Post n°261 pubblicato il 09 Aprile 2011 da carlotta735
 

   Sognare ad occhi aperti...

The Secret Life of Walter Mitty

(Sogni Proibiti)

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FOTOGRAFIA: Lee Garmes
MONTAGGIO: Monica Collingwood
MUSICHE: David Raksin
PRODUZIONE: SAMUEL GOLDWYN COMPANY
DISTRIBUZIONE: LUX
PAESE: USA 1947
GENERE: Commedia
DURATA: 110 Min
FORMATO: Colore 35 MM (1:1.37) - TECHNICOLOR

fonte "RdC - Cinematografo.it"

 

 
The Secret Life of Walter Mitty, di Norman Z. McLeod. Racconto di James Thurber, Sceneggiatura di Ken Englund, Everett Freeman, Philip Rapp Con Danny Kaye, Virginia Mayo, Boris Karloff, Fay Bainter, Ann Rutheford, Thurston Hall, Gordon Jones, Florence Bates Musica: David Raskin Fotografia: Lee Games (110 minuti) Rating IMDb: 7.2


Sogni...Anche il cinema ha dedicato ampi spazi all’argomento, sia nei contenuti (ricordo qui di sfuggita L’impiegato, Sogni di Kurosawa al Sogni d’oro di Nanni Moretti. Ma con qualche riflessione se ne potrebbero citare decine...
Come è noto, sogno ha almeno due significati: può riguardare speranza o illusione, oppure, inteso come manifestazione dell’inconscio durante il sonno, viene utilizzato nello studio dell’analisi della psiche. Ancora, si definiscono sogni... ad occhi aperti le creazioni di situazioni immaginarie, normalmente sviluppate per gratificare il proprio io; sono tipiche manifestazioni dell’infanzia (alzi la mano chi non si è mai immedesimato in un eroe o in un’eroina del suo tempo, un avventuriero alla Sandokan o un cow boy del West o un grande calciatore) probabilmente utili per sviluppare la fantasia e per individuare modelli ideali di riferimento. Quando però i sogni ad occhi aperti si fanno da adulti, beh, allora sono fughe dalla realtà che si presenta scomoda, indici di debolezza umana, e ci avviciniamo pericolosamente alla patologia.
E’ quello che succede a Walter Mitty (Danny Kaye) in Sogni proibiti. Walter è un giovane correttore di bozze che evade in avventurosi sogni da una vita dominata da una madre autoritaria (Ann Rutherford, grande caratterista inglese) e da un principale insopportabile (Boris Karloff, non ancora Frankestein!). Nell’ufficio dove lavora, inoltre, c’è anche la bellona e irraggiungibile Virginia Mayo, di cui è inevitabilmente innamorato ma che non lo degna di attenzione, ulteriore causa di depressione. Bistrattato da tutti, Walter ha ormai ripudiato la vita reale, ricca soltanto di difficoltà, di sgradevoli compagnie e di mortificazione, in cambio della vita che sa offrirsi con l’immaginazione, momento per momento. In funzione degli spunti che gli offrono le circostanze immaginerà d’incarnarsi di volta in volta nel grande chirurgo, nell’eroico aviatore, nel coraggioso cow-boy e in altri classici archetipi di Hollywood.


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Walter infatti è un assiduo frequentatore delle sale cinematografiche e non può immaginarsi la vita se non negli scenari che ogni sera il cinema gli suggerisce. Così non ha altro conforto che di vedersi vivere, però sotto altre spoglie e in ben altre circostanze che non siano quelle della sua mediocre esistenza. Soltanto in sogno si concede la forza, l’intelligenza, la bellezza e l’audacia che pure sa di possedere.
Intendiamoci, Sogni proibiti è un film comico. E’ stato girato negli Usa nel 1947, a due anni dalla fine della guerra, quando l’America aveva bisogno di allegria e di messaggi positivi. Il film infatti ha un lieto fine, quando si presenterà a Walter una situazione reale di pericolo che riuscirà a risolvere brillantemente, conquistando così la stima e la considerazione di tutti e in particolare l’amore della bellona. E Danny Kaye è un grande attore, un comico che-mi-faceva-ridere. Ma riconsiderando la vicenda sessant’anni dopo, ha più i connotati del dramma (anche se nel dramma ci sono i lati comici). Per questo considero pericolose quelle realtà virtuali che pare sia possibile creare nel mondo di Internet secondo i propri desideri e le proprie preferenze, senza vincolo alcuno. La mente continuerà a saper discernere tra mondo reale e mondo virtuale?
Però, come rifiutare una vita di cui si può regolare il corso? 
                     
     
"...Walter Mitty non può immaginarsi la vita se non negli scenari che gli suggerisce ogni sera il Cinema: perché Walter Mitty è il vero uomo nuovo del secolo, la dolce vittima del Cinema, e tutta la sua immaginazione è incatenata ai modelli eroici che ormai lo schermo ha proposto all’umanità. 
...Walter Mitty non si lascia incantare da questa pavida filosofia. Egli sa che è prudente sognare, e perciò ama, odia, agisce, parla, tace soltanto in sogno. Quanto alla vita quotidiana, quella di tutti, egli la trascorre in un isolamento implacabile, mal tollerato da un prossimo che, dopotutto, non s’accorge della sua presenza se non per metterla in dubbio o per rifiutare il suo amore."      


Ennio Flaiano, in un articolo per "Il mondo", 
  del 9 aprile 1949  


http://soleottobrino-onthebook.blogspot.com/2011/03/sognare-ad-occhi-apertithe-secret-life_06.html

 

 
 
 

Imparare ad essere se stessi...


Può succedere che un complessato venditore di pubblicazioni a domicilio venga scambiato per un consumato uomo di mondo? Un classico del cinema comico italiano :

" BOROTALCO " 1981

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Nazione: Italia
Durata: 127 minuti
Interpreti: Carlo Verdone, Eleonora Giorgi, Angelo Infanti,
Christian De Sica, Roberta Manfredi, Mario Brega, Enrico Papa, Isa Gallinelli
Soggetto: Carlo Verdone, Enrico Oldoini
Sceneggiatura: Carlo Verdone, Enrico Oldoini
Musiche: Lucio Dalla, Fabio Liberatori
Fotografia: Ennio Guarnieri
Montaggio: Antonio Siciliano
Scenografia: Andrea Crisanti
Costumi: Luca Sabatelli

Classico giro di boa nella carriera di Carlo Verdone, Borotalco, sua terza regia, rappresenta il distacco dal fregoliano macchiettismo degli esordi (Un sacco bello; Bianco, rosso e Verdone), per dar vita, cosceneggiatore con Enrico Oldoini, al suo primo film “completo”. Mettendosi un po’ da parte come attore, emergono ora le sue indubbie doti registiche, dando anche il giusto rilievo, oltre alla coprotagonista Eleonora Giorgi,  a quelli che in apparenza sono dei personaggi minori ma che nella loro complessità assumono rilevanza nella storia a tal punto da divenire parte dell’immaginario collettivo: dall’aspirante ballerino Christian De Sica, a Roberta Manfredi ritratto delle più elementari aspirazioni borghesi, passando per il truce padre di lei, lo straordinario Mario Brega e finendo con Angelo Infanti, “uomo di mondo” dalla vita omerica, almeno a parole (“un bel giorno mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana…”). Sergio (Verdone), ragazzo romano timido ed imbranato, divide una stanza in un convitto con l’amico Marcello (De Sica), in attesa di sposarsi con la fidanzata Rossella (Manfredi), che lo stressa per il lavoro che si è scelto, venditore porta a porta di enciclopedie musicali, quando il padre di lei (Brega) lo vorrebbe impiegato nel suo negozio di alimentari appena rimesso a nuovo; per la stessa ditta lavora Nadia (Giorgi), fan sfegatata di Lucio Dalla ( non lo vediamo mai, ma è comunque un protagonista del film, tra canzoni e presenza “virtuale”), una ragazza sognatrice, ma con i piedi ben saldi per terra, ai primi posti nelle vendite, grazie alla sua intraprendenza. I due si incontreranno causa un comune appuntamento presso tale Manuel Fantoni (Infanti), dal quale Sergio resterà tanto affascinato da prenderne le sembianze di fronte a Nadia, una volta che il sedicente viveur viene prelevato dai Carabinieri, dando vita ad una serie di equivoci tragicomici, sino ad un sorprendente finale. Importazione nella Roma anni ’80 della classica screwball di scuola americana, con richiami anche a certe commedie di Mario Camerini, il film, pur con qualche intoppo qua e là, si presenta sciolto, compatto, ben realizzato, tutto giocato sull’iniziale contrapposizione tra i due protagonisti che diviene man mano esaustiva complicità nell’escogitare ogni tipo di espediente per poter continuare a sognare e fuggire così, grazie alla vivida forza dell’immaginazione, da quella ordinarietà borghese elevata a stile e modello di vita. Pur sdoppiandosi in Fantoni, Verdone evita virtuosismi e narcisismi, dando vita ad un personaggio a tutto tondo, “prototipo dell’homus verdonianus” (Antonio D’Olivo), simpatico, dolcemente timido, Candido moderno che affronta il mondo e le varie vicissitudini della vita con sguardo sognante, tra nevrosi e disincanto, trovando il suo contraltare nella lunaticità ed inafferrabilità dell’universo femminile: un soffio di borotalco sui disagi esistenziali, simbolo di quel minimo di teatralità che la vita spesso richiede per affrontare il quotidiano e poter andare avanti, senza superare il labile limite tra sogno e realtà, ma lambendo le sponde di entrambi.


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Carlo Verdone di Antonio D'Olivo

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Come è mutato il suo modo di fare cinema dai tempi di Un sacco bello?

 

È molto cambiato. Come prima cosa direi che il virtuosismo si è molto moderato. I primi due film, Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone, sono curiosi, originali, non tanto per la struttura della storia, in realtà piuttosto semplice, ma per il fatto che un solo attore interpreta più personaggi. Questa scelta li rende originali, oltre naturalmente al modo in cui li faccio agire e parlare. Borotalco segna la svolta: con il personaggio di Sergio Benvenuti abbandono il virtuosismo per tentare la strada del personaggio unico, pur sdoppiandomi con l'imitazione di Manuel Fantoni. È stata una verifica: se il pubblico non lo avesse accettato non avrei mai potuto decollare come attore e regista su una storia e un personaggio unico. Sarei rimasto un virtuoso. Borotalco dunque è stato il film più importante della mia carriera. Poi, con il passare del tempo, il mio modo di fare cinema è cambiato anche grazie all'esperienza, che mi ha portato a essere più sicuro, più ponderato: si affina "l'arte di nascondere l'arte" e si diventa più abili, più tranquilli. Anche i tempi si riescono a gestire meglio, riducendo quelle "sbrodolature" che riscontro in alcuni dei miei primi film (nonostante ciò in Un sacco bello ci sono di performance che ancora oggi trovo di una rapidità di esecuzione incredibile!). Dai tempi di Borotalco, poi, ho approfondito l'analisi della sceneggiatura, e dedico un'attenzione maggiore anche a qualche movimento di macchina. Io mi ritengo sempre un tradizionalista nel muovere la macchina da presa, eppure sia in Ma che colpa abbiamo noi che in L'amore è eterno finché dura sono riuscito finalmente a usare un po' di steady-cam. Certo, non è facile fare l'attore e il regista insieme!


Comunque considera sempre Borotalco il suo miglior film?

 

Non il migliore, ma sicuramente tra i migliori che ho fatto. A livello di scrittura è un film molto brioso, molto brillante, una commedia piena di equivoci scritta molto, molto bene. Con Enrico Oldoini lavorammo la bellezza di un anno al soggetto e alla sceneggiatura, ne buttammo quattro prima di arrivare a Borotalco. Quel film era essenziale per la mia sopravvivenza: non lo dovevo sbagliare. Anzi, dovevo creare qualcosa di nuovo. Credo che Borotalco, insieme a Maledetto il giorno che t'ho incontrato e Compagni di scuola, sia uno dei miei film migliori, ma c'è anche Al lupo, al lupo che a me piace molto... comunque ogni spettatore ha il suo film del cuore. Certamente questi tre li metto tra i miei preferiti.

 

Con il protagonista di Borotalco viene messo a punto un personaggio che e un po' considerato "l'homus verdonianus". Simpatico, dolce, malinconico, un po'a disagio con il mondo, alle volte fragile, delicatamente nevrotico. Tutto il contrario degli smargiassi di Sordi, Tognazzi, Gassman, mostruosi e cinici.

Borotalco nasce subito dopo l'esperienza del grande movimento femminista che aveva messo completamente in crisi il maschio, quel maschio che era già in difficoltà e in crisi di solitudine nel mio primo film Un sacco bello e poi, in modo diverso, in Bianco, rosso e Verdone, in cui se ne coglievano tic e difetti. Avevamo sempre visto sul grande schermo personaggi che tradivano, che facevano, diciamo cosi, "i galli cedroni". I miei personaggi maschili sono invece sempre stati in qualche modo degli sconfitti che avevano perso ogni punto di riferimento. In Borotalco c'è già, in nuce, tutto quello che sarebbe stato il mio cinema. Poi alcuni film sono diventati più poetici, come Al lupo, al lupo, altri più raffinati, come Maledetto il giorno che t'ho incontrato, ma in Borotalco si può trovare l'anima verdoniana al cento per cento: le timidezze, le fragilità, i momenti di poesia e, anche, l'immancabile finale melanconico.

 
Sempre con Borotalco nasce anche una sorta di struttura narrativa basata sul contrasto, la contrapposizione tra due personaggi di carattere opposto.
 

Sì, una contrapposizione che sarà poi il denominatore comune di tante mie pellicole, perché io ho sempre vissuto sui contrasti, soprattutto tra me e la donna, vedi Acqua e sapone, Io e mia sorella, Stasera a casa di Alice, Maledetto il giorno che t'ho incontrato e Al lupo, al lupo. C'è sempre il contrasto, c'è sempre una donna che mette nei guai il personaggio maschile. In Maledetto il giorno che t'ho incontrato nei guai non mi ci mette tanto la Buy, quanto Elisabetta Pozzi, la donna che mi lascia all'inizio del film. Poi anche la Buy ci mette del suo, soprattutto alla fine del film! La contrapposizione nasce dall'incontro tra un carattere maschile fragile e un carattere spesso lunatico, inafferrabile come quello dell'universo femminile.

© 2008, Editrice Il Castoro
Antonio D’Olivo – Carlo Verdone
134 pag., 11,90 € – Edizioni Il Castoro 2008 (Il castoro cinema)
ISBN 978-88-80-33424-8

L'autore


Antonio D’Olivo (Udine, 1959) ha lavorato per i settimanali «Panorama» e «Epoca». E’ stato giornalista parlamentare per il quotidiano «Brescia Oggi» e per il Gruppo Class Editore. Dal 1990 lavora al Giornale Radio Rai di cui è critico cinematografico e inviato. Dal 1997 al 2007 è stato uno di conduttori del contenitore culturale di Radio 1 “Il baco del millennio”, trasmissione ideata da Piero Dorfles.
 



Citazioni dal film



Sergio (Carlo Verdone) venditore di enciclopedie porta a porta, ha appena assistito all’arresto del sedicento architetto Manuel Fantoni (Angelo Infanti), nel frattempo alla porta suona Nadia (Eleonora Giorgi) che lo scambia per il padrone di casa e notando le foto con dedica di attori  famosi sparse sulla mobilia si incuriosisce:
Nadia: Buurt Lancaster? nooo!
Sergio: ah! si Burt….
Nadia: ma com’è, che tipo è?
Sergio (scuotendo la testa): alcolizzato totale poveraccio…
Nadia (stupita): Nooo!
Sergio: l’altra sera m’ha combinato un macello sulla moquette, m’ha vomitato  e l’ho dovuto prendere e cacciare via, non cè niente da fare, certa gente non si deve più invitare a casa…
Ormai completante immerso nel suo personaggio Sergio decide di strafare e per far colpo su Nadia parte con una spassoso resosconto sulla sua gioventù:
Sergio: …anch’io da ragazzo non ero nessuno, conducevo una vita assurda, squallida, ho fatto di tutto, ho rubato, mi sono drogato, sono andato con le donne…gli uomini, insomma ho cercato di fare ogni tipo d’esperienza, perchè secondo me la vita va proprio vissuta proprio in maniera totale, globale, non so se mi intendi..un giorno a Bombay ti incontro un ragazza mezza cinese, mezza giapponese, insomma di quelle parti là, una gran bella ragazza….
Il racconto si fa sempre più interessante e fasullo, aumentano i particolari inventati al momento, sino al culmine in cui in stile telenovela Sergio racconta lo struggente finale…
Sergio (visibilmente commosso): …e da quel giorno non la vidi più, di lei mi rimase soltanto…un kimono!


http://soleottobrino-onthebook.blogspot.com/2011/03/puo-succedere-che-un-complessato.html


 
 
 

" Io non voglio essere qualcosa che non sono: non mi piaceva essere qualcun altro "

Post n°259 pubblicato il 05 Aprile 2011 da carlotta735
 


Le Folli Notti del Dottor Jerryll

(The Nutty Professor)

http://wiki.the-frame.com/images/thumb/6/6e/NuttyProfessor%281963%29-poster.jpg/250px-NuttyProfessor%281963%29-poster.jpg

Le folli notti del dottor Jerryll
Titolo originaleThe Nutty Professor
PaeseStati Uniti d'America
Anno1963
Durata107 min.
Colorecolore
Audiosonoro
Generecommedia
RegiaJerry Lewis
SoggettoJerry Lewis, Bill Richmond
SceneggiaturaJerry Lewis, Bill Richmond
ProduttoreErnest D. Glucksman
Interpreti e personaggi
Doppiatori italiani

Film del: 1963     Genere: Commedia
Durata: 107 minuti   


Dal discorso finale dello scienziato Jerry Lewis, ridiventato timido e bruttino

" Per imparare una lezione dalla vita non è mai troppo tardi. E io credo che la lezione che ho avuto sia stata salutare. Io non voglio essere qualcosa che non sono: non mi piaceva essere qualcun altro. E nello stesso tempo sono contento di esserlo stato perché ho scoperto una cosa di cui non mi ero reso conto: è meglio andar d'accordo con se stessi. Pensate a tutto il tempo che uno deve passare con se stesso. Beh... se non si ha stima di noi stessi, come si può pretendere che ce l'abbiano gli altri? Ecco quel che ho scoperto. "

http://2.bp.blogspot.com/_2kEhPR83YdE/TN0BUpQh6GI/AAAAAAAAEkE/vZcZg5_DLpU/s1600/jerry_lewis_the_nutty_professor_1963.jpg

Trama:

Julius F. Kelp professore di scienze che viene spesso ridicolizzato dai suoi stessi allievi, è follemente innamorato della sua allieva più bella. Per conquistarla decide di ricorrere alla chimica ma non tutto andrà per il verso giusto.

Julius F. Kelp professore di scienze che viene spesso ridicolizzato dai suoi stessi allievi, è follemente innamorato della sua allieva più bella. Per conquistarla decide di ricorrere alla chimica, inventa una pozione la chiama Kelp-Tonic e decide di sperimentarla su sè stesso. Ottiene come effetto, di diventare per un tempo limitato, Buddy Love un personaggio tanto affascinante quanto odioso. Stella ovviamente si innamora di lui. Il gioco dura fino a quando, per un errore di dosaggio, Buddy Love ridiventa il professor Kelp su un palcoscenico, davanti ai suoi studenti ed è costretto a rivelare il trucco.

http://img168.imageshack.us/img168/8494/jekkil9uw3.png 

Recensione del film: Le Folli Notti del Dottor Jerryll

E’ evidente come il Cinema di Jerry Lewis sia un Cinema che analizza il Doppio in qualsiasi sua forma, ed è quindi normale che nel suo percorso artistico non potesse mancare il riferimento al famoso romanzo di Stevenson sfruttato già ampiamente nella storia del Cinema.
Se in Ragazzo Tuttofare, il suo primo film da regista, era lampante l’omaggio al cinema che Jerry Lewis ha amato (ad esempio quello di Stanlio & Ollio) è pur vero che la struttura del racconto era ancora abbastanza elementare, essendo il film una serie infinita di gag senza un nesso logico. Ne L’idolo delle donne e ne Il mattatore di Hollywood, i due film prima di quest’ultimo capolavoro, si continuava ad insistere sulla decostruzione del cinema in quanto cinema: tutto deve essere rivelato come spettacolo che, paradossalmente, assume una valenza più reale della realtà stessa. Ne Le folli notti del dottor Jerryll tutto ciò viene moltiplicato all’ennesima potenza. Lo sdoppiamento del cinema dal cinema è lo sdoppiamento del personaggio stesso. 



Molto liberamente tratto dal racconto di Stevenson, il film propone una sorta di dottor Jekyll (il professor Kelp), che scopre una pozione che può renderlo bello ed affascinante. Ma questo novello Mr. Hyde (Buddy Love) non può avere vita facile a lungo andare. Lewis estrae un partner da lui stesso. Dove prima c’era il caro amico Dean Martin ora è rimasto un vuoto, e questo vuoto non può essere colmato che da Jerry (sarà così per tutto il Cinema di questo grande autore). Ed è per questo che il Nostro è sia il professore che la “creatura”, tra l’altro plasmata sulla stessa figura del vecchio partner (affascinante crooner corteggiato da tutte le donne).
Eppure non pensate che il suo Cinema sia un Cinema parodico, perché Lewis si allontana dalla parodia per svelare la struttura stessa del Cinema e non di un unico racconto. I primi tre film di questo autore erano film sul Cinema come svelamento di realtà altre (anche del Cinema stesso). Qui lo svelamento è addirittura rappresentato nel suo svelarsi. Buddy Love ridiventa Kelp davanti ad un pubblico (quello dentro il film) che rappresenta noi stessi come pubblico (quello fuori del film). Lo so che è difficile raccapezzarsi, ma il fatto è che in questo film siamo davanti a molteplici livelli di lettura che rendono il tutto più complesso di quanto sembri (anche i finali, se guardiamo bene, sono almeno quattro!). 


Jerry Lewis ha scardinato le basi del cinema comico. Il personaggio di Kelp assume coscienza (contrariamente ai personaggi precedenti di Jerry Lewis) di essere un disadattato, e si muove per far sì che le cose cambino. Il personaggio goffo e inconsapevole dei film precedenti lascia il palcoscenico ad un personaggio consapevole e per questo altamente drammatico. La gag può essere letta come gag pura (senza sottointesi) o come qualcosa che va oltre. Ma la cosa eccezionale è che tutti e due questi piani di lettura sono legittimi e necessari.
Se dopo tutto questo molti ancora pensano che Jerry Lewis sia soltanto il picchiatello che faceva le smorfie dietro a quel cantante americano che cantava “That’s Amore”, allora è giunto il momento di andare a guardare dietro le apparenze per scoprire che a volte il Comico è molto più di quello che vuol far sembrare di essere. Che strana la vita!

(Renato Massaccesi)

IPB Image

Molto liberamente tratto dal racconto di Stevenson, il film propone una sorta di dottor Jekyll (il professor Kelp), che scopre una pozione che può renderlo bello ed affascinante. Ma questo novello Mr. Hyde (Buddy Love) non può avere vita facile a lungo andare. Lewis estrae un partner da lui stesso. Dove prima c’era il caro amico Dean Martin ora è rimasto un vuoto, e questo vuoto non può essere colmato che da Jerry (sarà così per tutto il Cinema di questo grande autore). Ed è per questo che il Nostro è sia il professore che la “creatura”, tra l’altro plasmata sulla stessa figura del vecchio partner (affascinante crooner corteggiato da tutte le donne).



Eppure non pensate che il suo Cinema sia un Cinema parodico, perché Lewis si allontana dalla parodia per svelare la struttura stessa del Cinema e non di un unico racconto. I primi tre film di questo autore erano film sul Cinema come svelamento di realtà altre (anche del Cinema stesso). Qui lo svelamento è addirittura rappresentato nel suo svelarsi. Buddy Love ridiventa Kelp davanti ad un pubblico (quello dentro il film) che rappresenta noi stessi come pubblico (quello fuori del film). Lo so che è difficile raccapezzarsi, ma il fatto è che in questo film siamo davanti a molteplici livelli di lettura che rendono il tutto più complesso di quanto sembri (anche i finali, se guardiamo bene, sono almeno quattro!).
Jerry Lewis ha scardinato le basi del cinema comico. Il personaggio di Kelp assume coscienza (contrariamente ai personaggi precedenti di Jerry Lewis) di essere un disadattato, e si muove per far sì che le cose cambino. Il personaggio goffo e inconsapevole dei film precedenti lascia il palcoscenico ad un personaggio consapevole e per questo altamente drammatico. La gag può essere letta come gag pura (senza sottointesi) o come qualcosa che va oltre. Ma la cosa eccezionale è che tutti e due questi piani di lettura sono legittimi e necessari.
Se dopo tutto questo molti ancora pensano che Jerry Lewis sia soltanto il picchiatello che faceva le smorfie dietro a quel cantante americano che cantava “That’s Amore”, allora è giunto il momento di andare a guardare dietro le apparenze per scoprire che a volte il Comico è molto più di quello che vuol far sembrare di essere. Che strana la vita!

 

http://soleottobrino-onthebook.blogspot.com/2011/03/io-non-voglio-essere-qualcosa-che-non.html




 
 
 

Terzani, l'avventura di una vita ora diventa un film

Post n°258 pubblicato il 05 Aprile 2011 da carlotta735
 

 

http://digilander.libero.it/goccedivaniglia/Amici/tiziano_terzani.jpg

http://www.udine20.it/wp-content/uploads/2011/03/terzani-film.jpg

 

Ciak in Toscana  per una riduzione dall´ultimo libro curata dal figlio Folco

di Mara Amorevoli


Bruno Ganz sarà Tiziano Terzani. E Elio Germano, suo figlio Folco. Saranno loro i protagonisti principali del film tratto dal libro «La fine è il mio inizio», ad affrontare il dialogo serrato tra padre e figlio nella biografia postuma in cui lo scrittore e giornalista fiorentino, morto il 28 luglio del 2004, ha raccontato la storia della sua vita e la lunga ricerca di verità e di senso che lo hanno visto impegnato come reporter per 30 anni in Asia e infine, ammalato di cancro, chiudere le tappe del suo inteso cammino di passioni, esperienze e riflessioni nel piccolo paese di Orsigna sulle montagne pistoiesi, accanto alla moglie Angela, ai figli Saskia e Folco.
Due attori famosi presto sul set in Toscana: Bruno Ganz protagonista consacrato da molti film di Wim Wenders, oltre che in Italia da "Pane e tulipani» di Silvio Soldini, e il giovane Elio Germano, diretto da Virzì in "Tutta la vita davanti" e da Gabriele Salvatores in "Come Dio comanda" scelti dal regista tedesco Jo Baier.


La produzione tedesca pare stia stringendo contatti con l´attrice Stefania Sandrelli per affidarle il ruolo di Angela Terzani; del regista Jo Baier si sa che ha appena finito di girare "Enrico IV", dal libro di Heinrich Mann, fratello di Thomas Mann, in coproduzione con i francesi e con attori francesi, a quanto pare uno dei film europei più costosi degli ultimi tempi. A produrre il film sarà Collina filmproduction di Monaco di Baviera, in collaborazione con Beta Film. Firmano la sceneggiatura e l´adattamento del libro Ulrich Limmer e lo stesso figlio di Terzani, Folco che ha raccolto ne «La fine è il mio inizio» la biografia-testimonianza del padre, pubblicata da Longanesi nel 2006.

Di certo la troupe tedesca sarà presto impegnata a ricostruire il set sullo sfondo delle quinte verdi di castagni delle montagne dell´Appennino tosco-emiliano, se non proprio a Orsigna, nel paese rifugio in cui Tiziano Terzani si era ritirato, nella gompa tibetana che si era costruito e dipinto da solo, immersa nel silenzio della natura, ormai lontano dall´India, e dall´altro rifugio scelto sull´Himalaya in cui aveva affidato al suo ultimo libro «Un altro giro di giostra» la storia dei sette anni di cure in giro per il mondo, a cercare di curare «la malattia della mortalità». 

http://www.fangareggi.com/wp-content/uploads/2008/12/terzani.jpg

Chissà se ci dovremo aspettare la metamorfosi di Bruno Ganz, calato nell´immagine di Tiziano Terzani con capelli e barba bianchi come Tolstoj, e di Elio Germano, uno dei giovani attori più simpatici e acclamati dal nuovo cinema italiano, che interpreta il figlio Folco, tornato dall´America invitato dal padre a Orsigna, quando ormai sereno aveva accettato di lasciarsi andare alla prova estrema come un filo d´erba o un fiore sfiorito.


Terzani gli aveva scritto: «E se io e te ci vedessimo ogni giorno per un´ora e tu mi chiedessi le cose che hai sempre voluto chiedermi e io parlassi a ruota libera di tutto quello che mi sta a cuore, dalla storia della mia famiglia a quelle del grande viaggio delle vita?». Questo l´incipit del libro e forse del film, che vedrà snodarsi giornate di lunghi racconti e incontri, il dialogare ora divertito, ora intimo e segnato dalla sofferenza del corpo di Terzani che di giorno in giorno gli toglie forze e respiro. Un viaggio a ritroso registrato dal figlio, mentre il tempo di Terzani si dilata in memoria, nei luoghi familiari di Monticelli dove era nato a Firenze, amore per lo studio, incontro con la moglie Angela, fuga e viaggio tra i tanti paesi che il giornalista e scrittore ha percorso in libri e reportage, documentando la storia, le guerre e gli eventi di Vietnam, Cina, Giappone, Cambogia e India. Parole e gesti che stringono una nuova complicità tra un padre e un figlio, fino alla cerimonia degli addii, a quella fine che lui gli affida come nuovo inizio. 

(27 agosto 2009)

Scritto a quattro mani con il figlio Folco, La fine è il mio inizio è una sorta di testamento spirituale, l’ultimo messaggio che Terzani lascia a tutti prima di andarsene. Racconta della sua vita in costante viaggio, passata alla ricerca della verità. Uno studio sul senso delle cose che ha vissuto, delle persone che ha incontrato e delle passioni che lo hanno plasmato.

Al termine della sua densa vita, Terzani si ritira a vivere nell’appartata casa di famiglia in Toscana. È ormai preparato a spegnersi, con serenità, ed è determinato nel voler trasmettere al figlio Folco il racconto del suo intimo percorso. Così in una delle conversazioni tra i due, registrate e riordinate nel libro: “Questa è la fine, ma anche l’inizio di una storia, che è quella della mia vita e di cui mi piacerebbe parlare con te per vedere se tutto sommato ha un senso”.

Un testo che è la somma e la sintesi delle sue precedenti opere, sempre incentrate sulle esperienze in giro per il mondo e ogni volta in equilibrio tra corrispondenza giornalistica e riflessione personale, soprattutto dopo la scoperta del cancro. Il viaggio, il percorso, il cammino sono i motivi ricorrenti dei libri di Terzani. In La fine è il mio inizio sono raccontati i grandi momenti della sua vita, come la guerra in Vietnam o il disinganno del comunismo in Cina. Tutto si alterna ai ricordi personali delle avventure in posti proibiti, di incontri e di passioni vissute intensamente. Una chiacchierata con il figlio Folco, erede e messaggero delle profonde esperienze interiori di quella grande figura che è Tiziano Terzani.



http://blog.panorama.it/libri/2011/03/21/la-fine-e-il-mio-inizio-arriva-il-film-tratto-dal-libro-di-tiziano-terzani/

http://soleottobrino-onthebook.blogspot.com/2011/02/terzani-lavventura-di-una-vita-ora.html

 
 
 
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