Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

P o e t i c a

P o e s i a - L e t t e r a t u r a - S t o r i a - M u s i c a

 

 

INCANCELLABILI RICORDI di Sandro Ciapessoni

Post n°246 pubblicato il 25 Settembre 2014 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

INCANCELLABILI AMABILI RICORDI

di: Sandro Ciapessoni

 

 

... nel silenzioso e placido momento, cinta di fiori

tanti e coloriti, sconosciuta casa avvinse il mio futuro…

e… si fermò nel cuore.

 

LOPPIA…

Sine” pinos” similiter ac deserta... ".

 

Il piccol porticciol di Loppia spoglia

il "benvenuto" volle a me donare

e fu negli anni "trenta" sul finire,

un dì, di primavera.

 

M'accolse ancor fanciullo ed esitante,

cercavo in quelle rive un segno amico

che in volontà, vincesse il mio timore

in quelle quiete inesplorate rene.

 

Per me, tutt'era nuovo e sconosciuto

ma un non so che di arcano e misterioso,

colpiva la mia vista.

Forse, i secolari tronchi

dei giovin sempre e maestosi cedri?

 

Ombre superbe e scure

in terra volte, dirmi parevano:

"qui tornerai più volte".

 

Oggi soltanto, posso capir

quell'ombre scure nunzie di verità

allora sconosciute,

sì da rimpiangere e rievocar sovente

la rustica Spuràno,

la verde Comacina

ricca di fronde e bei colori tinta,

o la serena luminosa Lenno,

il Battistero e il Sant'Andrea teschiato

d'argentei ulivi

e d'arcipressi cinto!

 

 

Sandro Ciapessoni


 

 
 
 

G. d'ANNUNZIO - L' IGNOTA - Seguito notizie

Post n°245 pubblicato il 13 Maggio 2014 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

 GABRIELE D’ANNUNZIO e l’IGNOTA

Dalle carte segrete di Luisa Baccara, trovate di recente al Vittoriale, dietro una doppia paretina nell’appartamento personale della pianista-segretaria del Comandante, è emersa una lettera di D’Annunzio, vergata a matita su foglietti nella preziosa carta di Fabriano, pieni di correzioni, grafia larga a righe molto distanziate le une dalle altre, tipiche del “monòcolo”, in data 1 gennaio 1938, a pochi mesi dunque dalla morte, senza l’indicazione del destinatario, tranne l’accenno in alto, siglato con inchiostro rosso “All’ignota”. Ma sull’autenticità della stessa lettera, non sono sorti dubbi presso gli specialisti, accorsi in massa presso l’importante ritrovamento. Si tratta, in pratica, di una delle ultime tra le infinite epistole vergate in modo compulsivo dallo scrittore abruzzese, specie durante gli ultimi anni del suo soggiorno a Gardone. A fianco della lunga e strana missiva, un breve biglietto, sempre a matita, firmato in alto col nome di Luisa, diretto alla governante dell’eremo, Emilie Mazoyer, chiamata da D’Annunzio Aélis, lettera non completata e dunque mai spedita. Forse un ripensamento, un impulso, poi trattenuto e rientrato, a coinvolgere la ‘badante’ rivale, da parte della Vestale privilegiata dal Vate.

***

Oh creatura, creatura mia! Oh creatura ignota a me e a te stessa, forse! Grazie di esistere. Oh mia pantera minuta e densa, oh mia fanciulla misterica ed errabonda. Ti invoco e ti lancio queste parole straziate di delusione perché sei mancata all’appuntamento promesso. T’ho aspettata in riva al molo tutta la notte, senza più i miei levrieri, che del resto non ci sono più, senza nemmeno la scorta che mi protegge e mi logora, la Aélis e la Luisa cerbere, fedeli e assillanti. Solo e teso verso la tua pelle che m’ha sconvolto tutto, non appena l’ho scorta rilucere sfiorando l’acqua del lago. Perché hai tradito la mia fiducia? Cosa temi da un povero vecchio sfinito e finito? E’ Ariel che grida verso te, non più il principe di Montenevoso. Per merito tuo, il gonfalon selvaggio s’è di nuovo, per arcano prodigio, rizzato in tutta la sua possanza, e questa volta non ho dovuto ricorrere alla polvere magica, alla polvere folle, alle “mattonelle” in arrivo dai Parti lontani, dalla Persia favolosa e portentosa. E lo scheletro avvilito s’è ricoperto di carne rossa di desiderio. No, stavolta, è bastato gustare la agilità con cui eri discesa dalla barca, e la curva del tallone infantile ma gravido di torsioni e prese d’amore, perché la smania e il furore sono ripresi intatti, colla violenza d’un tempo. Ho camminato così a lungo, su e giù per la stanza silente, covando il letto deserto e pregustando i nostri viluppi, i nostri grappoli di ossa e di palpiti. Anche ora, anche ora, fanciulla ignota, anche ora ti sto colla mente penetrando fin al midollo, e ti sbuccio, e ti sfilo tutta, e ti premo fino al cuore e ti vuoto tutta quanta e tu sbianchi e hai paura. Ma bisogna che il piede giri verso l’alto nel modo mirato in barca, se vuoi che io sia in grado ancora di portare a compimento il cimento notturno. No, non devi temere di me, fanciulla alata. Sono troppo prisco, abbi fede. Vedi che mi umilio davanti a te, dopo tutto il male che ho fatto a voi portatrici del profumo della vita, voi che ho incensato e onorato col mio corpo, lungo tutta questa infinita, interminabile esistenza. Perché son vissuto tanto, e sembra che non mi decida mai a morire. Forse sono eterno, a volte mi dico. Purché non rimiri allo specchio quel che resta della mia beltà maschia, e tenga accuratamente chiusa la mia bocca assetata dei tuoi baci. Sì, sì, sì, a voi donne ho portato molte ragioni di affanno e di tremore. Quando vi facevo mie, subito mi saziavo e volgevo altrove lo sguardo rapace. Ma oggi non devi paventare questo vecchio umiliato e curvo e desideroso di uscire di scena. Prima però, prima, prima io devo rivedere la curva del tuo piede, e assistere, oh sì oh sì, al momento in cui ti sfili la calza e liberi il piede fatale e fatato, e subito nell’aria vorrei che si spargessero le essenze preziose del tuo sudore, qualcosa di imbestiato e di agreste, mi auguro, che sappia la stalla e l’erba e il capanno senza elettricità, e il latte all’alba e l’acqua fredda della fonte, e il silenzio attorno perché Pan possa cogliere i suoi trionfi. No, non devi temere di me. Se lo vorrai, non ti verrò sopra colla antica baldanza. Mi accontenterò come un mendico, come un pezzente d’amore, di vederti distesa sul mio giaciglio, sul rosso drappo che lo copre preparandosi ad essere strappato come un sipario che si leva su paesaggi irresistibili. Se me lo ordinerai, io starò cheto vicino a te, il capo appoggiato sulle mani, e ti accarezzerò coi miei poveri occhi, con quel che rimane di loro, dopo i voli perigliosi nei cieli di guerra e dopo il lavoro da ciuco sulle pergamene laboriose. Procederò secondo il mio abituale cerimoniale. All’inizio, masticherò a lungo in bocca polpe succose di frutta fresca e poi le passerò nelle vostre che la riceveranno avide come un’ostia consacrata. E subito dopo, la posizione del badana, io genuflesso fra le vostre cosce ad accarezzarvi la rosa colla parte di me più puntuta e sitibonda, guidato dalle vostre dita, secondo il vostro ritmo e la vostra necessità, a rovistare tra le foreste del godimento, in attesa della danza, dell’orgia, del momento in cui mi rivestirò della vostra pelle per la “vogata” finale. Aspetterò così che Morfeo si posi sui tuoi capelli e sul tuo corpo nudo, e mormorerò una lingua che non sai, con formule rinnovate del tutto. E magari, quando il nome giusto sarà trovato, tu ti alzerai dal sonno, come Lazzaro riconoscente, e uscirai allora dal letargo e dall’anonimato, per assumere sembianze e identità terrene. Ma oggi sono esausto davvero, avido di pace dopo tanto romore, dopo tanta guerra, e le spalle si incurvano dopo le ore trascorse invano ad attenderti, e il cuore sobbalza ogni tanto con sinistri smottamenti, e la fronte si imperla di un diaccio colore, e le immense occhiaie si dilatano ancor più a mangiarmi il volto. Sì, fonte del miracolo, in questo momento ci sei solo tu a trattenermi dal gettarmi in fondo al lago. Vorrei almeno che le ombre si stampigliassero sui miei lineamenti, cancellandoli dal profondo. Perché ormai il néant è vicino, lo sento, lo vagheggio come un’uscita dalla carcere. E mi disgustano anche le mie parole, le etichette con cui ho forgiato la mia dimora, la Priorìa e la stanza del lebbroso, e quella della Leda, del Mascheraio, del Mappamondo, del Monco, della Zambra dove conto che la corda del cervello possa alfine spezzarsi risparmiandomi le miserie dell’agonia, un labirinto ormai ridicolo, affollato da fantasmi, da sguattere, da bagasce, da badesse al passo, inviatemi nell’harem so bene da chi, sì, sì, da chi intende disfarmi colla carne, sì sì, dal mio compagno d’armi e di governo invidioso della mia intatta autorità sul mondo. E non sa invece le mie risorse. Mai, mai, mai una volta ha fatto fiasco il mio archibugio saettante. Lo sai, vero, che le mie fantesche si interrogano sulla inesausta energia del Principino, da loro paragonato ad un cactus che mai retrocede. Non angustiarti però, bimba. Non temere. Magari mi accontenterò, piccola selvaggia, di accarezzarmi io stesso la catapulta perpetua, tornando infante precoce e insonne, quando perlustravo tutte le risorse del mio corpo e infilavo la mia verga di fiamma in tutti gli orifizi della mia cameretta, prima di trovare ospitalità sfregolante nei pertugi di serve e nobildonne, attratte dal divin Cherubino.

Stamane il lago ostenta un grigio disadorno e la primavera sembra ormai impossibile. Tanto, per me non tornerà più primavera. Abbi pietà, allora, figlia scontrosa. Non sai di cosa sono stato capace quando avevo ventanni. Sapevo godermi anche tre donne al giorno. E più avanti, a oltre cinquantanni, nelle pause della guerra, mi sono destreggiato con tante femmine e nessuna, dico nessuna, si è mai lamentata o se n’è andata insaziata perché il mio monachino di ferro era sempre arroventato. E certune, le ho assaporate a tal punto che mentre mi stendevo sopra di loro, mentre le invadevo con baci lunghi sino al cessare del respiro, mentre ero profondo dentro di loro rovesciavano indietro la nuca, gli occhi riversi, le mani serrate, la bocca gonfia di impudicizia suggente, prossime a svenire, quali Sante Terese ebre di me, ebre di Dio, le spalle disciolte come neve bollente sopra di me. Ma adesso è diverso. Dalla mia cavità sono sfioriti i denti, come petali avviliti dal freddo. Sto male, sto male, mio incantamento. Ho voglia di carezze innocenti, quelle di una madre di quando mi rannichiavo minuscolo nella mia cameretta, muto sul guanciale e mi ripetevo per farmi coraggio “N’n tenghe niente! Voje sta ‘cquà”, coll’idioma cantilenante dei miei pastori d’Abruzzo. Mi fai riandare, vedi, alle mie prime conquiste, quando ho scoperto la seconda bocca da manomettere, la bocca assetata e non impube, nella figliola del colonnello, Clemenza, o in quella del mastro muratore calcinoso, la Calcinella. Quando ho conosciuto le mie piccole meretrici, le danzatrici del ventre, come Lucrezia su cui ho effuso copiosamente i primi flutti della mia pubertà rigogliosa, lasciando emergere la mia cieca radice sotterra. O era forse la baccante rusticana, il volto intinto d’uva nera spremuta nell’attesa di me nella vigna deserta?  Ma come ti chiami davvero, o mia tenerezza imperiosa? Sono stanco di imporre alle muliebri compagne nomi estrosi, che un tempo inventavo durante le lotte del piacere, in mezzo agli alti gridi. Ether, Lucietta, Gioetta, Vellutino, Murcia, Myia, Zazzerina, Smikrà, Saurella, Joiò, Dianella, Angioletta, Demonassa, Melitta, Comarella, Gigantona, Buonarrota, Venturina, Nidiola, Coré, Vidalita, Occhichiara, Tormentilla (elenco che conservo nei miei appunti di caccia amorosa per non affaticarmi nei nuovi conii, perché più che memoria ho refoli di passato, e non posso fidarmi della mia mente), insomma un rosario di araldiche escrescenze che dettavo a costoro, fiere del battizzo. No, no, stamane m’è tutto chiaro. I cuscini sono sempre gli stessi, così pure gli inginocchiamenti, e insieme i barattoli, i fazzoletti, i sacchetti di profumi afrodisiaci sparsi tra le pieghe delle lenzuola, tra le liane per gli esperimenti arditi del piacere, prima della voluttà, ad allertarla, ad incendiarla, a mantenerla, a farla indugiare all’infinito. E sempre la stessa nausea, poi, davanti allo sciupio dello spazio, il letto ingombro di vesti, le mie camicie di seta fine e fresca divenute cenci immondi, i profumieri aperti a ingentilire invano biancheria gualcita e strappata, fradicia di macule, come il mio petto, come il mio collo che pretendevo sempre devastati dai loro risucchi, dai loro morsi vampireschi. E ad alcune, se appena sciupate dagli anni, coprivo il torso o le palpebre coll’ombra dei miei tessuti d’oro. Nausea, ancora, davanti alla fame prodigiosa che un tempo mi assaliva dopo il dispendio di forze. No, ora sono cambiato, sono quasi un Santo, un Santo davvero. Amo solo nello sguardo e l’estasi la raggiungo contemplando. Ma guai a ricordare la primavera. Tanto vale, tanto vale mirare commosso la tua miracolosa adolescenza, l’arco scattante del tuo piede pieghevole, il modo in cui annuncia la gamba e poi la coscia bianca e liscia come marmo irrigato di sangue. Oh, la tua gamba che potrebbe intrecciarsi dietro la mia schiena ansante e vittoriosa, oh la tua gamba inesorabile che potrebbe stringersi ai miei fianchi non lasciando mai la presa, mentre si scioglie nel tuo grembo l’aroma chiaverino, e il muschio si inumidifica vagheggiando la mia semenza e irrorando il mio mento. Voglio, pretendo di calcarti! Fallo, fallo, fallo! Oggi sono afficato di te! Dai, dai, dai! Ancora, ancora, ancora! Lasciami sulla punta delle dita la tua luce. Della tua pelle chiara come lampada d’avorio trasparente. Vieni, vieni, devi venire al mio richiamo. Te lo ordina chi arringava truppe e folle dalle ringhiere alte sulle piazze, chi maneggiava l’anima di feroci soldati e popolani desiderosi solo di morire per me. Getterò tra i gelidi flutti tutti i miei versi più belli e riusciti, le medaglie più dorate e strappate ai caduti tra abissi e cime innevate, persino l’anello materno che porto al dito, tutto per riavere diciottanni e scoprire con te la gioia. Il tempo mente, mente sempre il tempo. Io avverto dentro di me l’antica forza. Non senti il mio gemito? Sale dalle ali della mia anima in combustione, sale dalle fibre dei miei nervi che si torcono tutti. Hai il volto circonfuso della luce dell’enigma, e te lo dice chi sol teme di non essere incompreso. Perché hai l’effigie ora assorta nell’assimilazione di tutta la spiritualità della notte stellata, ora spalancata nella curiosità crudele e inesausta dei sensi, pronta a dirmi parole indicibili e insensate e a farmi ardere le ossa come un fascio di rami resinosi sino al getto del mio succo inesauribile e copioso, il suggello più pieno del mio fuoco interiore. E poi io so che hai sotto la lingua il miele, e che nel cavo delle tue ascelle è celata la magnolia e la tuberosa, odore dolce e terribile, che io leccherò in fondo, sino all’ultima stilla. Coprimi almeno gli occhi coi tuoi riccioli ramati, ad affrontare l’eterno insonnio che mi perseguita. Chiudili su questo presente che mi umilia, su questo inverno aspro e desolato. Che aspetti, dunque? Devi obbedirmi. Non puoi rifiutarti a me. Abbi pietà di me, mio sospirato balsamo. Desidero l’indulgenza che non si nega ai cani malati. Io ne ho tanta e non condivisa dagli altri, evidentemente. Ma nessuna femina s’è mai sottratta al mio piacere, mai, mai, mai. Io ho avuto ai miei piedi, supplici perché le ghermissi, le più grandi dive del palcoscenico, le danzerine, le operiste più celebri, le nobildonne più irraggiungibili e altere, tutte tutte imploranti le mie carezze. E tu vorresti per caso vendicarle colla tua indifferenza? E’ questo che vuoi? E’ questo? Ma le altre, se hanno sofferto per causa mia, hanno pure conosciuto il cielo tra le mie braccia e l’ardore di bruciarsi in Gabriel. Che vuoi allora fare di me? Tanto riuscirò a stanarti, pazzerella, dal tuo borgo selvaggio, o mia forosetta. Intanto la mente già palpita di ebrezza, di nuovo, di nuovo, di nuovo nel sentirti arrivare, china e devota al sacrificio. Ti bacio i belli occhi e l’arco dei piedini, e ti sussurro infine questo saluto ceruleo nonostante il grigio calcinato del lago. Ti bacio tutta. Tutta. Tutta. Tutta. Tuo Ariel

 

*** 

 

Breve scritto di accompagnamento di Luisa Baccara.

 

Ma chère Aélis, se trovi il tempo di leggere questa lettera condividerai, mi auguro, le mie pene e appoggerai le soluzioni che credo sia il caso di adottare quanto prima per evitare al Comandante ulteriori rischi per la sua augusta persona. Devi fidarti di me, come io ho imparato a fare nei tuoi riguardi. E questo dopo i nostri passati contrasti. Ma avrai capito, spero, che la sicurezza del Comandante è lo scopo della mia vita, come lo è per la tua. Tu sei ben diversa dalla Emy teutonica, e conosci bene il mio pensiero a proposito. Mai, insisto, mai avremmo dovuto permettere a quella là, alla signorina Heufler, di far parte del nostro Tempio d’amore. Ma lui che anni fa voleva stodeschizzare il nostro eremo, ora la lascia circolare, questa spia magalda. Comunque, anche ieri gli ho procurato le roselline, i piselli freschi, tutti pazientemente sbucciati, come ha preteso dopo il sogno delle madonne fiorentine. E gli ho fornito il cacio tondo della Maiella, e le fette-balsamo della pesca zuccherosa, e la scatola di baicoli per la nuova ospite (saprai che costei è in crisi, travolta da ridicoli rimorsi di madre che trascura la prole per starsene con Lui), se no lo vedevo avvilirsi. Ormai è come un bambino che fa le bizze. Anche il lavoro rallenta e l’Officina resta spesso vuota perché il fabbro mago, l’Operaio della parola, insegue nella bottega di poesia solo strane fantasie oppure sostiene che al solo entrarci la sente “stridere” e così ha la scusa pronta per fuggirsene fuori. E un’altra giornata allora se ne va senza l’opera, sostituita da vaniloqui e ruminazioni assurde. Com’era per noi eccitante, ricordi, quando bussavamo alle porte del laboratorio a gustare per prime le parole alate appena vergate dalla mano ispirata dell’Artefice! In questi foglietti che ti allego invece si respira solo follia, perché la storia di questa ragazza probabilmente esiste solo nella sua immaginazione. Non ce ne ha mai parlato, e non ha permesso che passasse per il nostro controllo e i nostri filtri sapienti. Insomma, Lui è convinto di averla visto l’altro pomeriggio alla darsena. S’è messo in testa di averle dato un appuntamento e anche ieri è stato tutto il giorno ad abbigliarsi per un incontro notturno che non c‘ è stato, che non poteva starci. Forse dovremmo ridurre la dose della polvere. In fondo, se mancano le occasioni, perché continuare ad inebriarlo senza frutto? In più, oltre alla gengiva che ha ripreso a spasimare al menomo tocco, credo che la cacarella attuale, o diarella come la chiama Lui, cacarella che si alterna alle fasi di “ciuco stitico” come Lui si pregia definirsi, dipenda dalla somministrazione della stessa polvere. Come anche l’eczema deformante che gli imbratta la pelle morbida e liscia e femminea di un tempo, di cui soffre (“la straziante vergogna”) nel denudarsi davanti alle ancelle della notte. Almeno proviamo a ridurla, non dico a sospenderla. Oggi ho l’umore tetro pensando a come siamo ridotte, tu ed io, noi che viviamo per Lui, di Lui, ogni volta costrette a rimuovere il confronto col passato, le tante eroiche imprese, quando era Tutto per noi e noi eravamo le fortunate destinate a bevere dalla sua esistenza mirabile, a scaldarci ai suoi giochi portentosi d’amore e di scrittura, in mezzo a stordimenti e congiungimenti nei letti d’ombra, tra le Beatitudini, pascolo dei sensi e del cuore e dell’anima. Io gli suonavo al pianoforte Scriabine o all’organo adattamenti da Debussy, armonie che gli davano l’ebrezza e rendevano ancora più acute le sue voglie di me e di noi. Sfioravo la tastiera colle “mani terribili” da cui agognava scotimenti e carezze mortali. Ma non essere gelosa, ti prego, ma chère, di queste confidenze. Oggi, tutto è così profondamente diverso. Perché oggi io e te inseguiamo un povero essere dispettoso e irritabile che guaisce al minimo rimbrotto, che domanda “sorella acqua” nella vasca del bagno blu ad una temperatura che non gli va mai bene, che geme sugli anni che passano (ieri m’ha scritto nei biglietti quotidiani di sentirsi implacabilmente, turpemente “stravecchio, decrepito, squarquoio” coi consueti termini che mi affaticano a cercarne il senso nei tanti dizionari), che insulta se lo si contraddice, che pretende da noi merce umana sempre più giovane (le vuole minorenni, ma che non sembrino tali) e dunque pericolosa per le sue forze manomesse se non interviene il soccorso della polvere. E di nuovo allora, come un circuito perverso, lo dobbiamo esaltare perché arrivi a compimento il suo ennesimo capriccio. E ascoltarne all’alba i resoconti amorosi, non più amanti, non più confidenti, non più sorelle, ma solo cameriste e ruffiane, è un insulto alla nostra pazienza, non credi? Lui ci considera alimentate di fango, è certo, Lui che pure ci aveva foggiato a sua immagine nei giorni della gloria e della vita, che ci chiamava fasci di nervi irraggianti elettricità. Si può andare avanti in questo modo, à ton avis? Gli ho donato tutto e oltre di me. Per lui ho rinunciato ai concerti, alla gloria, alla famiglia, ai figli, e lo stesso hai fatto tu. Adesso è venuto forse il momento di reagire a questa recita insana, adesso mi sembra davvero penoso continuare così. Perché quel che ci chiede è inumano. Dovremmo fare qualcosa. Io sono esaurita e anche tu credo lo sia, non negarlo

(qui la lettera si interrompe bruscamente e il segno si fa arzigogolo e quindi si impenna a nota musicale).



 

 
 
 

G. D'ANNUNZIO - EMILIE MAZOYER (Aelis) Dal diadio

Post n°244 pubblicato il 28 Aprile 2014 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

Da “Il diario” di AELIS

 

L’amore è tutta la storia della vita di una donna; un episodio soltanto in quella dell’uomo.

Dell’influenza delle passioni

 

E quel dì, avvenne al Vittoriale… 1 marzo 1938, ore 20.30.

 ***  

 Lo spazio è angusto. Nel corridoio semibuio si è raccolto il personale della villa: tutti aspettano in silenzio.

Mi sento sola, sperduta tra la piccola folla di domestici, in attesa da mezz’ora dietro la porta chiusa.

Madame Baccara è dentro. E’ stata subito ammessa al capezzale del Comandante, ma lei è la signora della casa, non una semplice domestica come me, anche se... non è proprio così...

Io non posso entrare: bisogna rispettare la forma. Come è sempre stato, almeno ufficialmente, tranne quando lui stesso non decideva altrimenti, ma ora non è in condizioni di dare ordini...

Mi stringo nelle spalle, porto le mani alle tempie; vorrei scacciare dalla mente le parole che m’ hanno sconvolto: «Presto, presto, il Comandante sta molto male». Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare chi le abbia dette. Mi sembra ancora di vedere quella figura fare irruzione nella sala del Mappamondo, l’ampio soggiorno del Vittoriale.

Io e madame avevamo appena finito di cenare, sole, dopo averlo atteso invano. Mon maỉtre l’aveva promesso quella stessa mattina che avrebbe cenato con noi; poi invece era arriva Emy, la tedesca, con la sua voce tutta consonanti: «Il Comandante D’Annunzio non sta bene, vuole restare da solo, mi ha ordinato di portargli la cena nella Zambracca, vuole lavorare ancora un po’ alla sua scrivania, ha detto che non si sente del tutto a posto e non vuole distrarsi».

A me non è mai piaciuta, quella: una vera francese diffida sempre di chi parla con accento teutonico. Il pensiero dell’avversione nei confronti della bionda altoatesina mi distrae da quanto sta accadendo dietro l’uscio chiuso in fondo allo stretto corridoio.

D’un tratto la porte si apre, i domestici si accalcano per avere una risposta alla domanda che nessuno osa fare.

«Un medico, presto!» grida madame, con un tono acuito dall’ansia, piombando come una furia tra di noi, scostando malamente chiunque ne ostacoli il passaggio.

Sento la morsa inesorabile della paura; d’istinto l’afferro per un braccio: «Madame. Per carità, cos’è accaduto?»

Madame non ascolta, mi guarda senza vedere e poi corre via, lungo la galleria della Via Crucis. Passa rapida davanti alle immagini dolorose della passione di Cristo e si dirige verso il telefono: il lungo vestito di velo nero le sbatte contro le gambe, la chioma grigia in disordine sullo scialle dalle frange viola. Grida: «Chiamate il dottor Duse, chiamate il dottor Cesari, presto!» E’ un ordine rivolto a tutti e a nessuno.

Il suono di quelle parole ha un’eco dolorosa nelle mie orecchie; vorrei saperne di più, ma madame è già sparita.

Trovo un varco tra i domestici incerti sul da farsi, entro nello studio senza aspettare di essere chiamata e lo cerco con lo sguardo, senza vederlo.

Soffoco. I miei occhi frugano ogni angolo, si spostano inquieti verso la camera da letto: il Maestro ha il capo riverso sui cuscini. Cerco di abituarmi alla luce fioca della lampada di opaco vetro colorato, lo sguardo scivola sui piatti colorati alle pareti, sui calchi sopra la piccola libreria dove sono allineati i suoi libri preferiti.

Sembra tutto normale, se non fosse per le persone che si affannano sopra il corpo inanimato. L’infermiera dà ordini concitati, nel vano tentativo di provocare qualche reazione. Nulla.

Guardo Gabriele: forse sta solo dormendo. Mi attacco a un filo di speranza. Ma come può  dormire con gli occhi aperti? E’ solo perso nell’oblio, presto si sveglierà e tutto tornerà come prima. Poi mi avvicino al letto e allungo la mano. Voglio toccarlo, sentirne il respiro. Madame si sbaglia, non è così grave.

Mi impongo di ritrovare la calma, di riflettere. Intanto, le mie dita sfiorano il volto amato, sotto lo sguardo preoccupato dell’infermiera che non desiste dal praticare cure inutili.

«Nooooooo!» Non riesco a trattenere l’urlo mentre mi piego su di lui, e crollo ai suoi piedi. Ho sentito la morte sotto le dita, nessun alito di vita, per quanto impercettibile.

«Alzatevi, signorina Aélis, alzatevi, vi prego». La voce di una delle cameriere mi giunge lontana, ovattata.

«Svegliatevi, mon maÎtre, vi prego, rispondete. Non potete lasciarmi così, senza una parola. Sono Aélis, la vostra piccola francese. Ricordate quando mi avete dato questo nome? Ero così felice, vi amavo così tanto?» Sono queste le parole che credo di pronunciare, ma dalle mie labbra non esce un suono. Guardo il volto della donna che cerca si staccarmi da lui: la ragazza ha gli occhi rossi, lacrime le rigano le guance, nel suo sguardo si legge la terribile verità.

Il mio Maestro è morto.

 

Mi hanno fatta alzare, staccandomi le mani dalle gambe inerti, m’hanno costretta a sdraiarmi sul divano posto dietro il paravento, di fianco al letto.

Sento i rumori soffocati delle persone che si muovono nello studio-spogliatoio, quello che lui chiamava Zambracca, con uno dei tanti termini abruzzesi che amava. La stanza è piccola, ingombra di mobili e oggetti. I miei occhi si posano sulla grande scrivania sommersa di fogli, sparsi nel solito disordine, tra il luccichio argenteo del servizio da penna di Buccellati e della testa d’aquila di Brozzi e quello dorato del calco dell’Aurora michelangiolesca. Il mobile occupa il centro della stanza, lasciando ben poco spazio ai tre voluminosi armadi, pieni di abiti e medicine, sui quali incombono i calchi in gesso raffiguranti le teste dei cavalli di Helios. Se potessero parlare. I loro occhi spenti sono stati gli unici testimoni della fine del Maestro. Nascondo il volto tra le braccia, sprofondandolo nei cuscini.

 

«Chi ha spostato il corpo del Comandante? A chi è venuta un’idea così stupida, perdio! La voce dell’architetto Maroni, il più intimo amico del Maestro, sovrasta le altre, confuse in un brusio. E’ arrivato subito, non appena appresa la terribile notizia. Gli è bastato poco per percorrere la distanza tra la sua casa, immersa nel verde del parco, e la Prioria, la costruzione principale. «Siete sicuri di avere usato il giusto riguardo, non è che avete peggiorato la sua condizione?? Perdio, è D’Annunzio, non una persona qualsiasi! Non è possibile sia accaduto tutto così all’improvviso? un uomo come lui?»

L’infermiera lo guarda sconsolata, può solo scuotere il capo. Maroni allunga una mano per stringere quella del Comandate, abbandonata sul letto. Sobbalza, come investito da una scarica elettrica: non v’è resistenza in quelle dita magre. «Bisogna sistemarlo al meglio per i medici, dovranno controllare, capire. Insomma, come può  essere accaduto, così, senza alcun preavviso, senza segnali?»

I due domestici che si muovono nella stanza eseguendo gli ordini di Maroni e dell’infermiera, mi sembrano fantasmi. In quella nebbia dolorosa distinguo solo il corpo inanimato sul letto. Gabriele indossa un pigiama marrone un po’ spiegazzato; quel indumento sembra fuori posto sul prezioso copriletto, tra gli animali e le scene di caccia riprodotte nella delicata tessitura della seta francese. Ricordo il giorno in cui donna Maria, la moglie di Gabriele, la principessa, glielo regalò portandolo dalla Francia.

«A questo punto, non c’è altro da fare», dice Maroni, rassegnato.

Le sue parole bloccano gli ultimi tentativi dell’infermiera che si agita ancora nel vano tentativo di ottenere l’impossibile.

Maroni assiste immobile al frenetico andirivieni; forse è l’unico ad avere trovato la calma, a cercare di ragionare senza farsi coinvolgere dall’affetto che lo legava al Comandante. «Bisogna rassegnarsi, purtroppo», dice, rivolgendosi a madame Baccara.

Lei è di nuovo lì, dritta ai piedi del letto, stringe tra le mani un fazzoletto e cerca di trattenere il pianto. Al suo fianco c’è ora donna Maria, giunta in pochi minuti da Villa Mirabella, la residenza ai confini del parco del Vittoriale assegnatale dal marito. Chi l’avrà avvisata, se sono tutti qui? Ma non importa.

«Allora è vero, non volevo credere? Ma come?» mormora donna Maria, guardandosi attorno smarrita. Sospira e si sposta a fianco del letto per piegarsi con l’aristocratica grazia di sempre a sfiorare con le labbra la fronte ancora calda. «Sicuri? Sembra solo addormentato?»

Luisa Baccara piega il capo in segno di assenso.

«Capisco?» sussurra la principessa, stringendo le labbra sottili sul volto segnato da una fitta rete di rughe. «Bisogna prepararlo, vestirlo? Non può restare con quel pigiama, non è dignitoso». La sua voce si fa autoritaria, mentre si guarda intorno per dare gli ordini che ritiene opportuni.

«Mi dispiace, donna Maria, ma occorre che i medici lo trovino così come era al momento del trapasso». Maroni parla lentamente, con il riguardo dovuto. Nonostante si sforzi di celare i suoi sentimenti, le parole gli escono a fatica, rese quasi incomprensibili dal pianto trattenuto: «Un uomo come lui, un monumento vivente della nostra Patria, non può morire come uno qualsiasi; bisognerà rendere conto al Paese intero della sua improvvisa dipartita».

Madame Baccara e io guardiamo donna Maria senza dire una parola. Nessuna di noi due riesce ad accettare quanto è accaduto, tantomeno a decidere ciò che è giusto fare. Per noi è incomprensibile quell’atteggiamento apparentemente sicuro, quell’agire così determinato: come può donna Maria mantenere la calma in un momento simile?

D’un tratto capiamo: lei è la consorte ufficiale del Comandante, la vedova addolorata del principe di Montenevoso.

«Rizzo? vado a telefonare a Rizzo», annuncia Maroni.

Nella confusione seguita al drammatico momento si sono dimenticati del questore che alloggia a Gardone. Bisogna che sappia e giunga al più presto per occuparsi di ogni cosa. L’architetto lascia la stanza mentre le donne cominciano a spogliare il Maestro per lavarlo e vestirlo.

Mi sforzo di alzarmi, anche se con gran fatica; voglio guardare quel corpo, aiutare le altre in quell’ultima, penosa incombenza. Guardo mentre gli tolgono il pigiama, la biancheria macchiata, e provo un senso di pudore che mi costringe a volgere altrove lo sguardo. Non riesco a sostenere la vista di quelle membra scarne e segnate dagli anni: sembrano di un estraneo, non resta nulla del corpo di colui che ho conosciuto e amato. Lo ricordo bene, sempre vanitoso e fiero del proprio aspetto, e non posso non pensare alla sofferenza che gli causerebbe vedersi ridotto in quello stato e sotto gli occhi delle sue donne.

«Bisogna lavarlo, prima», ordina donna Maria. «Svelte, prendete degli asciugamani puliti».

Guardo Madame Baccara, negli occhi la domanda: è donna Maria che comanda, ora? Non ci siamo mai amate io e Madame: non ho mai accettato che Luisa Baccara fosse la signora della casa e lei ha sempre cercato di relegarmi nel mio ruolo di cameriera. Eppure avevamo finito col siglare un mutuo compromesso, per sopportarci a vicenda. E questa donna Maria, cosa vuole, adesso? Basta il fatto che porti il nome D’Annunzio?

«i dottori, sono arrivati i dottori», annuncia il carabiniere che di norma staziona davanti all’ingresso del Vittoriale e che ora cerca di sbirciare dentro la stanza.

«Entrate, prego», invita madame D’Annunzio. «Lui è sul letto, lo stavamo preparando? non vi è più nulla da fare, temo».

Il dottor Duse le bacia la mano: «Principessa, vi porgo i miei omaggi». Il dottor Cesari si affretta a imitarlo prima di ordinare, lo sguardo già sul corpo esangue: «Bene, signore. Ora vogliamo restare soli, dobbiamo procedere».

La stanza comincia a svuotarsi mentre i due uomini si piegano sul maestro per cominciare l’ispezione. Espletano il loro compito procedendo con lenti gesti professionali; sono così assorti che non si accorgono nemmeno dell’uomo che alle loro spalle irrompe nel locale.

«Buona sera». La voce di Rizzo fa sobbalzare tutti. «Dottor Duse, dottor Cesari, sono felice di vedere che siete arrivati subito. C’è qualcuno, qui, in grado di raccontare cos’è accaduto?».

«L’hanno trovato alla sua scrivania», risponde una cameriera che si è trattenuta sulla porta mentre gli altri sono usciti.

«Chi l’ha spostato?», chiede Rizzo, contrariato.

Sono ferma, in piedi, accanto alla finestra della Zambracca. Non lo ascolto: non sopporto di vedere quelle mani sul suo corpo, lo profanano. Che cosa ne sanno del mio Gabriele? Non posso guardare oltre, né sentire altro.

«Cosa aveva preso, stasera?», domanda Cesari.

«Bisognerebbe chiedere a Emy o alla sua infermiera», risponde Rizzo, che poi aggiunge: «Ma importa veramente? Via, signori, abbiamo davanti Gabriele D’Annunzio. Capite, vero? Era un eroe, non un uomo qualunque. Cosa diremo al Duce, al Paese? A questo dovete pensare mentre completate la vostra visita, non occorre cercare risposte che non interessano a nessuno e che potrebbero risultare, come dire? imbarazzanti? Gabriele D’Annunzio è un mito, è il Vate, il Comandante. La Patria vuole sentire che è morto come è vissuto e onorarlo nel ricordo».

Cammino nella cucina silenziosa, la casa sembra essersi svuotata, come se tutti fossero in attesa di sapere cosa accadrà ora che lui non c’è più. Nervosamente sistemo le tazze di maiolica dai delicati disegno mitologici, con versi greci vergati in corsivo nero, e la teiera calda sul vassoio sul vassoio d’argento di Buccellati: devo servire la bevanda ai medici che hanno finito la visita e stanno stilando il referto di morte. Ictus, hanno detto, o forse il cuore che ceduto?

Mi sfugge un sospiro, trattengo un singhiozzo, e una rabbia improvvisa mi attanaglia. Gabriele non può avermi lasciata. Nessuno era preparato e una cosa del genere, io meno di tutti. Stava bene, la nostra vita scorreva secondo le vecchie, consolidate abitudini; certo, negli ultimi mesi mi era parso affaticato, mostrava i segni dell’età, ma nulla di più.

Inspiro con forza cercando di trovare una risposta a quanto è accaduto. Com’è possibile che nessuno si sia accorto del pericolo incombente? Lui viveva circondato da una corte di fedeli amici, medici e infermiere che dovevano provvedere alla sua salute. Certo la vecchia malattia a volte lo affliggeva, certo eccedeva nei suoi desideri più sfrenati. Ma non era malato. Era stanco, solo stanco.

Sono oppressa dal senso di colpa per non aver capito che la fine era ormai prossima, mi sento impotente contro il destino. Se avessi capito, non sarei stata così insofferente con lui. Quante volte mi aveva chiamata negli ultimi giorni, quanti bigliettini mi aveva scritto chiedendomi mille piccoli servizi. E io? Mi ero adombrata, avevo reagito con poco garbo, pur assecondandolo.

Afferro il vassoio e mi dirigo verso il corridoio. Un rumore di passi attira la mia attenzione, ogni minimo rumore echeggia nella casa innaturalmente silenziosa. Mi fermo, aspettando che il nuovo arrivato entri nella stanza.

I passi si bloccano, indugiano oltre la porta, poi sento un tonfo sommesso e una voce perentoria che ordina: «Datemi subito la linea!»

E’ Rizzo, lo riconosco subito, deve essersi chiuso nell’abitacolo dove si trova il telefono e che Gabriele aveva voluto insonorizzato per poter parlare indisturbato. Ma la porta dello stretto cubicolo non è chiusa bene, Rizzo non se n’è accorto e continua a parlare a voce alta.

«Sì, sono io, eccellenza, Rizzo. Chiamo dal Vittoriale per darvi la notizia? quella che aspettavate?»

Il Duce aspettava quella notizia? Non capisco: devo sapere.

«Sì, esatto: si è sentito male alle venti? Morto, sì. Non ci sono dubbi». Rizzo respira con affanno, teso ad ascoltare ciò che gli viene ordinato dall’altro capo del telefono. «Sarà difficile sapere l’esatta natura del male che? Naturale, i medici hanno fornito una versione ufficiale: ictus».

A che cosa allude, il questore?

«Finalmente, certo. Finalmente è morto, eccellenza. Sarà fatto tutto il necessario senza indugio. Quali sono gli ordini?».

 

Sono ancora lì, in cucina, col vassoio in mano, incapace di prendere una decisione. Rizzo è ormai andato via e so che dovrò  riscuotermi da quella immobilità, pensare alle mille domande che non trovano risposta: perché «finalmente»? perché quella morte così improvvisa e misteriosa? Perché vogliono che tutto finisca in fretta?

Appoggio il vassoio sul tavolo verde e mi passo una mano tra i capelli, una mia piccola mania che con l’età si è accentuata: ho sempre voluto essere in ordine per lui? Non ha mai sopportato la sciatteria, le donne che non curano il loro aspetto.

Un’onda di ricordi mi sommerge: dimentica dei dottori e del tè che si raffredda, mi siedo e chiudo gli occhi, lasciandomi cullare dalle immagini di una vita.

 

                       

 

 
 
 

DUE LIRICHE POETICHE

Post n°243 pubblicato il 25 Marzo 2014 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

DUE LIRICHE POETICHE

 

 

 

PRESENTAZIONE

 

Con questa nuova stagione primaverile, riprendo la pubblicazione di alcune liriche, poesie e racconti (o parti di racconti) di noti Autori degli anni passati, forse’anche poco conosciuti o addirittura per niente ricordati dalla (cosi detta) letteratura moderna. Perciò, penso fare cosa gradita alle mie Lettrici, ai miei Lettori, sottoporre alle loro letture i “frutti” di pregevoli Menti compositive.

Leggerò con molta attenzione i vostri commenti, le vostre note, per cui ai vostri graditi interventi, sarà assicurata la mia risposta.

 

*** 

 

MANDAMI UNO SPICCHIO DI LAGO

Autore: Poetessa Antonia Migliaresi -

 

 

Mandami aria di lago

tu che conosci ogni brezza

che, assaporandola

la respiri nel cuore.

 

Trasmettimi i colori dell’acque

mentre, immergendoti,

riconosci ogni corrente

e da essa ti lasci cullare..

 

Fammi risentire la pace inquietante

di un Lario troppo silente…

 

Inviami una piccola falce

di quella luna arrogante

che sempre si specchia incurante.

 

Raccogli perle di rugiada:

creami trasparenti collane

per adornare il nudo mio collo.

 

Vestimi di profumi lacustri:

preziose essenze

di lussureggianti oleandri,

fiorite azalee

e aromatici rosmarini…

 

Donami solo uno spicchio

dell’amorevole incanto

che stai abbracciando con gli occhi,

or che, lontana… anelo ritornare.

 

Antonia Migliaresi.

 

 *** 

 

NON MI SPEGNERÒ...

Autore: Sandro Ciapessoni di Tremezzo (Como)

 

 

Non mi spegnerò

anche se vedrò negli occhi suoi

quel velo che offuscherà sua luce.

 

Non mi spegnerò

quando sue mani inerte

mi priveranno di carezza lieve.

 

Non mi spegnerò

allorché il suo volto

non donerà la gioia del sorriso.

 

Parola alcuna mi donerà conforto,

e lacrime 'nulle'

mai sazieran mio volto.

 

Scivola il giorno

e scorre il quotidiano:

ma il tutto è un vuoto al battito del cuore.

 

Del bel mirar  d'amore

mi rimarrà com’ombra il suo ricordo...

i giorni lieti, le morbide sulle labbra.

 

Io sorridevo al sole...

Ma Tu dimmi se mi ricordi!

Cangiata non  s'è la fiamma

che sempre cova su rossa brace viva.

 

Penso all' “antico Amore”

incancellabile nel cuore;

Ninfa leggiadra dentro la mente mia

iddia sublime nell'ultima mia via.

 

 

Sandro Ciapessoni.

 

 

 

 
 
 

BETTINA BRENTANO - W. GOETHE : Lettera da epistolario.

Post n°242 pubblicato il 13 Novembre 2013 da ciapessoni.sandro

 

 

 

 

Vienna, 28 maggio 1810.

 

Quando vidi colui, di cui voglio ora parlare, mi dimenticai di tutto il mondo; e anche adesso, quando il ricordo mi prende, il mondo scompare; sì, scompare.

L’orizzonte mio comincia ai miei piedi, s’incurva sul mio capo ed io sto in mezzo ad un mare di luce, che si sprigiona da te; in una calma profonda mi libro con placido volo verso di te, oltre i monti e le valli…

Oh lascia ogni cosa, chiudi i tuoi chiari occhi, vivi un istante in me, dimentica quanto si interpone fra me e te, le lunghe miglia ed anche il lungo tempo… Guardami dal punto in cui ti vidi per l’ultima volta…

Oh stessi ancora davanti a te!… Oh potessi esprimermi chiaro!…

Che profondo brivido mi scuote, quando, contemplato per qualche tempo il mondo con lui, guardo indietro verso la mia solitudine e sento come tutto mi è estraneo!

Eppure come è che ancora rinverdisco e rifiorisco in questo deserto?…

Di dove mi viene la rugiada, l’alimento, il calore, la benedizione, il bene?…

Da questo nostro reciproco amore in cui sento me stessa così graziosa… Se io ti fossi vicino, vorrei restituirti molto, in compenso di tutto…

 

E’ Beethoven colui, di cui voglio ora parlarti e presso cui mi sono dimenticata del mondo e di te. Io sono assai bimba ancora, ma certo non sbaglio se dico (ciò che forse nessuno ora intende e crede) ch’egli cammina ben innanzi a tutta l’umana civiltà, e chi sa se mai lo potremo raggiungere!… Io ne dubito. Possa sol vivere fino a quando il possente e sublime enigma che è nel suo spirito abbia raggiunto, maturando, la sua più alta perfezione: sì, possa toccare la sua ultima meta.

Allora ci lascerà nelle mani la chiave di una scienza celeste, che ci solleverà verso la vera beatitudine.

A te posso ben confessarlo: io credo ad un fascino divino, che costituisce l’elemento della natura spirituale. Questo il fascino che esercita Beethoven nell’arte sua. Tutto quello che si dice per illuminarti, è pura magia; in lui ogni atteggiamento tende a costituire un’esistenza superiore, e in tal modo Beethoven sente d’essere il fondatore di una nuova base sensibile alla vita spirituale. Tu riuscirai certo ad intuire che cosa voglio dire e quale sia la verità.

Chi potrebbe sostituire per noi tale spirito?

Da chi potremmo aspettarci un equivalente?…

Egli stesso ha detto: “Quando apro gli occhi, sono costretto a sospirare, perché ciò che vedo contrasta con la mia religione, e sono forzato a sprezzare il mondo che non avverte che come la musica sia una rivelazione superiore ad ogni sapienza e filosofia. Essa è il vino che dà l’estro a nuove creazioni, io sono il Bacco che spreme per gli uomini questo mirabile vino e li inebria nello spirito.

Che se in seguito tornano in sé, vuol dire che essi hanno fatto di tutto per afferrare quanto li aiuti al regime secco…

Io non ho amici, debbo vivere solo con me; ma so con certezza che Dio nella mia arte è più vicino a me che non agli altri uomini; io lo pratico senza paura, ché l’ ho sempre riconosciuto e compreso. Né mi preoccupo della mia musica, ché non può avere una brutta sorte. Chi la comprende, deve necessariamente liberarsi da tutte le miserie, che gli altri trascinano con sé…”.

Tutto ciò Beethoven me lo disse la prima volta che lo vidi; ed io fui pervasa da un senso di rispetto nel vedere con quanta benevola franchezza si esprimesse con me, quantunque io dovessi essere ben insignificante ai suoi occhi…

 

“Parli a Goethe di me, gli dica che vada a sentire le mie sinfonie; allora converrà con me che la musica è l’unica porta immateriata, onde si accede in un mondo superiore della conoscenza, il quale abbraccia l’uomo ma non può essere abbracciato. Occorre il ritmo dello spirito per comprendere la musica nella sua essenza; essa dà l’intuizione e l’ispirazione delle scienze celesti, e quello che lo spirito vi percepisce materialmente, è incarnazione di conoscenza spirituale…

L’arte, così, rappresenta sempre la divinità, e il rapporto umano con l’ arte è religione. Ciò che raggiungiamo con l’arte proviene da Dio, è ispirazione divina, che prefigge alle facoltà umane la meta che egli raggiunge…”

 

Io gli promisi di trascriverti tutto, per quanto posso comprendere io. Egli mi condusse alla prova di un gran concerto a piena orchestra.. Mi ero seduta tutta sola in un palco dell’ampia sala, quasi al buio. Attraverso fessure e fori filtravano strisce di luce, ove danzava su e giù una fiumana di scintille multicolori, che dava l’impressione di vie eteree popolate da spiriti beati. Lì, scorsi questo immenso spirito dirigere la sua orchestra. Oh Goethe, nessun imperatore o re ha tanta coscienza del suo potere, e che ogni forza si sprigiona da lui, quanto questo Beethoven, che pur dianzi, in giardino, ricercava la causa, onde a lui veniva ogni cosa. Se io lo capissi come lo sento, saprei tutto.

Egli stava lì così fermo nella sua decisione; i suoi movimenti ed il suo volto esprimevano la perfezione della sua creazione; preveniva ogni sbaglio ed ogni equivoco; non un soffio era arbitrario; tutto era trasferito nella più cosciente attività dalla gigantesca presenza del suo spirito… Piacerebbe preconizzare che un simile spirito ricomparirà in una più matura perfezione come un dominatore del mondo.

 

Ieri sera ho trascritto tutte queste cose; stamani le lessi a Beethoven, ed egli disse: “Io ho detto questo?… e allora è segno che ero in estasi!”. Egli rilesse ancora una volta attentamente, cancellò qua e là, scrisse tra le righe, perché quel che conta per lui è che tu capisca.

Procurami la gioia di una pronta risposta, che provi a Beethoven che tu lo stimi. Abbiamo sempre avuto il proposito di parlare di musica; sì, questa era anche la mia volontà; ma adesso soltanto sento, in virtù di Beethoven che io non sono da tanto.

 

 

Bettina.

 

 
 
 

OLEA FRAGRANS - Opera lirica dello scrittore Sandro Ciapessoni

Post n°241 pubblicato il 30 Ottobre 2013 da ciapessoni.sandro

 

 

OLEA FRAGRANS…


 

 

Mi risvegliai stamani...

e mi trovai poggiato

sull’omero sinistro sopra il cuore,

viso estasiato di vergine fanciulla.

 

Sue ciocche bionde

scendevan sciolte a ricoprir mie spalle...

ed era bella; bella assai più del giglio

e profumato era in suo sentire.

“Olea fragrans” giaceva sul mio petto

e tutto... tutto m’inebriava.

 

Immersa ancora in quel sereno velo,

io mi restavo immobile

e mi beavo a rimirar suo viso

le morbide fattezze... sentivo il suo respiro!

 

Nulla malizia a concedere voleva

ma... piccolo seno dove pulsava amore

ignara ai miei pensieri, ella mostrava;

ed era... sì, come invitarmi al bacio...

ed io... io mi tentavo!

 

Non volli, no! sciupar sì dolce Poesia:

e… temevo il suo risveglio;

immobile, io la guardavo.

 

Ella dormiva placida sua notte,

sonno tranquillo, ingenuità d’amore,

goccia di paradiso che il Cielo mi donava.

 

Ed era bella, bella come allora...

poiché... sì, io la riconobbi!...

l’esile ragazzina degli anni verdi miei!

 

Nulla era cambiato in lei,

semplicità, dolcezza ed innocenza...

ed era sempre quel candido bel fiore!

 

Al suo risveglio noi ci guardammo...

e fu... nell’intimo dei cuori,

null’altro... null’altro osando!...

 

Ma scorsi in lei, nel suo profondo sguardo

l’antica sua amarezza mai estinta

che il dolce suo mostrarsi esternamente...

sapientemente... ancora mi celava!

 

Io... leggermente, le accomodai sul petto

sue bionde chiome e le copersi il seno,

ma non di baci...

 

Era per me la ragazzina antica

che ancora mi si mostrava!

 

Ed io m’accorsi poi, che ancora...

che ancora ella mi amava!

 

 

Sandro Ciapessoni.

 

 
 
 

DOLCE E' IL TUO LABBRO ... - Lirica di Ciapessoni Sandro

Post n°240 pubblicato il 18 Ottobre 2013 da ciapessoni.sandro

 

DOLCE E’ IL TUO LABBRO…

Dedicata all’ultima mia Trinità Terrena.

 

… e sull’Empireo Cielo

un serto di Mughetti e Mirto

attende il coronar tue chiome.

 

Non è possibile!…

Non è possibile distruggere l’Amore.


Alma mia Lady

Sublimami con tue carezze

ed io ti canterò le Voci del mio cuore.

T’innalzerò sul talamo dei sogni

Ti canterò tua angelica dolcezza,

la luce che diffonde il tuo sorriso;

e, non temere se il ciglio ti accarezza!


Dolce è il tuo labbro alla lusinga e al bacio

e più non trema

come ala di farfalla

vibrava un giorno sull’agitato stelo…

O Musa Iddia!

Ascendi meco all’inviolato Olimpo,

l’Olimpo delle gioie e degli Amori.

 

Col tuo candor benigno

sommergimi nel delicato tuo profumo

e placami col dolce tuo sorriso

 

In armonia coi cantici del cuore

socchiudi gli occhi tuoi…

apri tue braccia…

Sì! Cadranno i bianchi veli;

mi cingerai allora coi balsami d’Amore,

 

Sciogli tue chiome al vento di borea

or che sui rossi petali

del fior di melograno

si posa il sacro canto

del Salmo mio d’Amore.

 

E quando Espéra annuncerà il tramonto,

ed Acquapazza al vespero di fuoco

pronuberà di baci

il roseo tuo dolce viso,

superbe, germineranno sui bianchi colli

primarie fonti di sostanza e vita

e i teneri rinchiusi Fior dei baci

l’aere profumeranno come ciprigno altare!…

 

E… fragole di bosco, io bacerò… baciando.

 

Nell’estasi divina

Alma mia Lady ultima Iddia

sublimerem “Gioire…”;

gioir gioire!…

e perdersi… per ritrovarsi ancora

nell’estasi d’Amore!

 

Un serto di Mughetti

spiegato al verde consacrato mirto

si poserà così sul capo

a coronar tue chiome.

 

Fieri non potest…

fieri non potest Amorem delere!

 

Sandro Ciapessoni

 
 
 

RUSTICHE CASE, RUSTICO RISTORO - opera lirica di: Sandro Ciapessoni

Post n°239 pubblicato il 11 Ottobre 2013 da ciapessoni.sandro

 

 

RUSTICHE CASE...

 

Rustiche case... rustico ristoro.

Un’osteria sul bordo della via

e un pino accanto all’orto, sul pianoro.

 

Lungo il bel prato fin sotto a grigia rupe,

arbusti di campanule violacee

screziate con colori bianco e rosa,

ornavano selvatiche in natura

sconnesse pietre antiche a mo’ di mura.

 

Protetto e custodito

come familiarmente avvezzo,

nell’ora cui meriggio

vuol tacita a diletto,

sotto il bel pino ombroso

gustavo il buon sorbetto.

 

Nella stagione cui sole si scatena,

sul limitar del prato e l’osteria,

un pergolato verde d’uva spina

il fresco refrigerio mi porgeva,

mentre, su libro chino, cannuccia in mano

i primi rudimenti del sapere

aprivano mia mente al mio dovere.

 

Sul tavolato in pietra

e all’ombra degli intrecci d’uva amara,

io qui compresi a ricordar qual pietra,

aste diritte ed aste... col rampino,

il tondo della “o” e i segni col puntino,

poi... sulla pietra dura, poggiando mani al viso,

io reclinavo il capo... sognando il mio destino.

 

Prati, colline e monti!...

Dolci profili familiari e forti

che abbracciano solari l’orizzonte.

Folte robinie e schiere di sambuco

dove la chiara roggia scorre presso il “ponte”...

io vi conobbi allora,

quando in estate il sole si scatena,

quando cicale e grilli

allietano giornate in fino a sera.

 

Io vi conobbi all’alba

col sorgere del sole,

con l’animo sereno

di candido bambino,

guardando un cielo puro

disgombro dalle nubi

e il volteggiar di rondini festanti

e di colombe, in cerca di ristoro.

 

Guardando amene valli

al tramontar del sole...

i poggi dell’Usèria,

la bianca casa col segno di Maria,

la cima del Crocino e a fondo valle

la selva scorticata a pie’ del monte.

 

Le fredde “piode” erose e levigate

giù nella rongia poste...

consunte da ginocchia

cui l’acqua lor lambiva,

rubando anche il sudore

che il caldo lor forniva.

 

Conobbi allora i segni

del ricordar soave e genuino

che in fino ad oggi dominano

la via del mio cammino.

 

Dei personaggi tipici del luogo

ricordo... il contadino anziano e rosso

vestito di fustagno liso e smunto:

i baffi rossi attorcigliati e a punta,

il calice di vino poggiato sovra un soglio

mentre bocciando con fragor sul ciglio,

centrava quasi sempre il suo bersaglio.

 

Mi sveglio da quel sogno...

e nello specchio azzurro ed infinito

rivedo i tempi antichi... ma ancor vicini,

sì, che emozioni amare e sconsolate

invadono con forza le mie vene.

 

La cima del Crocino è sempre verde!...

I poggi dell’Usèria, immobili e solenni

mi additano lontano lor tramontare eterno.

 

Nei prati che da Ponte vanno a Brenno

lungo il sentiero dove il sambuco odora,

ancora scorre giovin roggia

antica un tempo... che sempre m’innamora.

 

Ma sulla fronte mia e sul mio viso,

ahimè, profondi stanno i segni

della trascorsa vita... e del destino.

 

 

Sandro Ciapessoni.

 

 
 
 

AUTUNNO IN "COSTA PRADA" Lirica di: Sandro Ciapessoni

Post n°238 pubblicato il 01 Ottobre 2013 da ciapessoni.sandro

AUTUNNO IN "COSTA – PRADA

 

Frammisto al verde stanco delle chiome,

il tenuo color del miele,

foriero mi conferma

il presto rifiorir del crisantemo.

E nelle valli, le boscose ripe

oggi son meste,

ma dentro il mio pensare,

l’inusitato amaro mi sovviene.

 

Inappagata è ancor

l’antica Genitrice,

sì che implacabile mi dimostra

l’inesorabil transitar terreno

d’ogni sua forma o vita.

 

Sulle variate tinte delle valli

si desta appassionato

il cantico del cuore:

"Quest’ampio cielo

accoglie in sé le doglie

delle ingiallite foglie,

e il lor posar terreno

è il cantico autunnal

alle appassite spoglie".

Sui ripidi declivi del San Primo,

protette da penombra ben discreta,

dormon le selve.

Il soffice lenzuolo della bruma

riveste mattutino la brughiera.

Ardita da rugiada settembrina,

l’aria, è pungente sulla verde china.

 

Nei boschi, negli anfratti delle valli,

il suolo attende al suo novello stuolo:

nei boschi declinati verso il sole

il suolo attende un tiepido giaciglio

pe’ il candido, robusto bucaneve.

S’ode lontano il mormorar festante

del rivolo novello frusciante verso il piano.

 

Ma dentro in "Costa - Prada"

e "Pra’ - Filippo"

fino a "Rovenza" e "Guello"

e ancora giù fin "Chévrio",

i secolari faggi stanno solenni al cielo,

ad ombreggiar le balze coi larici montani.

 

E al vespero silente della sera,

quando la luna imbruna sulle cime,

si desta suggestivo in "Costa - Prada"

l’attesa misteriosa della sera.

 

Alta è la notte su nel ciel d’autunno!...

le notti al gran contorno delle stelle.

 

Sfiorano i faggi...i lembi della luna!

 

 

 

Sandro Ciapessoni

 

 
 
 

INTERPRETAZIONI E MEMORIE dello Scrittore: duca Tommaso Gallarati Scotti

Post n°237 pubblicato il 20 Settembre 2013 da ciapessoni.sandro

INTERPRETAZIONI E MEMORIE – dello Scrittore e storico: Duca Tommaso Gallarati Scotti.

 

Omaggio alla Sua memoria:

 

Malinconia del Manzoni

 

***

Varie volte mi sono posto il quesito sui motivi della solitudine del Manzoni, che si rivela anche nell’apparente indifferenza del pubblico per la sua tomba. Poiché di essa alcuni hanno parlato e scritto in questi ultimi anni, ma a dire il vero non mi sembra che l’argomento tocchi e muova a fondo larghe correnti di sentimento cittadino o nazionale, e secondo informazioni che ritengo assai attendibili, il numero dei visitatori al luogo della sua sepoltura si va di anno in anno assottigliando fino a poche decine di persone.

Proprio il contrario di quanto ho constatato io stesso, avviene per la commemorazione di Shakespeare a Stratford on Avon dove la cerimonia ufficiale, cui partecipa anche l’intero corpo diplomatico, è una sol cosa con l’imponente, cordiale rito della folla d’ogni colore e d’ogni ceto, e in cui ciascuno porta il suo rametto di rosmarino al sepolcro del poeta, nell’austera chiesa parrocchiale dove fu battezzato e ora dorme il suo gran sonno in riva al lento fiume che scorre tra i verdissimi prati.

Perché, mi domandavo, qualcosa di simile non meriterebbe tra noi l’autore dei Promessi Sposi?

La risposta me la sono data, in parte, in una mia recente visita al Famedio, ove anch’io non avevo più messo piede da anni lontani, poiché in quell’agnostico, semivuoto e rimbombante tempio della fama, della “eredità di affetti” che ci lasciò il Manzoni nessuno, religioso o laico che sia, ci ritrova più nulla.

In quell’edificio costruito a freddo nello stile ibrido degli anni architettonicamente infelici intorno al ’70 (1870 ndr) con certe reminiscenze toscane che sembrano un ironico castigo per chi volle risciacquare i suoi panni in Arno, il Manzoni, anche morto, ci sta a disagio. Lo sentiamo spaesato – lontano dai più cari che amò e parteciparono alla storia della sua vita interiore e che riposano insieme nel cimitero del Brusiglio – lontano dal paesaggio di quel ramo del Lago di Como che come poeta gli appartiene e in cui mossero le figure – lontano infine da quella pietà per i morti, così commossa e calda nella Chiesa, da essere desiderata anche da pensatori liberi.

Ed è questa lontananza, nella morte, da tutto ciò che fu più suo, dalla sua vita più umana e più vera, che lo ha discostato e lasciato in solitudine, senza che la massa degli umili, il popolo che fu il più vicino al suo cuore, si ricordi ormai di rivolgere uno spontaneo tributo riconoscente a ciò che fu mortale di lui. Oblio che ci appare tanto più singolare perché in contrasto con l’appassionata e crescente comprensione dell’opera sua nelle sfere intellettuali e dell’alta cultura, sì che il Manzoni che noi sentiamo e riconosciamo oggi nella sua poesia e nella sua personalità, è un Manzoni che, grazie alla critica, è ben maggiore di quello che gli italiani accompagnarono con onori sovrani al Cimitero Monumentale nel 1873.

Il Manzoni sale. Il Manzoni si rivela, di giorno in giorno più, un genio creatore e rinnovatore e il suo romanzo si accresce nell’acuta indagine del suo segreto, allargando la commozione che suscitano i Promessi Sposi ben oltre i confini nazionali, come io stesso constatai con orgoglio di italiano all’apparire della bella traduzione inglese del Colquhoun, che per il mondo anglosassone fu una fresca rivelazione. E alla scoperta del Manzoni poeta si accompagna intanto una sempre maggiore penetrazione della sua spiritualità e di certi caratteri della sua esperienza religiosa che lo pongono sul piano dei sommi scrittori dei misteri di Dio e della grandezza e miseria dell’uomo.

Né credo in questo di esagerare; poiché Pio XI il romanzo e gli Inni Sacri del Manzoni se li teneva – ricordo – sul tavolo di lavoro, nella sua biblioteca, accanto ad opere venerande di Padri e Dottori della Chiesa. Valutazione di un Pontefice che mi fu confermata anche in un pittoresco racconto del defunto monsignor Arboreo Mella di Sant’Elia, Maestro di Camera di Sua Santità. Il prelato aveva dovuto un giorno, per ragioni di ufficio, presentarsi al Papa a ora insolita. Il Santo Padre stava leggendo. Senza alzar gli occhi dal libro, con un cenno, aveva fatto avanzare il prelato fino ai suoi piedi. Poi senza invitarlo, come di consueto, a sedersi: “ Ascolti, Monsignore… “ disse “ sto leggendo un mirabile capitolo dei Promessi Sposi… “. E continuò a leggere a voce alta. Era il capitolo della conversione dell’Innominato. Pio XI, si solito esteriormente freddo e contenuto nell’espressione dei suoi sentimenti, si animava sempre più; si accendeva. A momenti si interrompeva, commosso: “Ma chi ha mai penetrato così a fondo nell’animo umano. Chi?… chi ha compreso certi turbamenti, certe angosce che preparano il ritorno di Dio?”. Il prelato faceva accenni di assenso col capo;ma non vedeva l’ora che la lettura finisse. Solo a libro chiuso, il Papa si accorse del pover’uomo e lo fece sedere, benevolmente; non senza però che a monsignor Sant’Elia, che conosceva bene il suo Signore, sfuggisse un certo trascorrente pensiero dietro le lenti degli occhiali… “Ah! Monsignore… sono pagine che una volta in vita val bene la pena di averle ascoltate in ginocchio!…”.

Con ciò non ritengo che Pio XI pensasse in quel momento a una possibile beatificazione o canonizzazione futura del Manzoni. Per quel tanto che ricordo di certi suoi discorsi, non mi par proprio ch’egli lo preconizzasse come un santo da altare. Ma era uomo di cultura e indagatore della storia e delle glorie della Chiesa per non sentire che certe figure di prima grandezza – Dante, Michelangelo…- hanno portato al cattolicismo tesori di una luce diversa da quella della santità eppur divina, e che nel lume del genio vi è sempre un lampeggiar riflesso dello Spirito creatore.

Ma quanto più il Manzoni ascende nella sfera degli “spiriti magni” più egli si libera dal ristretto cerchio degli stessi suoi ammiratori che lo vorrebbero far loro e tenterebbero mettere un’ipoteca spirituale al suo modo di pensare, di credere: sulla sua politica e filosofia. Troppi hanno preteso di dire “è nostro” , (i manzoniani per i primi) . Però a studiarlo bene il Manzoni non è di nessuno. E’ Manzoni con la sua originalità e complessità che non riescono ad essere contenute negli schemi scolastici delle classificazioni correnti. Difficile inquadrarlo nella stessa letteratura dell’800, o rintracciare le origini di quella che è veramente “novità” della sua ispirazione. La sua non è dunque solitudine di dimenticanza: è solitudine di grandezza.

Anche nella Chiesa. Quando fu prospettata l’eventualità di una traslazione della sua salma in un tempio consacrato al culto, vi è stato un certo senso di disagio nelle stesse gerarchie ecclesiastiche, non sapendo bene dove avrebbe potuto essere collocata. Fu avanzata allora la proposta di seppellirlo a San Fedele; la sua parrocchia, la chiesa dove sentiva Messa e partecipava ai sacri riti, dando buon esempio a tutti di devozione cristiana. Certo sul piano dell’edificazione la proposta poteva sembrare la più semplice e la più logica. Ma non è chi non senta che è soluzione in tono minore, per cui Alessandro Manzoni viene giudicato sotto il punto di vista del buon parrocchiano della Contrada del Morone; del don Lisander, come ambrosianamente lo chiamavano nel quartiere, additandoselo mentre saliva la scalinata della chiesa, già un po’ curvo, appoggiato al braccio di un familiare, in marsina nera e col cilindro dal pelo arruffato.

A parer nostro, invece, al grande, solitario Manzoni dell’Adelchi, della Pentecoste e dei Promessi Sposi, una sola sepoltura spetterebbe di diritto, con universale consenso e non di parte: in Duomo; nell’aereo tempio che è centro secolare della città in cui nacque, con la sua guglia sottile lanciata verso i cieli come una muta preghiera affidata al marmo, che si libera dalla massa grigia e greve della metropoli, portando su in alto la Madonnina scintillante di sole o velata di nebbia, non indifferente agli stessi indifferenti per un certo senso di religione che è nel cuore di tutti. La soluzione della sepoltura in Duomo non offenderebbe alcuna suscettibilità laica, né sarebbe in contrasto col Famedio, quasi per una sottrazione ai diritti che il Comune ha di onorare i suoi grandi, poiché Duomo e Milano sono una sol cosa col sentimento del popolo milanese. In Duomo; accanto a quel cardinal Federigo Borromeo alla cui glorificazione l’autore dei “Promessi Sposi”, mise tanto di sé, della sua arte e del suo pensiero, fino a farne l’espressione più alta di ciò che sentiva e pensava del sacerdozio cattolico e della porpora stessa, illuminati non solo dalla santità della vita, ma anche dalla fortezza del carattere e da un integrale umanesimo.

Nell’ombra sacra della selva gotica, dove si svolge nella sua grandiosità austera la sacra liturgia, dall’alba al tramonto dei nostri giorni fuggenti, e dove il tremulo sciame dei lumicini parla di colloqui segreti in cui la femminetta “espone della sua immortale alma gli affanni”.

Non occorrerebbe altro fasto di sepolcro per il poeta dello Spirito Santo, e di due giovani sposi contadini. Basta un sarcofago nudo, di pietra, e il suo nome.

 

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