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Creato da gabriellatiganisava il 21/12/2008

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Kandinsky a Pisa: dalla Russia all'Europa

Post n°223 pubblicato il 09 Marzo 2013 da gabriellatiganisava

 San Giorgio II - 1911

L’arte con l’anima di Kandinsky

 Dalla Russia all'Europa: Pisa-Palazzo BLU, 13 ottobre 2012- 3 febbraio 2013

Com’è noto, l’astrattismo si ispirò all’ideale di un’arte pura, spirituale, che non si pone come obiettivo la mera rappresentazione della natura, ma l’assenza delle figure, la teorizzazione di esse, mediante colori, linee e forme-simboli. Tra i padri dell’astrattismo ricorderemo il pittore russo, Wasilij Kandinskij (1866-1944): chi scrive nutre una vera predilezione per questo raffinato e colto artista, dalla biografia atipica per un pittore. Nato a Mosca, prima di consacrarsi all’arte, fu avvocato e promesso alla carriera accademica. Intorno ai trent’anni si trasferì a Monaco di Baviera e qui si concentrò sullo studio dell’arte popolare russa e della pittura. Sempre nella cittadina tedesca incontrò Paul Klee con il quale avviò una duratura e profonda amicizia. Inizialmente i dipinti di Kandinsky furono contagiati dal pointillisme, ma poco tempo dopo, l’artista maturerà uno stile più personale, staccandosi dalla pittura figurativa per abbracciare l’astrattismo. Dalla frequentazione di alcuni pittori, tra cui colei che diverrà anche la sua compagna di vita, Gabriele Munter, - altri sono Franz Marc (autore del dipinto “Grandi cavalli blu” 1911), August Macke, Franz von Stuck, Jawlensky, lo stesso Klee –nascerà il gruppo Der Blau Raiter (Il cavaliere azzurro, 1911, Monaco). La scelta del nome (quadro omonimo di Kandinskij ed almanacco del gruppo) non fu casuale: il blu è per gli astrattisti il colore della spiritualità, dell’anima, mentre la figura del cavaliere si ispira a San Giorgio, il miles per eccellenza., vittorioso del Bene sul Male. A questo periodo risalgono anche le tre serie di opere note come Improvvisazioni, Composizioni e Impressioni.

Rientrato a Mosca, l’artista partecipò attivamente alla preparazione della Rivoluzione bolscevica del ’17: nel frattempo si mantiene insegnando arte nella sua città natale. Nuovamente a Monaco, assieme a Klee, partecipò al Bauhaus di Weimar, la stagione artistica che prelude al primo conflitto mondiale, da cui però si allontanerà negli anni Venti. Da allora, i suoi dipinti saranno sempre più ispirati al geometrismo (vicino alle scelte pittoriche di Mondrian), soprattutto alle figure del cerchio e del triangolo,  senza però mai abbandonare l’espressione forte dei colori cui attribuisce dei significati.

Kandinsky fu anche autore di un libretto alquanto anticipatore della stagione dell’arte astratta, intitolato: “ Lo spirituale nell’arte- (1911)”. In esso l’artista scrive: "la pittura non deve imitare la natura, ma deve lasciare liberi colori e forme, come succede ai suoni in musica. Non c’è bisogno di dipingere il cielo. Il blu da solo può dare, più e meglio del cielo, un’idea di quiete, di tristezza, di distanza o d’altro ancora. E inoltre: “l’artista deve avere qualcosa da dire, perché il suo compito non è di dominare la forma, ma di adattare la forma al contenuto”. Quindi Kandinsky suggerisce un’arte con l’anima, non formale, non figurativa, non imitazione del mondo reale, ma piuttosto proiezione dell’interiorità, della spiritualità, influenzata dal mondo delle sensazioni, dal mondo dell’Essere. Paradosso fu che l’epoca in cui Kandinsky scriveva sull’arte e componeva le sue opere (bellissimo il dipinto ospitato alla mostra di Pisa, “San Giorgio III”- 1911) – siamo ai primi del ‘900 – si aprirà con i due conflitti mondiali, della rivoluzione bolscevica, degli scontri di classe; il secolo "breve" delle ideologie, del nazismo e del franchismo, dello stalinismo, quindi un periodo storico per nulla “spirituale” ma all’opposto, ricco di violenti contrasti, di terribili sconvolgimenti planetari, di autoritarismi e genocidi. Tutta la produzione artistica del periodo è pervasa da un’inquietudine che preconizza le grandi tragedie del XX secolo. Ma l’arte, si sa, è sempre qualcosa di diverso anche se nel contempo espressione del periodo storico in cui essa deve essere cronologicamente contestualizzata; fortunatamente essa si eleva, qualche volta in maniera sublime, al di là del tempo e dello spazio, al di sopra delle miserie umane, arrivando a sfiorare le vette inarrivabili dai terreni, del non-umano, di ciò che rientra già nella sfera del Divino.

M. Gabriella Tigani Sava

 
 
 

Salviamo l’Italia

Post n°221 pubblicato il 20 Luglio 2012 da gabriellatiganisava

SALVIAMO L'ITALIA

Recensione libro di Paul Ginsborg

Salviamo l’Italia

Il titolo del recente saggio (Salviamo l'Italia, Einaudi Editore, Torino, ottobre 2010) del prof. Paul Ginsborg, fine interprete della storia contemporanea d’Italia, appare come un affettuoso e sollecito invito rivolto al popolo italiano, a riflettere sui mali della società e quindi ad attivarsi al fine di salvare il paese dal baratro, morale e culturale, in cui sembra essere scivolato oramai da molti decenni. Lo storico inglese, il quale ha ottenuto nel 2009 la cittadinanza italiana, traccia dei parallelismi tra l’attuale situazione italiana e quella esistente agli albori del Risorgimento, quando la nazione Italia doveva ancora essere unificata e costruita. Così Ginsborg scrive nel prologo “Piuttosto vorrei che le voci del Risorgimento si mescolassero – quasi in presa diretta – alle nostre”. Conoscere quale fosse il pensiero degli intellettuali protagonisti del risveglio italiano, potrebbe tornare utile a coloro i quali abbiano a cuore il futuro del proprio paese. Il punto di partenza, uguale per i patrioti italiani e per noi contemporanei, è il declino dell’Italia. Clientelismo, corruzione pubblica, mancanza di progettualità di ampio respiro da parte dei governanti, primato della criminalità organizzata, disoccupazione e mancanza di senso civico a livello familiare (familismo), sono gli indicatori odierni di un paese gravemente ammalato, che necessita urgentemente di una diagnosi approfondita e di cure adeguate.

Oggi come allora, il degrado del paese si evidenzia in tre ambiti, storico, familiare e culturale. Come scriveva il Sismondi nel 1833, l’Italia anche oggi è “corrotta e snervata”. Nel primo capitolo intitolato “Vale la pena di salvare l’Italia?” Ginsborg ripercorre l’itinerario seguito dai patrioti italiani per i quali la salvezza dell’Italia costituiva la ragione della propria esistenza. Tra i tanti, il Cattaneo proponeva un’idea della storia (condivisa anche dal Cavour) che contrastava con quella di Campanella, Machiavelli e Vico, poiché, anziché centrata sulla convinzione di un ineluttabile “circolo fatale”, era al contrario, basata sulla “consolante dottrina del progresso”, ossia sul fiducioso ottimismo nell’evoluzione dell’umanità e nel suo cammino, non privo di ostacoli ed errori, “verso la meta della scienza e della civiltà”. Una visione della storia “consolatoria” nel 1839– scrive Ginsborg – “e lo è per noi oggi” prosegue.

Una distinzione importante, che si ricollega alla domanda “Vale la pena salvare l’Italia?”, è quella tra patriottismo e nazionalismo. Il primo, come scrisse Orwell nel 1945, è amore difensivo per il proprio paese, il secondo, per sua natura, è aggressivo ed espansionista. E pensando all’Italia, che tipo di patria-nazione va difeso e salvato?
L’Italia, scriveva Vincenzo Gioberti nel 1843, gode di “un naturale primato nella sfera specifica delle idee e delle convinzioni, religiose, storiche, letterarie e scientifiche” e questo primato è sicuramente da salvare, oggi come ieri.

Ginsborg prosegue nella sua tesi, indicando quattro caratteri propri della storia del nostro paese, ossia l’autogoverno municipale, la vocazione europea dell’Italia, la ricerca dell’eguaglianza, la mitezza. /continua…

M.Gabriella Tigani Sava

 
 
 

NOI CREDEVAMO

Post n°216 pubblicato il 06 Gennaio 2012 da gabriellatiganisava
 

NOI CREDEVAMO

In cosa credevano i tre giovani meridionali protagonisti del film di Mario Martone, coprodotto dalla Rai e andato in onda sugli schermi televisivi da pochi giorni? A quale idea di nazione essi erano fedeli? Quale teoria politica seguivano? Cosa era veramente che spingeva loro a patìre le sofferenze delle carceri borboniche, ad adottare la fuga e la clandestinità come stile di vita, ad offrire il sacrificio della propria vita?

Il processo risorgimentale italiano è un fenomeno assai complesso e che si presta a diverse interpretazioni, come quelle filosabaudiste, filomazziniane e filodemocratiche e ancora "meridionaliste" e "antimeridionaliste". Il regista Martone ha cercato di ricostruire, ma solo in parte a nostro avviso, attraverso le esperienze dei fratelli Domenico e Angelo e dell'amico Salvatore, le lotte portate avanti dai patrioti liberali italiani durante il XIX sec., per la liberazione dall’egemonia straniera e per l’ unificazione dell’Italia. Se la storiografia di impronta gramsciana (Gramsci, ricordiamo, definì il Risorgimento come una “rivoluzione mancata”) tende a ridimensionare il coinvolgimento delle masse nel disegno politico ideato e tenacemente perseguito dalle classi borghesi e da quelle aristocratico-illuminate, quella più recente è invece focalizzata sulla simbologia delle lotta risorgimentale e sulla rivalutazione del contributo fornito dai ceti meno abbienti. Così scrivono Paul Ginsborg e A. Mario Banti nel saggio Risorgimento (Storia d’Italia Einaudi, Annale 22, 2007): “Contrariamente a una tesi che trova tutt’ora i suoi sostenitori, e che considera il Risorgimento una questione che ha riguardato poche e ristrette élites, se non addirittura, un uomo solo al comando (il Cavour, per esempio) crediamo corretto, da un punto di vista rigorosamente analitico- sostenere che il Risorgimento è stato un movimento “di massa”…sostenere che il Risorgimento è un movimento  politico “di massa” significa osservarlo dalla prospettiva da cui George Mosse ha studiato il movimento nazional-patriottico tedesco: entrambi sono declinazioni di una “nuova politica”, che nasce con la Rivoluzione Francese, e che… pone al centro dell’arena pubblica il popolo/nazione depositario principale della sovranità…”. Quali furono allora i valori risorgimentali? Quale la cultura dominante del periodo? I due autori proseguono osservando che la nuova cultura e il nuovo stile politico furono quelli dell’emozione e non della ragione, della razionalità. La cultura diffusa del periodo risorgimentale è basata su una serie di miti (es. la patria, ossia la nuova religione che affratellò il popolo italiano), di simboli, di allegorie che ebbe presa sull’opinione pubblica, che riuscì a smuovere le masse e spingerle alla partecipazione, alla lotta comune. Così il Banti: “Il messaggio fu così potente da convincere molti ad agire pericolosamente in suo nome, rischiando l’esilio, la prigione, la vita”.

    Nella foto Camillo Benso di Cavour - Ritratto di Francesco Hayez - 1864

Ritornando al film di Martone, tratto dall’omonimo romanzo di Anna Banti, anche i giovani ribelli furono trascinati da questa nuova cultura ottocentesca, affascinati dagli scritti soprattutto di Giuseppe Mazzini (ma anche di Ferrari e Cattaneo, di orientamento federalista, di D’Azeglio, di cui si ricorda la sua azzeccatissima frase, “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”) che, dal suo esilio a Londra, teneva le fila dei movimenti liberali in Italia e all’estero; i giovani patrioti italiani furono quasi ipnotizzati dal carisma di Giuseppe Garibaldi, il quale, com’è noto, entrò subito in contrasto con le forze moderate che non condividevano l’idea di un’Italia repubblicana, com'egli, forse troppo precocemente, avrebbe voluto.

Nel film di Martone poco delineata è la figura, invece centralissima, di Camillo Benso di Cavour, il vero stratega del Risorgimento italiano, colui che, in virtù delle sue straordinarie doti diplomatiche, riuscì a contenere l’”irruenza” dei garibaldini (utilizzandone però la forza dirompente) e a portare le maggiori potenze europee (allora Francia e Gran Bretagna) ad un riconoscimento della causa italiana. Senza l’intervento delle potenze straniere il processo di unificazione non sarebbe mai giunto in porto. Martone dedica molto (forse troppo) del suo lavoro cinematografico a Felice Orsini, autore dell’attentato (fallito) a Napoleone III, il re francese paladino del potere papale che ostacolò la realizzazione del sogno cavouriano (Libera Chiesa in libero Stato) reso successivamente possibile solo con la vittoria prussiana a Sèdan (1870) e quindi la neutralizzazione di Napoleone III. Ben tratteggiata risulta la figura di Cristina Trivulsio Belgiojoso, nobildonna sostenitrice e referente parigina dei ribelli italiani, protagonista della primavera romana del ’48-’49, assieme ad altre coraggiose eroine quali per esempio Margaret Fuller, giornalista americana, intima amica di Mazzini, femminista ante litteram, la quale auspicava un coinvolgimento degli Stati Uniti nella causa dei patrioti italiani (mai avvenuto, poiché gli Stati Uniti in quel periodo erano impegnati nei loro affari di domestic politic e comunque un loro intervento sarebbe stato vietato dalla dottrina Monroe) e, assieme alla Belgiojoso, si prodigò nella cura dei patrioti rimasti feriti, vittime degli scontri con le truppe regie e francesi guidate dallo spietato generale Oudinot.

Chi scrive (meridionale doc) ha notato come i dialetti parlati dai protagonisti siano poco credibili, difficilmente riconoscibili, uno strano miscuglio calabro-siculo-campano-pugliese a volte anche un po’ ridicolo. Si è apprezzato il tentativo del regista di raffigurare lo stato di confusione a livello politico , di disorientamento dei patrioti (spesso mal coordinati, equipaggiati ed anche male informati), di desolazione e arretratezza del Mezzogiorno. Le scene si avvalgono di un indovinato e suggestivo sottofondo musicale (repertorio di Bellini), di un cast di bravi attori (tra cui Toni Servillo nella parte di Giuseppe Mazzini, Luigi Lo Cascio, Luca Zingaretti, Anna Bonaiuto), di un’ ambientazione abbastanza convincente per quanto riguarda i costumi, le carceri borboniche, la mobilia e le abitazioni private.

Alla fine della visione del film sembra naturale chiedersi se il sacrificio di tante giovani vite, sia servito veramente a creare una nazione e un popolo italiani, soprattutto se la memoria storica di queste lotte servirà in futuro a tenere unito il Bel Paese o se risulteranno vincenti le forze disgregatrici e separatiste molto attive nel Nord. Quale forza avrà il nuovo bottom wind (vento che parte dal basso) e quale impatto avranno le nuove formazioni politiche (queste ultime dispongono di una necessaria consapevolezza storica per operare oppure sono la diretta espressione di ceti industriali interessati alla difesa dei propri mercati e del proprio benessere?) Il Mezzogiorno, da secoli vessato da classi politiche corrotte e clan mafiosi invincibili finora, riuscirà mai a riscattarsi dal suo difficile passato di crudeli dominazioni straniere e devastanti catastrofi naturali? Ci sarà bisogno di una nuova impresa dei Mille per riunificare il paese? A chi gioverebbe adesso una possibile divisione dell’Italia?

 Gabriella Tigani Sava

 
 
 

Firenze in ... FERRARI!

Post n°214 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da gabriellatiganisava

FIRENZE IN ... FERRARI!

 

 

CASCINE

domenica 30 ottobre (microcircuito di 2,5 km a partire dal piazzale del Re)

 Le Cascine si sono rifatte il trucco per l’occasione: domenica 30 ottobre infatti, il grande parco cittadino, il cui asfalto è stato risistemato in tempi record, ospiterà alcuni modelli, mai usciti fuori dalla scuderia di Maranello, come la versione 2010, probabilmente guidata da Giancarlo Fisichella, due Ferrari 458 e due Ferrari 599xx, che sono state definite vetture-laboratorio, ad altissima tecnologia. Inoltre, per una settimana, le principali piazze metteranno in vetrina quattro monoposto, luccicanti e splendide nella loro ineguagliabile linea. Già da adesso molte Ferrari circolano in città: anche chi scrive (che tra l’altro, purtroppo, distingue con difficoltà una Panda da una Maserati!) è riuscito a riconoscere il rombo di una magnifica Ferrari nera, scivolata sui Lungarni.

E allora, tempo permettendo, si coglierà al volo l’occasione per apprendere qualcosa del magico mondo Ferrari e della mitica Rossa!

 

 

FERRARI d'epoca a Santa Croce (aprile 2011)

 

 

 

 
 
 

Il realismo socialista tra ideologia e tradizione nazionale: la pianificazione culturale nell’ ex-Unione Sovietica (1920-1940)

Post n°213 pubblicato il 19 Ottobre 2011 da gabriellatiganisava

continua / vai a post 18 ottobre 2011 (premessa e cap. I)

Nel saggio Lo stalinismo come opera d’arte totale , Boris Groys ha storicizzato il realismo socialista, collocandolo tra i movimenti artistici di poco precedenti l’adozione del realismo socialista come metodo ufficiale per le arti, vale a dire le avanguardie russe, e i movimenti artistici successivi alla morte di Stalin. Quindi gli Anni Venti del XIX secolo, che corrispondono al futurismo russo e l’arte post-utopica, o post-staliniana (anche conosciuta come Soz-Art, una fusione tra realismo socialista e Pop-art), rappresentano la delimitazione cronologica anteriore e posteriore alla cultura staliniana, che il Groys coglie nella sua evoluzione. La ricerca del Groys perviene ad esiti diversi da quelli formulati dalla Clark, poiché l’arte “totalitaria” degli anni Trenta-Quaranta è soprattutto concepita come una radicalizzazione del messaggio artistico delle avanguardie russe. Lo stalinismo è identificato come “un’opera d’arte totale”, definizione che può essere intesa in due sensi: in un primo significato esso è visto come opera d’arte unica e collettiva, tra l’altro la sola ammessa dal regime, e in un secondo significato come opera d’arte che ha interessato la società sovietica a tutti i livelli.

Più recentemente Jeffrey Brooks, dopo lunghi anni di studio dei principali quotidiani quali la Pravda (il quotidiano del Partito), il Giornale del Contadino, Red Star (il quotidiano dell’esercito), Lavoro, in Thank You Comrade Stalin , ha rivalutato il ruolo dei media nella costruzione del culto della personalità di Stalin e nel processo di edificazione del socialismo sovietico. Brooks presenta il realismo socialista come un progetto unitario, guidato dalle élites politiche, paragonabile ad un grande spettacolo rivolto alle masse, in cui tutti gli attori recitano la parte loro affidata, vale a dire l’apoteosi del regime bolscevico e del suo leader Stalin. Accogliendo il monito della Clark e di Groys, i quali non condividendo l’idea di un’arte totalmente “pura” e indipendente dal potere politico, si sono rifiutati di rispondere alla domanda “Fu vera arte o una non-arte?”, con questa breve dissertazione ci proponiamo di cogliere, a grandi linee, l’evoluzione della cultura staliniana, tenendo conto delle influenze della tradizione culturale russa, della politica e dell’ideologia, e, come suggerito e documentato dal Brooks, anche del ruolo, affatto trascurabile, svolto dai media del tempo, nella pianificazione culturale del paese. Tra ideologia e tradizione nazionale: la letteratura sovietica come fabbrica e deposito di miti ufficiali. La Clark prende le distanze da valutazioni estetiche (riassumibili nella definizione di bad literature ) o morali. Il suo approccio elude la critica occidentale, poiché, a suo avviso, essa non riesce a comprendere le funzioni principali svolte dalla letteratura sovietica. Partendo dalla considerazione che la letteratura di ogni paese e di ogni epoca sia il risultato dell’interazione tra fattori letterari (tradizione culturale nazionale) e fattori extraletterari (politica, ideologia, retorica intesa come media, discorsi ufficiali, cerimonie pubbliche), la studiosa americana attribuisce alla novella sovietica una funzione peculiare, che consiste nel fungere da generatore e deposito dei miti ufficiali dello stato.

La letteratura sovietica è concepita come un archivio continuamente aggiornato dei miti della nazione, ma nello stesso tempo è essa stessa fabbrica di alcuni di quei miti, che contribuisce a formare e diffondere nella società. La seconda funzione consiste invece nella mediazione (accezione sociologica) dei conflitti sociali irrisolti, risoluzione metaforica e virtuale di alcuni importanti contraddizioni persistenti all’interno della realtà sovietica, quali il gap tra masse contadine analfabete o semianalfabete, tra città e campagna, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e tra ceti borghesi e ceti proletari. Il realismo socialista, ammonisce l’autrice, non è configurabile come un fenomeno culturale monolitico, ed infatti è colto nella sua evoluzione dinamica: dagli anni Venti agli anni Quaranta ed oltre (fino alla morte di Stalin) sono evidenziati i cambiamenti avvenuti nella produzione letteraria che utilizza un “pacchetto” preconfezionato di miti, leggende, simboli, figure, parole e immagini uguali solamente in superficie, ma che assumono e svolgono, di volta in volta, a seconda della necessità storica contingente, diversi significati e diverse funzioni. La letteratura sovietica è definita come una “dottrina canonica” considerato il fatto che, a partire dagli anni Trenta, in ogni Congresso degli scrittori, veniva presentato un breve elenco di racconti o romanzi esemplari (obrazcy), indicati come dei modelli da imitare nel master plot, ossia nella trama generale, nell’intreccio fondamentale, includente l’inizio, il climax e il finale di una storia narrata. Nell’ambito dei Congressi dell’Unione degli scrittori, venivano impartite dalla dirigenza bolscevica, le direttive agli intellettuali agli intellettuali su come e cosa scrivere. Le liste erano continuamente aggiornate e modificate, anche se un nucleo di titoli rimase sempre presente, così da essere identificato dalla Clark come il canone del realismo socialista, composto dalle seguenti opere:

1) La Madre (1907) di Maksim Gor’kij

2) Chapaev (1925) di Dimitri Furmanov

3) Cemento(’22-’24) di Fëdor Gladkov

4) Il Placido Don (1928-’40) di Michail Sholokov

5) Via per il calvario (1922-1940) e Pietro il Grande (1933) di Aleksej Tolstoj

6) Quando fu temprato l’acciaio (1934) di Nikolaevič Ostrovsky

7) La strada (1927) e La giovane guardia (1946) di Aleksander Fadeev

Sarebbe errato però pensare che l’imitazione di tali modelli letterari fosse pedissequa e impersonale. Ogni racconto presenta delle sottotrame, delle digressioni, delle particolarità derivanti anche dalla creatività e dall’originalità dello scrittore. Il master plot controlla solo alcune fasi (l’inizio, il climax e la fine della storia), obbedendo alle guide generali stabilite dal canone letterario.

Il potere politico bolscevico al fine di cementare la coesione sociale, diffondere consenso e legittimare la propria leadership, si serve della letteratura come mezzo per produrre dei miti, delle favole ad uso e consumo della popolazione.

I romanzi sovietici sono ritualizzati[1], scrive la Clark, nel senso che essi ripetono, con alcune varianti, una trama fatta di elementi, miti, simboli e icone ereditati dalla cultura nazionale codificata in alcune categorie culturali. La trama principale assolve alla stessa funzione del rituale nella sua accezione antropologica, dando forma ad una sorta di parabola che ha sempre come protagonista l’eroe positivo, in genere una persona comune, operaio o soldato. Le parabole servono a trasfigurare la realtà, ad abbellirla e, in alcuni casi, a mistificarla.

Come avviene nei riti in cui il soggetto è impegnato nel passaggio, che riflette un simbolo culturale, da uno stadio ad un altro, anche il master plot della novella sovietica ripropone un passaggio del soggetto protagonista, da uno stato di incoscienza ad uno di maggiore consapevolezza e maturità politica.

Il modello più frequentemente utilizzato nelle novelle sovietiche è quello dialettico spontaneità/consapevolezza laddove i due termini nel corso degli anni acquisiscono significati diversi. In generale tuttavia, il lemma spontaneità fa riferimento ad azioni o attività politiche irrazionali, non realiste e anarchiche; mentre il lemma consapevolezza indica azioni controllate, razionali, pianificate e consapevoli. Tale modello rappresenta in modo simbolico l’idea marxista del progresso storico. Così scrive la Clark:

According to the Leninist novel for historical progress, society from its earliest days has been locked in a dialectical struggle between the forces of “spontaneity” (which predominate in the earliest, most primitive social forms) and the forces of “consciousness” (which are present from the very beginning, although largely only as a potential). This dialectic provides the driving force of progress and leads to history’s end in communism[2].

Il protagonista, l’eroe positivo nei panni del discepolo, da una fase iniziale di inconsapevolezza e ingenuità, compie, a fianco di un mentore che lo “illumina”, un percorso verso la strada della consapevolezza[3], ossia della maturazione politico-individuale che coincide con una presa di coscienza politica, di classe. Essa è una metafora del corso della storia la cui tappa finale, secondo il progetto teorico marxista, è il trionfo del comunismo bolscevico. Emblematico è il racconto La Madre di Maksimovic Gork’ij, che esamineremo nel prossimo paragrafo.



[1] Sul significato di rituale la Clark fa riferimento in particolare ai lavori di V.Propp, C. Lévi-Strauss e .V. Turner. “The primary function of the master plot is very similar to that of a ritual understood in these terms. It shapes the novel as a sort of parable for the working-out of Marxism-Leninism in history (…)” (K. Clark, The Soviet Novel, cit., p.9).

[2] Clark, The Soviet Novel, cit., p. 16.

[3] Nel 1902 Lenin pubblica il trattato-pamphlet Che fare che divise, com’è noto, la socialdemocrazia russa in bolscevichi e menscevichi ed introdusse la tesi dell’”avanguardia proletaria”, ossia “un ristretto gruppo di rivoluzionari “educated” e dotato di “highly conscious” che avrebbe guidato le meno “consapevoli” ed istruite masse contadine, prima verso un più alto grado di maturazione politica e subito dopo alla rivoluzione vera e propria(Clark, The Soviet Novel, cit., p. 18).

 
 
 

Il realismo socialista tra ideologia e tradizione nazionale: la pianificazione culturale nell’ ex-Unione Sovietica (1920-1940)

Post n°212 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da gabriellatiganisava

In concomitanza delle due mostre "I realismi socialisti " (Roma,  Palazzo delle Esposizioni, 11 ottobre-8 gennaio 2011 ), che purtroppo non ho ancora avuto modo di visitare ma che mi riprometto di farlo appena possibile, mi è sembrato interessante pubblicare un estratto della relazione presentata nel corso del seminario di "Storia dell'Europa Orientale", tenuto dalla professoressa Anna Di Biagio, da marzo a maggio 2011. Il seminario, molto impegnativo e articolato, dal titolo "Lo stalinismo prima e dopo la rivoluzione degli archivi", si è tenuto presso l'Università di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia (Scienze Storiche). La relazione è centrata sulla produzione artistico-letteraria tra gli anni Venti e Quaranta (un arco temporale più ampio non è ancora scientificamente apprezzabile, poiché la documentazione più recente e aggiornata è ancora "ferma", dopo l'apertura degli archivi dell'ex-URSS, ad un peiodo non posteriore alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953).

Per comprensibili ragioni tecniche e autoriali, la relazione non è presentata nella sua versione integrale, ma è comunque tutelata da un diritto di copyright*.

Il realismo socialista tra ideologia e tradizione nazionale: la pianificazione culturale nell’ ex-Unione Sovietica (1920-1940) *

Relatore: M. Gabriella Tigani Sava

PREMESSA

Una reazione molto comune tra coloro i quali sentono parlare di studi sul “realismo socialista” e sulla “cultura staliniana”, scrive Katerina Clark nella prefazione al saggio The Soviet Novel [1], è di stupore misto a commiserazione. L’argomento infatti non sembra apparire tra i più avvincenti poiché è opinione altrettanto diffusa che l’arte sovietica non sia stata nel complesso particolarmente interessante e fantasiosa, al contrario è in genere considerata uniforme e incolore.

“Arte di regime” oppure “arte fortemente ideologizzata” sono le definizioni più note del binomio realismo socialista, in riferimento alla produzione artistica, intesa in senso lato, che copre un arco cronologico abbastanza lungo e coincide con il regime staliniano. Arte “brutta” o, secondo la valutazione data dalle avanguardie russe, una vera “caduta nella barbarie”, quasi all’unanimità ritenuta dalla critica occidentale monotona e ripetitiva, con un unico motivo dominante, la figura di Stalin replicata all’infinito su muri, libri, quotidiani, posters e ritratti. Un’arte oggetto di giudizi non solo estetici ma anche etici, considerata come moralmente inaccettabile a causa del suo inscindibile legame con un periodo storico scomodo e da rinnegare poiché segnato da terrore, pulizie etniche e operazioni di massa e, quindi da consegnare all’oblio, alla damnatio memoriae.

Se nell’ex-Urss per molto tempo lo studio dell’arte staliniana ha rappresentato una sorta di taboo, in Occidente invece si è riacceso l’interesse degli studiosi soprattutto dopo la cosiddetta “rivoluzione degli archivi” seguita al crollo del comunismo, che, pur non avendo prodotto una rivoluzione storiografica[2]ha permesso di svelare un enigma, di ampliare in modo consistente anche la conoscenza della cultura staliniana, grazie alla maggiore disponibilità di documenti e all’utilizzo di nuove fonti, che nella fase pre-archivistica, non erano mai state considerate[3].

Negli anni Ottanta, alcuni studiosi, come la Clark e il Groys, si sono entrambi sottratti alla tentazione di etichettare il realismo socialista, cercando di rintracciare in esso una linea di continuità con i movimenti artistico-letterari che rientrano nel patrimonio culturale dell’ex- Urss. Katerina Clark nel saggio The Soviet Novel. History as Ritual[4], adotta un approccio interdisciplinare (funzionale, storico, antropologico, sociologico) alla materia sottoposta alla sua analisi, ossia la letteratura sovietica. L’autrice ricollega il realismo socialista a tutta la ricca e composita tradizione culturale nazionale, quindi alla letteratura del periodo zarista, alla letteratura religiosa, epica e popolare, espressione di un variegato e multinazionale Impero russo.

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NOTE

[1]“My interlecutor’s response is either to back out of the conversation or to mutter words of sympathy and amazement: “How do you ever manage to get through them!”(Katerina Clark, The Soviet Novel.History as Ritual,, Indiana University Press, Bloomington (IN), 1981, p. ix).

[2]Nicolas Werth, Storia della Russia nel Novecento. Dall’Impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti 1900-1999 (1° ed. 1993), Il Mulino, Bologna, 2000. Secondo il Werth, dopo la rivoluzione degli archivi, la storia dell’Unione Sovietica non appare più come un enigma, grazie alla liberazione della parola e della memoria.

[3] Si pensi per esempio alla scuola culturale che si avvale dello studio di nuove fonti, quali lettere, diari e memorie private, e anche degli svodki, vale a dire i resoconti forniti dalla polizia politica o dalle sedi locali al partito centrale.

[4].“What I have attempted here is an interpretative cultural history that uses the novel (and novella) as its focus because the novel is the privileged genre of Soviet Socialist Realism…I have done this by using a composite approach, involving methods from history, anthropology, and, to a lesser extent, literary theory”(Katerina Clark, The Soviet Novel, cit., p. xiii).



 
 
 

IL DENARO E LA BELLEZZA.

Post n°211 pubblicato il 11 Ottobre 2011 da gabriellatiganisava
 

IL DENARO E LA BELLEZZA.

I BANCHIERI, BOTTICELLI E IL ROGO DELLE VANITA'

Firenze, Palazzo Strozzi, 17 settembre 2011 – 22 gennaio 2012

  

Sandro Botticelli - Madonna con il bambino e due angeli (1468-1469) 

Tempera su tavola, cm. 100 x 71 - Napoli, Galleria di Capodimonte

 

Interessante connubio che di primo acchito potrebbe suonare quasi come un sacrilegio, un imperdonabile errore. Come coniugare infatti Denaro e Bellezza, l’Arte con il Potere e la Moneta?

Ebbene, il denaro, se ben utilizzato, non è sempre sinonimo di loschi intrighi, di lotte di potere, illegalità e crimini, quindi di tutto quello che sicuramente con la Bellezza ha poco a che fare. E’ il caso del mecenatismo rinascimentale, quando le grandi famiglie aristocratiche (Bardi, Peruzzi, Medici, Acciaiuoli, Corsini solo per citare le più note) investivano grandi capitali nel commissionare ai più importanti artisti italiani, tutte quelle opere che costituiscono un unicum nel panorama culturale mondiale.

La mostra vuole evidenziare il legame indissolubile tra il moderno sistema bancario (nato a Firenze) ed il fiorire del Rinascimento italiano, la cui culla fu appunto la città dei Gigli. Il finanziamento del Rinascimento è da attribuire alle dinastie dei banchieri fiorentini del XIV-XV sec., le quali riuscirono a costruire delle potentissime reti economiche internazionali che dominarono la storia commerciale e politica europea pre-moderna. L’Arte del Cambio (suddivisa tra i magistri, i discepoli e i sensali) era una delle sette Arti maggiori delle Corporazioni di Arti e mestieri di Firenze, con sede in Piazza della Signoria a partire dal 1352. Le compagnie bancarie fiorentine sovvenzionavano non solo guerre, lotte intestine tra famiglie rivali, sovrani europei tra i quali Edoardo III d’Inghilterra, controllavano il traffico del denaro (l’usura, severamente condannata da Dante nell’Inferno della Commedia) in gran parte del mondo, ma si dedicarono anche all’arte della magnificenza, impiegando enormi quantità di fiorini d’oro e d’argento per “adottare” gli artisti più promettenti del tempo e quindi impegnandosi nella valorizzazione delle città e delle corti, consegnando alle generazioni future un patrimonio ineguagliabile e incalcolabile, che richiederebbe una maggiore tutela e migliori politiche di fruizione e custodia.

Tutta l’élite del Rinascimento (Botticelli, Lippi, Pollaiolo, Beato Angelico, Paolo Uccello, Donatello, Lorenzo di Credi e il Veneziano) sarà presente a questo importante evento curato da Tim Parks (scrittore e traduttore) e dallo storico dell’arte Ludovica Segrebondi. A quella principale sono correlate la mostra sulla figura del banchiere con opere di importanti artisti fiamminghi (si ricordi il “gemellaggio” esistente tra Firenze e le Fiandre nei secoli XV e XVI), la raffigurazione, mediante l’utilizzo di sofisticate strumentazioni multimediali, del percorso del denaro e dei commerci; per ultimo, la rappresentazione, anch’essa multimediale, dei “bruciamenti”, ossia del celebre rogo delle vanità che, com’è noto, fa riferimento al falò delle vanità del febbraio del 1497, ad opera dei frati domenicani guidati da Girolamo Savonarola, i quali, infervorati dalle prediche contro il lusso e il peccato, diedero fuoco a molti oggetti (libri, dipinti, specchi, etc.) ritenuti simbolo della lussuria e dell’inutilità, della corruzione dei costumi. Il rogo delle vanità simboleggia la chiusura di un ciclo storico straordinario, probabilmente irripetibile, che vide Firenze capitale mondiale dell’Arte e della Bellezza.

 Gabriella Tigani Sava

 
 
 

IL MIO NEMICO - DANIELE SILVESTRI E INTI ILLIMANI

Post n°208 pubblicato il 08 Agosto 2011 da gabriellatiganisava

 

 
 
 

PER BIMBI RICCHI!

Post n°207 pubblicato il 26 Luglio 2011 da gabriellatiganisava

 
 
 

AGAIN!

Post n°205 pubblicato il 26 Luglio 2011 da gabriellatiganisava

 
 
 

SALVATAGGIO

Post n°204 pubblicato il 26 Luglio 2011 da gabriellatiganisava

 
 
 

Un viaggio nel Medioevo, tra alambicchi e antichissimi chiostri

 

Un viaggio nel Medioevo, tra alambicchi e antichissimi chiostri

di Gabriella Tigani Sava e E.T.

Un tuffo nel Medioevo: questo il resoconto della visita domenicale al complesso monumentale di Santa Maria Novella, tra i chiostri e l’antica erboristeria, aperti eccezionalmente in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia e i 135 anni della Fratellanza Militare. La storia della Associazione di pubblica Assistenza Fratellanza Militare di Firenze è figlia del Risorgimento quando, assieme ad altre, si costituì come associazione di ex-combattenti dell’età risorgimentale. Nata nel 1876,  fin dalle origini essa ebbe la finalità di mutuo soccorso morale e materiale degli iscritti, ma anche di pubblica assistenza. Firenze, com'è noto, fu capitale d’Italia,dal 1865 al 1870: l’Associazione fu dedicata a Vittorio Emanuele II, il quale aveva adibito a residenza reale Palazzo Pitti. il primo socio onorario e benemerito fu Giuseppe Garibaldi, e nello stemma dell’Associazione, proprio in suo onore è raffigurata una stretta di mano tra un militare sabaudo e una camicia rossa garibaldina.

Dopo una breve sosta presso gli stands dell’Associazione Nazionale Bersaglieri (Sezione “Aldo Marzi” di Firenze con Fanfara), dell’Associazione Nazionale Veterani e reduci Garibaldini (A.N.V.R.G.) “Giuseppe Garibaldi” (sezione di Firenze) la quale ci ha cortesemente omaggiato del periodico dell’Associazione “Camicia rossa” e di due altre interessanti pubblicazioni (una su Firenze e i percorsi risorgimentali, l’altra su Piero Gobetti), proseguiamo la nostra visita guidata della magnifica Basilica di Santa Maria Novella, costruita intorno alla minuscola e duecentesca Chiesa delle Vigne, a sua volta edificata nel 1219 da dodici frati domenicani arrivati a Firenze da Bologna.

La Basilica di Santa Maria Novella

La Chiesa fu ampliata a partire dal 1278, con la costruzione contemporanea di una nuova cinta muraria della città. Consacrata nel 1420 da papa Martino V, con pianta a croce latina divisa in tre navate, era stata completata già a partire dalla fine del Trecento. Il portale centrale, la trabeazione e la parte superiore della facciata (in marmo bianco e verde), sono opera di Leon Battista Alberti, il quale ricevette la commissione dal ricchissimo commerciante di stoffe, Giovanni di Paolo Rucellai. Nel 1500 la chiesa fu rimaneggiata dal Vasari e, successivamente, fu ancora “ritoccata” dall’architetto Romoli, tra il 1858 e il 1860.

All’interno della Basilica, tra le tante meraviglie, un crocifisso di Giotto (1290), la Cappella Strozzi (di Filippino Lippi), una Natività di Sandro Botticelli; il pulpito, opera di Filippo Brunelleschi e commissionato dalla Famiglia Rucellai; il coro con un ciclo di affreschi di Domenico Ghirlandaio (aiutato da un giovanissimo allievo, Michelangelo Buonarroti; nelle cappelle del transetto, opere di Giambologna, Vasari, Ghiberti, Bronzino, Orcagna, Poliziano e Brunelleschi; la Cappella Bardi e la Cappella Rucellai, la Cappella Gondi e la Cappella Gaddi. Nella sagrestia (1380) un lavabo in marmo e terracotta invetriata di Giovanni della Robbia (1498-1499), le cui decorazioni raffigurano i melograni, simbolo della vita. Il campanile trecentesco in stile romanico, visibile dalla stazione omonima, è opera del Talenti.

I CHIOSTRI

Il Chiostro della Sindicheria (o della cantina, della cànova) fu costruito nel 1500. In fondo a questo chiostro, si trova l’antico refettorio dei frati.

Il Chiostro Verde (poiché affrescato con pittura verde), è ancora più antico, del 1300. opera di Fra’ Jacopo Talenti. In esso è custodito un ciclo di affreschi, alcuni dei quali realizzati da Paolo Uccello, nel 1425.

Il Cappellone degli Spagnoli (antica sala capitolare della Basilica di Santa Maria Novella, cosiddetta perché usata dalla corte spagnola al seguito di Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I dei Medici); il Chiostrino dei Morti (ex cimitero, 1270), il Chiostrino del Dati (Leonardo Dati, umanista e predicatore domenicano, è sepolto nella Basilica: la tomba in bronza è opera di Lorenzo Ghiberti).

L’OFFICINA PROFUMO-FARMACEUTICA (1221)

Entusiasmante la visita iniziale ai locali degli ex-laboratori: un invitante e piacevolissimo odore di spezie e di erbe ci guida e, come due piccoli alchimisti, guardiamo con stupore e curiosità i termometri, i mortai, gli stampi per i saponi, le bottiglie e gli alambicchi; i contenitori in ceramica da farmacia del 1500 e 1600; i macchinari e gli attrezzi usati dai frati per produrre i medicamenti e le acque “magiche”, come per esempio l’acqua antisteria, a base di alcool.

 Antica ricetta acqua antisterica

  Angelo portacandelabro (quello senza folulard!)

Proseguiamo ed entriamo nell’Antica Spezieria, con un grande bancone, decorazioni settecentesche, aquile reali, draghi, e due angeli porta-candelabro anche questi del XVIII secolo. Il locale si apre su un enorme chiostro, il più grande di Firenze, non aperto al pubblico. Da un’apertura attigua alla spezieria, entriamo nella antica Sala Vendita e poi nella Sala Verde.

 Antico mortaio utilizzato dai frati-farmacisti

L’Officina di Santa Maria Novella è una delle più antiche farmacie del mondo e fu costruita dai frati domenicani che edificarono anche la Basilica. I frati producevano nei loro orti le erbe mediche che venivano usate nell’infermeria del convento. A partire dal 1612 la farmacia fu aperta al pubblico. E’ tutt’oggi aperta.

Il nostro viaggio nel Medioevo termina qui, dove per tanti secoli, esperti e laboriosissimi frati, hanno prodotto medicamenti, profumati balsami e pomate miracolose, la cui fama ha raggiunto ogni angolo del mondo.

Firenze, 19 giugno 2011

 
 
 

TERRAFUTURA

Post n°198 pubblicato il 21 Maggio 2011 da gabriellatiganisava
 

TERRAFUTURA

 COME MANGEREMO, CI VESTIREMO e VIAGGEREMO NELL’ANNO CHE VERRA’

 Mostra-convegno internazionale delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale

FIRENZE- FORTEZZA DA BASSO       

20-22 MAGGIO 2011

Ingresso libero

 “Vivi semplicemente (…) Questa terra ha risorse per tutti ma non per l’avidità di tutti” (Gandhi)

E’ partita venerdì 20 maggio la quinta edizione della Kermesse sull’ambiente, TerraFutura, ancora più ricca e interessante rispetto agli anni passati. La manifestazione terminerà domenica 22 maggio ed è ospitata, come sempre, a Firenze, Fortezza da Basso. La grande mostra-convegno internazionale mette al centro le tematiche ambientali e suggerisce le vie per uno sviluppo sostenibile economicamente e socialmente, all’insegna del rispetto e della tutela del nostro unico, almeno per ora, pianeta. Un articolato calendario di iniziative culturali, tra convegni, seminari e workshop, laboratori per i più piccoli, finalizzato alla comunicazione e diffusione di nuovi metodi di consumo, di produzione, di gestione della cosa pubblica, di riciclaggio, di raccolta differenziata dei rifiuti, di economia green e commercio equosolidale. La globalizzazione di nuovi stili di vita e culture alimentari, più sensibili al rispetto della natura e dei diritti dei popoli e dei singoli individui, potrebbe essere un potente strumento di miglioramento delle condizioni di salute dell’ambiente e delle persone.

 

Foulards Oxfam (artigianato vietnamita)                          La reporter!

                

Centinaia di espositori, italiani ed esteri, di prodotti bio come abiti in tessuti al 100% naturali (es. in canapa, in lino e seta), bellissimi foulards in seta e cotone (ditta Oxfam a sostegno dell’artigianato vietnamita)) realizzati ai telai manuali da donne Thai : chi scrive, dopo lunghi momenti di riflessione vista l’abbondanza di colori e di forme, ne ha comperato uno giallo –ocra dai riflessi cangianti molto belli! Abiti realizzati con materiali come il nero di seppia, frutti di bosco, ananas e kiwi (tintura al 100% naturale); Occhiali in legno della ditta MIJO (belli ma un po’ costosi), Scarpe in materiali non inquinanti, cibi alternativi vegani della svizzera VEGUSTO (buonissime le polpette di soia, discreto il formaggio vegetale senza colesterolo No-MUH), birre artigianali, caffè biologico, the verde (veramente!), saponi e detersivi assolutamente naturali (NOUR, Linea Sapone di Aleppo, saponi fatti a mano), mandorle e dolci siciliani di Avola (squisiti i biscotti al grano antico siciliano); numerosi gli stands dedicati al turismo responsabile per un’equa distribuzione del reddito tra tour operator e Paese ospitante, quindi a favore delle popolazioni locali con la scelta di alberghi a gestione familiare e progetti di finanziamento di sviluppo. L’obiettivo principale è quello di ridurre al minimo i danni dell’impatto socioculturale ed ambientale prodotto da flussi turistici sempre più intensi; e ancora, banche etiche, dentisti sociali, gruppi di acquisto popolare (GAP- acquisto collettivo di alcuni beni alimentari, a prezzi popolari, tra lavoratori, precari, studenti e pensionati); bioedilizia (case ecologiche e in legno a basso consumo energetico di Haus Idea, ditta di Bolzano); luci galleggianti a base di acqua e olio di lino; lampade romantiche dalle forme particolari e realizzate con plastica riciclata; YESLIFE store, il primo negozio online di abiti green, ecologici e chic. Pizze, pane e gelato artigianali, prodotti a kilometro zero.

FirenzeInBici                                    

                                        

1. FirenzeInBici                                2. Contro il Nucleare              3. Orso in rappresentanza Orsi bruni maricani dell'Abruzzo

Irrinunciabile la sosta presso le associazioni e gli Enti (tra i quali la Regione Toscana) per la promozione dell’acqua di rubinetto e del latte crudo alla spina, per evitare sprechi e convertirsi al consumo responsabile; per la promozione della raccolta differenziata e del compostaggio domestico e delle fonti energetiche rinnovabili. Chi vuole può anche sperimentare la guida di veicoli elettrici (macchine e ciclomotori) prenotando il test drive presso gli sportelli Svolta elettrica.

      FIAB FirenzeInBici                           

 

 

Per chi ama andare in bici è d’obbligo la sosta allo stand della FIAB, FirenzeInBici ONLUS, associazione di cittadini-ciclisti che tutela e promuove la bici come mezzo di trasporto, poco costoso, facile, flessibile, veloce e assolutamente non inquinante. Molte le azioni portate avanti dalla FIAB costituita nel 2005 (vanta già 400 soci iscritti), che ne fanno la prima associazione ambientalista cittadina e la settima associazione di ciclisti in Italia. Tra le richieste proposte in sede comunale: aumento delle piste ciclabili, più rastrelliere, meno traffico, intermodalità (bici+mezzo pubblico – di recente con il “patto per la bicicletta”, sottoscritto da 130 candidati consiglieri e firmato da Matteo Renzi, la FIAB ha ottenuto la riduzione di 1,10 euro per il biglietto treno+bici), bike sharing e lancio di un programma per la conoscenza del territorio mediante ciclo-escursioni il cui calendario è consultabile su: www.firenzeinbici.net.

 

 

 

Un’altra interessante novità è rappresentata da ECCO!, l’Ecological courier, il primo e unico corriere-trasporto merci cittadino che assicura consegne veloci, sicure e completamente ecologiche (sito www.ilcorrireecologico.it).

 

Per finire, è possibile farsi una scorta di tanti sacchetti in Mater-Bi prodotti dalla Novamont!

 

Gabriella Tigani Sava

 

 

 

 

 
 
 

75ma EDIZIONE DELLA MOSTRA DELL’ARTIGIANATO

Post n°196 pubblicato il 30 Aprile 2011 da gabriellatiganisava

Un angolo di TIBET

alla 75ma EDIZIONE DELLA MOSTRA DELL’ARTIGIANATO

 

(FIRENZE- FORTEZZA DA BASSO

30 APRILE – 8 MAGGIO)

 

 China,_Tibet_-_Potala_Palace

 

 Questa è una piattaforma delle aziende per la promozione della cultura dell’artigianato nel mondo – con queste parole Carlo Bossi, presidente di Firenze Fiera, presenta la 75ma edizione della mostra dell’Artigianato Internazionale, che si terrà a Firenze, Fortezza da Basso, dal 30 Aprile all’8 Maggio. Tra i main sponsor, la Regione Toscana, Il Comune di Firenze, la Camera di Commercio e la Provincia di Firenze. Sono trascorsi tanti anni da quando la città dei gigli ha ospitato la prima (in assoluto in Italia) edizione, ed ogni anno la mostra ha avuto un paese ospite d’onore: quest’anno è la Spagna la nazione –regina della manifestazione che mette in campo quasi mille espositori, da tutto il mondo, e una serie di eventi collaterali, tra cui una rassegna fotografica sulla storia della mostra dell’artigianato ed anche degli angoli riservati alle lavorazioni manuali realizzate dal vivo.

Tapas e flamenco per la Spagna; narghilé e la ricostruzione delle mura di Cartagine per la Tunisia, la danza del ventre per gli altri paesi dell’area del Maghreb; prodotti tipici e fotografie artistiche della città –gemella di Firenze, Nanchino; i visitatori potranno respirare l’atmosfera rilassante e contemplativa delle montagne tibetane, nell’area dedicata alla spiritualità tibetana dove si potranno incontrare cinque monaci provenienti dl Monastero di Varanasi e seguire dimostrazioni di scrittura tibetana; maestri caucasici esporrano le loro opere in rappresentanza dell’ex superpotenza, l’URSS; anche la Toscana sarà presente con tanti stands adibiti alla degustazioni dei prodotti d’eccellenza della regione.

 

Gabriella Tigani Sava

 
 
 

Lo scoppio del CARRO

Post n°195 pubblicato il 27 Aprile 2011 da gabriellatiganisava
 

LO SCOPPIO DEL CARRO

 

La colombina vola dritta sulla Pasqua dei fiorentini!

 

Si perde nella notte dei tempi la cerimonia dello “scoppio del Carro” o del Brindellone, nomignolo con cui i fiorentini additano il carro pasquale.

Tanti importanti avvenimenti della città di Firenze si intrecciano alla storia di questa antichissima cerimonia, le cui origini sembra risalgano nientemeno che all’epoca della prima Crociata (1096-1099), guidata da alcuni nobili, tra i quali Roberto di Normandia (Francia del Nord), Raimondo di Tolosa (Francia del Sud), Tancredi (Normanni) e Goffredo di Buglione (Lorenese), promossa dal papa Umberto II (suo il celebre “Dio lo vuole”) per liberare la Terra Santa dal dominio musulmano (i Turchi Selgiucidi avevano conquistato Gerusalemme, la Siria e l’Anatolia).

Secondo la tradizione storica, sarebbe stato un giovane nobile fiorentino, Pazzino, della famiglia de’Pazzi, ad issare l’insegna bianco e rossa dei suoi commilitoni, sulle mura di Gerusalemme, espugnata dai cristiani nel luglio del 1099 (e ricaduta nelle mani del sultano Saladino nel 1187), dopo cinque settimane di assedio. Come premio il Pazzino avrebbe ricevuto da Goffredo di Buglione (Bassa Lorena), tre schegge del Santo Sepolcro che, il soldato di Dio, dopo la costituzione del Regno di Gerusalemme, al suo rientro dalla Palestina, avrebbe riportato a Firenze e qui esse sarebbero state custodite dapprima nella Chiesa di Santa Maria Sopra a Porta, poi nella Chiesa di San Biagio e in ultimo, a partire dal 1785, nella Chiesa dei Santi Apostoli. La festa del carro simboleggia la distribuzione del fuoco benedetto alla cittadinanza.

 Sempre secondo quanto tramandato dagli storici (ma sull’attendibilità delle fonti sorgono però alcuni legittimi dubbi), ogni Sabato Santo, i giovani fiorentini erano soliti riunirsi nella Cattedrale dove ardeva il fuoco acceso con le scintille delle tre schegge di pietra del Santo Sepolcro. Più avanti nel tempo, si pensò di trasportare il fuoco santo dentro la Cattedrale con un piccolo carro e, forse a partire dal Trecento, fu introdotto l’uso dei fuochi artificiali.

Quando la famiglia Pazzi, che per molti anni aveva avuto il “monopolio” della festa, fu allontanata dalla città in seguito alla celebre congiura contro i Medici, il governo cittadino decise di porre fine allo scoppio del carro, pur mantenendo tuttavia l’usanza di distribuire il fuoco benedetto al popolo, riunito intorno alla Cattedrale e al Battistero. La decisione risultò così impopolare tra i fiorentini che lo stesso governo repubblicano ritornò sui propri passi e decise di ripristinare i festeggiamenti così sentiti dalla popolazione. Nel 1497, un’altra vicenda storica influenzò il regolare svolgimento della cerimonia, ossia la cacciata de’ Medici, dovuta anche alle predicazioni del frate domenicano Girolamo Savonarola. L’allontanamento dei Medici permise il rientro in città della famiglia de’ Pazzi la quale riacquistò i suoi privilegi, tra cui quello relativo alla “gestione” della cerimonia del carro, che per volere della stessa famiglia de’Pazzi, doveva diventare più sontuosa e importante. Fu infatti allestito un carro (lo stesso in uso ai nostri tempi) più grande e più robusto, a tre ripiani, che ha subito numerosi restauri, soprattutto dopo l’alluvione del 1966. I fuochi posti sui tre piani del carro erano incendiati da un razzo (a forma di una piccola colombina bianca) che i fiorentini chiamano tuttora la “colombina” e che viene fatta scorrere su una corda fissata tra il Duomo e il Battistero. Dalla traiettoria del volo della “colombina” si traevano anticamente auspici per il raccolto: oggi invece, lontani dalle credenze delle popolazioni rurali, si pensa che il volo non interrotto della stessa, sia segno di un buon anno per la città di Firenze.

 

‘I Brindellone è solitamente accompagnato, dinanzi al Duomo, da un corteo di musici, sbandieratori e armati del Calcio Storico Fiorentino. Alle ore undici, puntualmente oramai da tanti anni (ma in passato probabilmente si osservava un orario differente), quando in Duomo si alza il canto Gloria in excelsis Deo, viene dato fuoco al razzo-colombina, che va ad incendiare i fuochi pirotecnici distribuiti sul carro pasquale. Accompagnata dal festoso scampanellìo delle campane, una pioggia di fuochi colorati (per l’edizione 2011 anche il viola della città e quelli tricolori dell’Italia) avvolge il Brindellone, fino ad oscurarlo quasi per intero. I fiorentini incrociano le dita: anche quest’anno la colombina fila dritta, senza intoppi: la città può quindi ritornare alla quotidiana routine, fatta di arte, turismo e una sottile, quasi impercettibile ed alterna pioggerellina, che anche oggi, Domenica di Pasqua, ci ha simpaticamente “benedetti”.

 

 

Fonti:

 

Festività fiorentine. Tradizioni e ricorrenze dell’anno. a cura del Comune di Firenze, Assessorato alle Feste e Tradizioni.

 

Franco Cardini, Europa e Islam, Laterza, 2008

 

 

Gabriella Tigani Sava

 

 
 
 

Gli uomini preferiscono le bionde!

Post n°194 pubblicato il 26 Aprile 2011 da gabriellatiganisava

FUORI VERBALE!

Gli uomini preferiscono le bionde?

Come suggerito dal mio caro amico D*, facciamo ogni tanto dei commenti "extra verbali", perché non si può parlare sempre di massimi sistemi o di realismo sovietico e allora oggi si parla di bellezze bionde e brune, di preferenze estetiche opinabili

A parte il fatto che le preferenze per un eventuale partner dovrebbero riguardare  qualita' morali (intelligenza, in primis, classe, cultura, etc...) ma forse questo riguarda uomini di intelletto (e gusto) superiori, certo non chi e' di bocca buona. Comunque, se vogliamo parlare di estetica, bene, facciamolo. A mio modesto avviso, a meno che non si tratti di Sharon Stone, tra l'altro bionda naturale, le donne più belle al mondo erano brune (chi scrive difende la categoria), cito per es. Brigitte Bardot (tinta), la Monroe (tinta), Liz Taylor, Sofia Loren, la Lollo, per ultimo, quella attualmente in carica, e' bruna, con un viso da Madonna rinascimentale e un corpo perfetto: è la nostra Monica Bellucci. Mi vengono in mente a tal proposito alcuni versi di un celebre carme di Catullo : "oh che cattivo gusto! Lesbia, lei si e' bellissima, con il naso piccolo e gli occhi deliziosamente neri etc..." ma si trattava di Catullo, poeta raffinatissimo e grande intenditore di bellezza femminile

Ecco il carme:

Catullo, Carmen XLIII

Salve, nec minimo puella naso
nec bello pede nec nigris ocellis
nec longis digitis nec ore sicco
nec sane nimis elegante lingua.
Decoctoris amica Formiani,
ten provincia narrat esse bellam?
Tecum Lesbia nostra comparatur?
O saeclum insapiens et infacetum!

Salve, ragazza, non (hai) il naso piccolo,
né il piede bello, né gli occhi neri,
né le dita lunghe, né la bocca stretta,
né un modo di parlare preciso o troppo elegante,
amica di Formiano il fallito.
E in provincia si dice che sei bella,
e ti paragonano alla mia Lesbia? O tempi ignoranti e grossolani!

Margaritas ante porcos, dicevano gli antichi. C'è da crederci e da fidarsi.

 

 
 
 

VILLA NiewuenKamp - Il riposo dei vescovi

Post n°193 pubblicato il 01 Aprile 2011 da gabriellatiganisava

Domenica pizza al S. Domenico (vegetariana, of course, the best!) a Fiesole e poi visita ad una delle più belle ville della zona, ossia Villa NiewuenKamp (San Domenico -  Fiesole, Vecchia Fiesolana, 62 - visita su appuntamento), anticamente sede di passaggio dei vescovi che si trovavano sulla strada Fiesole-Firenze. All'interno un enorme parco ospita bellissime fontane, laghetti di ninfee, alberi tropicali, statue di Buddha importate dal pittore olandese NiewuenKamp, al ritorno dai suoi viaggi in Estremo Oriente. Infine, tempo permettendo, passeggiatona kilometrica postprandiale.

Dalle 8.00 al tramonto a Fiesole si terrà la fiera Piccolo Antiquariato

 
 
 

150° Anniversario Unità d’Italia a Firenze-

Post n°192 pubblicato il 17 Marzo 2011 da gabriellatiganisava

150°

Anniversario Unità d’Italia a Firenze-

NOTTE TRICOLORE 

FIRENZE 16 marzo 2011

16032011160      16032011164   16032011177

Molto ricco il programma preparato dalla città di Firenze per celebrare e festeggiare il 150° anno dell’Unità d’Italia. Appuntamento importante per chi crede nella nazione Italia, nella sua storia e in tutto l’enorme potenziale creativo del Bel Paese. Erroneamente snobbato da molti leghisti e da chi non abbia ancora accettato il fatto che il nostro sia un unico paese, dalle Alpi all’estremo lembo della Sicilia. Un evento che non ha niente da spartire con il patriottismo illiberale e intollerante, con il nazionalismo guerresco e arrogante. Una festa solo per coloro i quali sentano amore per il proprio paese e la gioia di appartenere ad una terra così bella e importante. In mattinata la Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Storia e Geografia, ha ospitato un convegno su Camillo Benso di Cavour, l'architetto dell'Unità d'Italia, con due importanti relatori interpreti della storia del Risorgimento italiano, i professori Carlo Ghisalberti e Zèffiro Ciuffoletti. Chi scrive ha avuto il piacere di colloquiare, anche se per pochi minuti, con il prof. Ghisalberti, al quale ha confessato di aver studiato (e sofferto!) sui suoi libri per gli esami di Storia delle Istituzioni politiche e Storia contemporanea. Alla fine del breve incontro, molto carinamente, l'illustre storico ha chiesto se fossi sopravvissuta allo studio e alla lettura dei suoi saggi!

Ghisalberti ha presentato, con un bellissimo excursus storico, parte della storia d’Italia, dalla Presidenza del Consiglio di Massimo d’Azeglio ( “prestato dall’arte alla politica” come egli stesso più volte ebbe a dire) alla morte di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, pochi mesi dopo la prima riunione del Parlamento italiano. Il prof. Ciuffoletti ha fatto notare come il convegno si sia tenuto in una delle sale più importanti del Risorgimento italiano, quella di Palazzo Fenzi a Firenze ed ha raccontato qualche aneddoto della sua interessante storia familiare. In serata si è potuto assistere al bel concerto dell’Orchestra Filarmonica di Gioacchino Rossini nella spettacolare Piazza della Signoria, elegantemente addobbata per l’occasione. Un’enorme bandiera tricolore sventolava da Palazzo Vecchio, mentre luci tricolori illuminavano la stessa originaria sede del governo dei Medici e la Loggia de’ Lanzi, sotto i cui archi si è riunita la banda degli orchestrali. Anche Ponte Vecchio e Santa Croce sono stati sapientemente illuminati con i colori della Bandiera italiana. All’interno di Palazzo Vecchio, nella sala de’ Cinquecento, lo spettacolo di Aldo Cazzullo, Viva l’Italia, dall’omonimo romanzo appena pubblicato dello stesso autore, con la prefazione di Francesco de Gregori e la collaborazione del Teatro di Verona. Contemporaneamente a S. Croce (di fronte alla cui facciata è stata montata una grande mongolfiera) l’Accademia della Crusca ha organizzato dei Giochi linguistici per i ragazzi e lo spettacolo Là dove ‘l sì suona. Azioni sulla Divina Commedia a cura di All’improvviso Dante: 100 canti per Firenze. Sempre a S. Croce alle 23.00 si è tenuto il concerto musicale dei Funk Off e Sound Street Band. A conclusione della bella carrellata di eventi e spettacoli, da Palazzo Vecchio, alle 12.30 in punto sono partiti i fuochi pirotecnici. Auguri ltalia!

M. Gabriella Tigani Sava

 
 
 

I Diritti e i Doveri, il Progresso, Dio e la Libertà nel saggio di Giuseppe Mazzini "I Doveri dell'uomo"

Post n°190 pubblicato il 21 Febbraio 2011 da gabriellatiganisava
 

 

I diritti e i doveri, il progresso, Dio e la libertà


nel saggio


Dei doveri dell'uomo


di Giuseppe Mazzini

 

Qualche giorno fa mi è capitato tra le mani un saggio scritto da Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, che ho iniziato a leggere e trovato molto interessante ed attualissimo, nonostante l’autore l’abbia pubblicato alla vigilia dell’Unità d’Italia, nel 1860. La critica avanzata dal fondatore della Giovine Italia e della Giovine Europa, è focalizzata sulla teoria dei diritti (francese e americana) cui Mazzini contrappone quella dei doveri, accompagnando la sua polemica con profonde riflessioni morali e politiche.

Vediamo qualche passo significativo :

 Perché vi parlo dei vostri doveri (Mazzini dedica il saggio ai fratelli operai, ndr) prima di parlarvi dei vostri diritti? Perché in una società dove tutti, volontariamente ed involontariamente, v’opprimono, dove l’esercizio di tutti i diritti che appartengono all’uomo vi è costantemente rapito, dove tutte le infelicità sono per voi… io vi parlo di sacrificio, e non di conquiste, di virtù, di miglioramento morale, d’educazione, e non di ben essere materiale…” (-) “Certo, esistono diritti; ma dove i diritti d’un individuo vengono a contrasto con quelli d’un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualcosa di superiore a tutti i diritti?” (-) “E questo principio è il Dovere. Bisogna convincere gli uomini ch’essi, che ognuno d’essi, deve vivere non per sé ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello d’essere più o meno felici, ma di rendere se stessi e gli altri migliori”.

 

Le dottrine materialistiche, le teorie dei diritti (noto il giudizio severo sulla Rivoluzione Francese), hanno portato – scrive il Mazzini – alla guerra di tutti contro tutti, all’anarchia, all’egoismo e all’esasperato individualismo. Soltanto l’osservanza di un principio superiore, qual è quello dei doveri, può consentire lo sviluppo, il reale progresso materiale e morale delle società umane. Tali doveri, prosegue il Mazzini, hanno un fondamento divino, del quale l’Umanità è bambino. La legge morale impone la priorità dei doveri rispetto ai diritti.

La formazione del Mazzini, ricordiamo, fu democratica e nello stesso tempo improntata ad una forte religiosità con influenze gianseniste ereditate da parte materna. Tutta la teorizzazione politica del Mazzini è sostenuta dalla fede in un progetto divino che si concretizza, che parla attraverso i Popoli e le Nazioni, destinati al Progresso (che, non coincide solo con il ben essere, con le conquiste materiali, ma con lo sviluppo morale e intellettivo degli uomini).

Nella sua autobiografia (“Scritti politici”) lo stesso Mazzini ricorda come si formarono in lui le idee democratiche e lo spirito libertario:

 

 Io era già inconsciamente educato al culto dell'Eguaglianza dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che essi usavano col patrizio e col popolano: nell'individuo essi non cercavano evidentemente se non l'_uomo_ e l'_onesto_. E le aspirazioni alla libertà, ingenite nell'animo mio, s'erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre e dell'amico nominato più sopra; delle Storie di Livio e di Tacito che il mio maestro di Latino mi faceva tradurre; e della lettura di alcuni vecchi giornali da me trovati semi-nascosti dietro ai libri di medicina paterni, fra i quali ricordo alcuni fascicoli della _Chronique du Mois_ pubblicazione girondina dei primi tempi della Rivoluzione di Francia”.

 

Nel paragrafo dedicato alla Libertà, Mazzini definisce chiaramente la sua idea di missione:


 “Voi vivete. La vita ch’è in voi non è opera del Caso; la parola Caso non ha senso alcuno…la vita ch’è in voi viene da Dio e rivela nel suo sviluppo progressivo un disegno intelligente. La vostra vita ha dunque necessariamente un fine, uno scopo. Il fine ultimo, pel quale fummo creati, ci è tuttora ignoto, e non può essere altrimenti; né per questo dobbiamo negarlo. L’Umanità è il bambino di Dio: sa Egli il fine verso il quale essa deve svilupparsi” (-) “Qualunque sia il fine verso cui tendiamo, noi non potremo scoprirlo e raggiungerlo, se non collo sviluppo progressivo e coll’esercizio delle mostre facoltà intellettuali. Le nostra facoltà sono gli stromenti di lavoro che Dio ci dava”.

 

Più avanti nello stesso saggio, Mazzini prosegue con le sue speculazioni e scrive delle pagine bellissime sull’ idea di Libertà, che tutti dovrebbero leggere e tenere a memoria.

 

Senza libertà non esiste Morale, perché non esistendo libera scelta fra il bene ed il male, fra la devozione al progresso comune e lo spirito d’egoismo, non esiste responsabilità. La libertà non è che un mezzo; guai a voi e al vostro avvenire se v’avvezzaste a guardarla come fine (...) Dottrine di sofisti hanno in questi ultimi tempi pervertito il santo concetto della Libertà: gli uni l’hanno ridotto ad un gretto immorale individualismo, hanno detto che l’io è tutto, gli altri hanno dichiarato ch’ogni governo, ogni autorità è un male inevitabile…che la libertà non ha limiti…che ogni uomo ha diritto d’usare e abusare della libertà. Tutte (le dottrine, ndr) trascinano la libertà ad essere un’anarchia, cancellando l’idea di miglioramento morale collettivo; cancellando la missione educatrice, la missione di Progresso che la società deve assumersi.

Se voi poteste intendere a questo modo la Libertà, voi meritereste di perderla e, presto o tardi , la perdereste…la vostra Libertà sarà il diritto di scegliere liberamente, a seconda delle vostre tendenze, i mezzi per fare il bene”.

 

Gabriella Tigani Sava




 

 
 
 

SALVIAMO L'ITALIA

Post n°189 pubblicato il 31 Gennaio 2011 da gabriellatiganisava
 
Tag: News

Recensione libro di Paul Ginsborg

Salviamo l’Italia

Il titolo del recentissimo saggio (Salviamo l'Italia, Einaudi Editore, Torino, ottobre 2010) del prof. Paul Ginsborg, fine interprete della storia contemporanea d’Italia, appare come un affettuoso e sollecito invito rivolto al popolo italiano, a riflettere sui mali della società e quindi ad attivarsi al fine di salvare il paese dal baratro, morale e culturale, in cui sembra essere scivolato oramai da molti decenni. Lo storico inglese, il quale ha ottenuto nel 2009 la cittadinanza italiana, traccia dei parallelismi tra l’attuale situazione italiana e quella esistente agli albori del Risorgimento, quando la nazione Italia doveva ancora essere unificata e costruita. Così Ginsborg scrive nel prologo “Piuttosto vorrei che le voci del Risorgimento si mescolassero – quasi in presa diretta – alle nostre”. Conoscere quale fosse il pensiero degli intellettuali protagonisti del risveglio italiano, potrebbe tornare utile a coloro i quali abbiano a cuore il futuro del proprio paese. Il punto di partenza, uguale per i patrioti italiani e per noi contemporanei, è il declino dell’Italia. Clientelismo, corruzione pubblica, mancanza di progettualità di ampio respiro da parte dei governanti, primato della criminalità organizzata, disoccupazione e mancanza di senso civico a livello familiare (familismo), sono gli indicatori odierni di un paese gravemente ammalato, che necessita urgentemente di una diagnosi approfondita e di cure adeguate.

Oggi come allora, il degrado del paese si evidenzia in tre ambiti, storico, familiare e culturale. Come scriveva il Sismondi nel 1833, l’Italia anche oggi è “corrotta e snervata”. Nel primo capitolo intitolato “Vale la pena di salvare l’Italia?” Ginsborg ripercorre l’itinerario seguito dai patrioti italiani per i quali la salvezza dell’Italia costituiva la ragione della propria esistenza. Tra i tanti, il Cattaneo proponeva un’idea della storia (condivisa anche dal Cavour) che contrastava con quella di Campanella, Machiavelli e Vico, poiché, anziché centrata sulla convinzione di un ineluttabile “circolo fatale”, era al contrario, basata sulla “consolante dottrina del progresso”, ossia sul fiducioso ottimismo nell’evoluzione dell’umanità e nel suo cammino, non privo di ostacoli ed errori, “verso la meta della scienza e della civiltà”. Una visione della storia “consolatoria” nel 1839– scrive Ginsborg – “e lo è per noi oggi” prosegue.

Una distinzione importante, che si ricollega alla domanda “Vale la pena salvare l’Italia?”, è quella tra patriottismo e nazionalismo. Il primo, come scrisse Orwell nel 1945, è amore difensivo per il proprio paese, il secondo, per sua natura, è aggressivo ed espansionista. E pensando all’Italia, che tipo di patria-nazione va difeso e salvato?
L’Italia, scriveva Vincenzo Gioberti nel 1843, gode di “un naturale primato nella sfera specifica delle idee e delle convinzioni, religiose, storiche, letterarie e scientifiche” e questo primato è sicuramente da salvare, oggi come ieri.

Ginsborg prosegue nella sua tesi, indicando quattro caratteri propri della storia del nostro paese, ossia l’autogoverno municipale, la vocazione europea dell’Italia, la ricerca dell’eguaglianza, la mitezza. /continua…

M.Gabriella Tigani Sava

 

 
 
 
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