Creato da: hrothaharijaz il 27/12/2006
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Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 27 Maggio 2007 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

                                                PALOMO

Che fosse nato per non fare fatica lo si era potuto capire fin dai primi mesi di vita: mangiava e dormiva, dormiva e mangiava, senza mai piangere, o per meglio dire frignare, come facevano tutti i bambini della sua eta'. Tanto a cosa serviva piangere, il suo papà e la sua mamma erano sordomuti dalla nascita e non si sarebbero accorti di nulla, quindi tanto valeva risparmiarsi la fatica di versare inutili lacrime.

Gabriele (Palomo lo sarebbe diventato solo attorno ai diciasette anni) era nato da mamma Enrichetta e da papà Pasquale, detto Lino, quando i suoi genitori erano gia' avanti con gli anni.

La silenziosa abitazione dei coniugi Di Santo si riempi' improvvisamente di squittii di gioia e il nome Gabriele, pronunciato dai genitori con un gutturale "Gbrle", risuonava in continuazione da una stanza all'altra della casa.

Oltre all'handicap fono-acustico che aveva colpito la signora Enrichetta e il suo consorte, Madre natura non era certo stata munifica con loro per quanto riguarda l'aspetto fisico. La signora Enrichetta era una lungagnona di quasi due metri di altezza, magra da fare spavento, con un viso da rapace, pelle chiara e attraversata da reticoli di vene bluastre, capelli biondo giallastri e stopposi, raccolti perennemente in una treccia che arrivava al fondoschiena; si vociferava che, di nascosto dal marito, si mettesse nel naso robuste prese di tabacco e non disdegnasse attaccarsi alla bottiglia della grappa. Il marito, al contrario, era più largo che alto, raggiungeva a malapena il metro e 55 centimetri di altezza e superava i 100 chili di peso; di origini meridionali, aveva un faccione rotondo, sempre sudato, capelli neri, unti, con i riporti e un paio di baffetti sempre curati.

Vivevano al terzo piano di una decorosa palazzina dalle parti di San Pietro in Ciel d'Oro. Nessuno dei due lavorava o aveva lavorato e di cosa campassero non era dato di sapere. Sembrava che a loro nulla mancasse, ben s'intende, nessun lusso sfrenato ma, tre settimane a Loano d'estate e due in montagna o in qualche capitale europea, d'inverno, erano state un rito, almeno fino alla morte del signor Lino, avvenuta quando Palomo aveva da poco compiuto i diciotto anni.

Ogni giorno la signora Enrichetta si recava alla banca e per almeno un'ora, con la sua lingua gutturale e con l'ausilio di un bloc-notes, impegnava il suo funzionario di fiducia a spostare capitali e ad acquistare o vendere titoli.

Si vociferava sempre che il signor Lino era entrato in possesso di una cospicua eredita' e, grazie all'acume della moglie per gli affari, quel gia' consistente gruzzolo era via via aumentato al punto da permettere ai Di Santo di vivere senza preoccupazioni e al piccolo Gabriele di crescere senza l'assillo di dover finire per forza una scuola per entrare nel campo del lavoro.

Ma torniamo al piccolo Gabriele; dicevamo che Madre natura non era stata particolarmente munifica nei confronti dei genitori ma, quel che aveva tolto loro in bellezza e grazia, lo aveva restituito, e con gli interessi, al loro bambino. Bianco e rosso di pelle, con una zazzeretta di capelli neri era proprio un bel angioletto. "l'm angl" (il mio angelo) come soleva sempre ripetere Enrichetta quando lo prendeva in braccio.

Anche crescendo si mantenne un bel bambino, posato, ordinato, sempre pulito e ben vestito. Rispondeva a modo e con educazione a quanti gli rivolgevano la parola e, davanti ai complimenti dei più, manteneva un atteggiamento di educato riserbo.

Fin dai primi anni di vita, nessuno lo vide mai correre o affrettarsi; sempre ultimo ad entrare in classe o a ricevere la merenda. Alla scuola materna suor Maddalena soleva spesso canzonarlo con:"Gabriele, sei sempre il solito posapiano".

Per il suo candore, la sua tranquillita' e, diciamolo, la sua bellezza, alle recite presso la scuola materna gestita da religiose, le sue parti erano sempre quelle dell'angelo o di Gesu' Bambino.

La sua carriera scolastica non e' mai stata brillante: "E' intelligente, ma potrebbe fare molto, molto di più" era il ritornello che ripetevano inesorabilmente i professori alla madre che, ogni quindici giorni, si recava a scuola per sapere del profitto del suo adorato Gabriele.

Tutt'altro che stupido Gabriele, sì studiava, ma passava la maggior parte del suo tempo in altre faccende; collezionava di tutto, dai vecchi fumetti di Zagor e Tex, ai coleotteri e alle farfalle, dai sassi di fiume alle conchiglie di mare. La sua passione più forte era quella di osservare il cielo di notte. Grande fu la sua gioia quando, a dodici anni, si ritrovo', sotto l'albero di Natale, un telescopio. Sul terrazzo di casa si portava sempre dietro mamma Enrichetta che cercava di coinvolgere in questa sua passione. "Mamma, guarda, quello e' Rigel, in Orione" e la mamma: "Rgl, Orrrne" oppure "E quella e' Sadalsuud in Acquario" al che la mamma lo guardava con tenerezza quasi a dirgli: Ma non potevano, quella stella, chiamarla con un nome più semplice?"

Solo verso i quindici anni la sua bellezza venne un pò deturpata da una incipiente acne che avrebbe segnato la sua pelle per gli anni a venire.

Dicevamo che Gabriele sarebbe diventato Palomo solo verso i diciassette anni e fu in occasione di una festa in maschera organizzata dai suoi compagni di Liceo. Si presentò con un abito di foggia spagnolesca: camicia di seta bianca, merlettata, aperta sul petto villoso, pantaloni neri attillatissimi, fusciacca rossa in vita, stivaletti di capretto neri e con tacchi alti, capelli lunghi e neri raccolti in una coda da un nastrino pure lui rosso. I suoi compagni, non appena lo videro, al gridio di "Flamenco, flamenco" lo issarono su un tavolo e lo costrinsero a ballare. Su come andò la sua performance é meglio stendere un velo pietososo ma, da allora e per tutti il suo nome da Gabriele divenne quello di Palomo. Anche la mamma si abituò a chiamarlo con quel nome: "Plomo".

Sempre verso i diciassette anni Palomo prese coscienza delle sue fortune economiche: una decina di appartamenti in città, tutti affittati a famiglie per bene che pagavano con regolare puntualità, una casa al mare a Loano, una sulle colline dell'Oltrepò, due miliardi e mezzo di vecchie lire in banca, investiti oculatamente dalla mamma e una cassetta di sicurezza con oro a chili.

La stessa sera , prima di addormentarsi, fece un rapido ragionamento e prese una decisione che avrebbe giustificato la sua vita e i comportamenti futuri:" Con tutto questo ben di Dio, chi me la fà fare di faticare nella vita?"

Terminato senza infamia e senza lode il Liceo, si iscrisse all'Universita', alla facoltà di economia e Commercio, dove rimase parcheggiato per altri diciannove anni della sua vita e dove divenne un'istituzione. Lunghe presenze sui banchi delle aule o in biblioteca, piu' per dormire e far passare il tempo sfogliando distrattamente le pagine della Gazzetta dello Sport che per studiare. La media di un esame all'anno, giusto giusto per rimandare il servizio militare. Ci pensò poi mamma Enrichetta a tenerlo a casa definitivamente grazie ad un sostanzioso regalo ad un funzionario della sua banca, parente a sua volta di un pezzo grosso di non si sa quale ministero.

Nonostante tutto la signora Enrichetta era orgogliosa di quel figlio. Era bello, per lei, vederlo al mattino prepararsi per uscire e recarsi all'Università; gli ci voleva almeno un'ora per prepararsi con minuziosa meticolosità, sempre gli stessi gesti, le stesse azioni: la doccia, la colazione, l'asciugatura dei lunghi capelli neri, la scelta degli abiti, con predilezione per pantaloni e giacche di velluto o di pelle, dolcevita scuri o camicie a quadri e stivaletti con tacco alto; poi il bacio della mamma, prima di uscire, l'acquisto del giornale e la partenza per l'Ateneo, a piedi, con la sua andatura lenta e costante, o a bordo di un vecchio Ciao verde smeraldo.

Che fosse un bel ragazzo lo avevamo già detto e, nel corso dei primi anni di Università, molte furono le compagne di studio che cercarono di smuovere Palomo dal suo torpore, senza tuttavia riuscirvi. Qualcuno avanzò l'ipotesi che avesse altri interessi in fatto di gusti sessuali ma, anche quando i ragazzi di una certa tendenza ci provarono, ottennero lo stesso risultato. Pertanto i più pensarono a lui come a Palomo l'Angelo, cioè senza sesso.

Immancabilmente verso le tredici tornava a casa per il pranzo che si prolungava per quasi un'ora e mezza; un boccone al minuto, come lo aveva abituato la mamma, fin da piccolo:" Gbrle mstica bne, se no n'dgersci" e con l'immancabile giornale aperto davanti al piatto.

Un figlio senza vizi, solo qualche sigaretta al giorno, fumate ad ore fisse, con boccate regolari a cui seguivano perfetti anelli di fumo che Palomo osservava salire verso il soffitto della stanza fino al loro disintegrarsi.

Mai aveva espresso un desiderio tale da mettere in ansia i genitori; obbediente, accondiscendeva a tutte le richieste dei genitori, dal semplice rivestirsi per scendere a comperare qualcosa che la mamma aveva dimenticato per la spesa a quella di richiudere il telescopio quando la signora Enrichetta saliva in terrazza e lo invitava a ritirarsi perche' era tardui e faveva freddo.

                                                      °  °  °  °  °

Ho osservato per anni Palomo senza tuttavia conoscerlo personalmente e sentire la sua voce. Mi ero fatto un'idea di un individuo che, pur nella sua metodica piattezza, potesse vivere felice e sereno. Sono solito ripetere a mia moglie e a mia figlia che il segreto della felicità sta nell'accontentarsi e nel godere delle piccole cose.

In un certo senso invidiavo Palomo per questo, finche' un giorno, al termine di una noiosa giornata di lavoro in ambulatorio me lo vedo entrare in studio, sedersi e lapidario proferire: "Dottore, mi aiuti, sono depresso e non ce la faccio piu'."

Lo seguii per alcune settimane, anche con un certo successo, poi spari' dalla circolazione.

Venni a sapere alcuni anni dopo che era emigrato in Sud America.

Mi piacerebbe saperlo sui tavoli di qualche locale di Caracas o di Punta dell'Est a ballare il flamenco.

 
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Post N° 16

Post n°16 pubblicato il 22 Aprile 2007 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Mi e' sempre piaciuta l'ironia e l'ho sempre accettata anche quando e' rivolta nei miei confronti. Mi piace anche essere autoironico, eccovene un esempio con questo racconto. Non e' altro che la seconda parte del primo racconto che ho scritto su questo blog "Tzin Tzin, zanzara affamata". Quindi se volete capirci qualcosa, tornate indietro a rileggere o a leggerlo per la prima volta e poi attaccate con:

                                          VENDETTA, TREMENDA VENDETTA

Se le estati di fine millennio vennero definite calde, quelle dell'inizio del nuovo non poterono che essere definite torride.

Nel mese di luglio del 2011, a Pavia, si registrarono, per tutto il mese, temperature diurne di 37°C. con punte di 41-42° e tassi di umidita' elevatissimi.

Il livello del Ticino aveva raggiunto i minimi storici. Poche settimane prima, un centinaio di metri a valle del Ponte Coperto, era affiorata l'ogiva di una bomba inesplosa da 1000 Kg. dell'ultima guerra mondiale. Il basso livello delle acque aveva fatto la gioia degli archeologi veri e di quelli improvvisati: era stata addirittura recuperata una coppa d'oro con gemme di epoca longobarda e armi ed elementi di corazze degli Svizzeri annegati nel tentativo di fuga, durante la battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525.

Da tutto il mondo giungevano notizie allarmanti di incendi, siccità, raccolti andati perduti, fame e desolazione.

Il Tour de France di quell'anno era stato sospeso e spostato ad ottobre. Gia' nel corso del Giro d'Italia del maggio precedente, durante una terribile tappa alpina, 40 corridori si erano ritirati in un sol giorno per cause climatiche.

Nell'Iraq, ancora dilaniato dalla guerra civile, fu il caldo opprimente a costringere i contendenti a firmare un armistizio.

A Pavia, in quel luglio 2011, l'afa era opprimente, l'aria calda, umida, pesante, irrespirabile. Le vie del centro, nei pomeriggi assolati, erano deserte; i Pavesi se ne stavano chiusi in casa al fresco dei loro condizionatori accesi al massimo o, i più temerari, sulle rive del Ticino a contendersi la poca e limacciosa acqua rimasta.

Alla sera, a farla da padrone, erano sempre solo loro, più fameliche e feroci che mai, le zanzare. Come ogni anno i Pavesi si chiedevano se questa benedetta disinfestazione era stata fatta: Gli organi preposti, sindaco Rovagnati in testa, non avevano dato alcuna risposta. A rispondere erano invece i gruppi ecologisti, sempre più numerosi, incazzati e prepotenti: "La disinfestazione non s'ha da fare, né ora nè mai, occorre salvare l'ecosistema".

Gli ecologisti non volevano distruggere gli insetti con mezzi chimici, ma propugnavano il ripopolamento dei nostri cieli con le rondini che nel corso degli ultimi anni erano quasi del tutto scomparse.

Si vociferava che in Universita' il progetto di ripopolamento con rondini clonate fosse a buon punto, ma tutte le volte che venivano chieste notizie in merito, il Rettore puntualmente smentiva.

A Pavia, fra ecologisti e Comitato cittadino per la lotta alle zanzare, si era allo scontro aperto. Da più sere i fautori della lotta ai terribili insetti bivaccavano sotto la casa del Sindaco Rovagnati. disturbandone la quiete domestica e il sonno. Lo slogan: "Rovagnati, Rovagnati, siamo stufi di essere morsicati" veniva ripetuto ossessivamente fino alle prime luci dell'alba.

Si erano già verificati episodi di intolleranza. Lanci di sassi contro le finestre dell'abitazione di un noto esponente degli ecologisti e l'incendio del giardino di casa di un altro erano notizie comparse sulla Provincia Pavese lo scorso maggio.

A giugno, il Presidente del Comitato di lotta alle zanzare si era trovato le ruote del suo fuoristrada tagliate.

La sera del 24 luglio, alle 21.00, era stata indetto dal Comitato di lotta un comizio in Piazza della Vittoria. Subito, aveva risposto, con una contromanifestazione, il gruppo ecologista estremista "Tzin Tzin per sempre" da tenersi in Piazza Petrarca alla stessa ora.

A capo del Comitato di lotta alle zanzare c'era lui, il Dottor M., l'assassino, il boia di Città Giardino, come veniva chiamato dagli avversari. Questi era assurto agli onori della cronaca per aver ucciso proditoriamente, una sera dell'estate del 1998, la zanzara Tzin Tzin, facendone una martire. Allora era grasso e sempre sudato; una dieta ferrea, impostagli per motivi di immagine, gli aveva fatto perdere 25 chili e, grazie anche alla palestra, era diventato un attraente uomo di mezza età.

Fin dal primo pomeriggio di quel 24 luglio, gruppi di esagitati ecologisti avevano tentato di impedire l'approntamento del palco per il comizio serale in Piazza della Vittoria. Due lampade antizanzara erano state distrutte a calci e a colpi di spranga. Uno sprovveduto incursore era stato fatto prigioniero da alcuni membri del Comitato, denudato e frustato sulle natiche con mazzi di ortiche.

Verso sera, elementi del Comitato antizanzara compirono espropi proletari al Supermercato GS di via della Torretta asportando insetticidi, fornellett antizanzara e creme repellenti. Tentarono di ripetere il colpo alla COOP di viale Campari, ma furono messi in fuga dalle cassiere infuriate.

Il Prefetto, sentendo puzza di bruciato, aveva chiesto rinforzi alle Prefetture limitrofe; alcuni reparti della Celere erano confluite in città, provenienti da Lodi, Crema e Cremona, fin dal primo pomeriggio.. Era dai tempi dei comizi dell'M.S.I, negli anni 70, che non si respirava, a Pavia, un clima politico così infuocato.

Verso le 20.00 i primi gruppi di simpatizzanti per il Comitato incominciarono a confluire verso Piazza della Vittoria. Inalberavano cartelli con le scritte più disparate: "10, 100, 1000 Tzin Tzin", "Disinfestazione o rivoluzione", "Sindaco, pensaci tu, non ne possiamo più".

L'ora del comizio si avvicinava e sul palco del Comitato c'era frenesia; incominciava a circolare la voce che il Presidente era irreperibile. Lo avevano cercato a casa, ma senza successo; la moglie non ne sapeva niente e il suo cellulare era muto. Era stato visto l'ultima volta al Poliambulatorio di Corteolona dove aveva timbrato l'uscita dal lavoro, con cronometrica precisione, alle 17.00, poi più nulla, volatilizzato.

Alle 21.00, invece, arrivarono loro, puntuali come sempre, a sciami,le zanzare. I Pavesi, punzecchiati senza pietà, si imbestialirono sempre di più: "Discorso, discorso" veniva urlato dalla folla: "Uhu, uhu" di scherno venivano risposti dal balcone del Broletto da parte dei contromanifestanti, subito zittiti dal lancio di sassi e ortaggi.

Alle 22.00, constatato che il Presidente non sarebbe più arrivato, prese la parola il suo Vice che, dopo alcune frasi di circostanza, chiese scusa ai presenti e rimandava la manifestazione a data da destinarsi.

Mesti, imbestialiti dalle punture, senza il sollievo nemmeno di un gelato o di una bibita fresca, dal momento che bar e gelaterie erano rimaste chiuse per paura di incidenti, i Pavesi fecero ritorno alle loro case.

Il Presidente venne ritrovato il mattino successivo nell'area VUL da un abitante del Borgo, cola recatosi col proprio cagnolino. Questi era legato ad un albero, seminudo, in evidente stato confusionale, orribilmente morsicato su tutto il corpo dalle zanzare. Al collo portava un cartello su cui, a caratteri in stampatello rossi, si poteva leggere: "COMPAGNA TZIN TZIN SEI STATA VENDICATA", nessuna firma.

Trasportato al Policlinico San Matteo e ricoverato, ne avrà per qualche tempo, ma se la caverà. Dicono che verrà aperta un'inchiesta.

 
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Post N° 15

Post n°15 pubblicato il 24 Marzo 2007 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Il racconto che vi propongo e' in assoluto, unitamente alla Signora dei carlini, quello che mi ha dato piu' soddisfazione. Tutte le volte che lo rileggo mi spuntano le lacrime. E' dedicato a mio nonno, il papà di mio papà, personaggio unico e straordinario.

                                            GLI ULTIMI TRE MINUTI

Da quattro anni ormai Giuseppe viveva una vita senza rendersi conto di viverla; da quando, piano piano, l'Alzheimer aveva cominciato a bergli il cervello.

All'inizio s'era trattato solo di difficoltà nel trovare le parole appropriate; poi la confusione dei nomi: chiamava un nipote col nome di un altro, il figlio con quello del fratello.

All'inizio si rendeva conto di tutto; la sua reazione sempre dignitosa, nessun dramma:" Sto invecchiando" soleva ripetere.

Poi iniziarono i deliri; voleva che gli preparassero le valige e la bicicletta, lui che non era più in grado di camminare se non appoggiandosi a qualcuno, perché doveva recarsi in una casa vicino alla stazione, di che paese o città non lo sapeva,, dove viveva una vedova con due figli che avevano bisogno di lui.

Come tutte le sere, anche quella del 4 maggio 1982, seduto a tavola col resto della famiglia. rigirava neccanicamente il cucchiaio nel piatto della minestra quando, tutto ad un tratto, avvertì qualcosa che non andava, un'improvvisa spossatezza che, partendo dai piedi, risaliva pian piano lungo le gambe e il cuore nel petto che martellava in modo strano.

Le persone attorno a lui si sfuocarono, le voci si attutirono; prese forma al suo fianco la figura di una signora, in abito nero da contadina di fine Ottocento. "Mi sembra di conoscerla" pensò Giuseppe "Ma é passato tanto di quel tempo".

La signora socchiuse le labbra: "Beppe, sono venuta a prenderti per accompagnarti in un posto, non avere paura, sarà tutto facile, non sentirai dolore: Preparati, ti restano ancora tre minuti".

Nella mente di Giuseppe si materializzò una scena successa tanto tempo fa: era verso l'mbrunire del 29 luglio 1900. Aveva cinque anni e da alcune ore, chiuso nella sua stanza col fratellino Umberto, udiva provenire dalla camera accanto le urla disumane di sua mamma. Gli avevano detto di recitare le preghiere a Gesù per aiutare il suo fratellino a nascere.

Col passare del tempo le urla divennero sempre più flebili e poi ci fu il silenzio. La porta della camera si aprì e comparve il loro padre, Pompeo, in lacrime: "Recitate l'Eterno Riposo per la vostra mamma e i vostri fratellini che non ce l'hanno fatta".

Dalla porta semiaccostata Giuseppe la vide, bianca come un lenzuolo, coperta di sangue, col braccio penzoloni dal letto; ai suoi piedi un fagottino con i suoi due fratellini nati morti:

Gli avrebbero ripetuto continuamente, negli anni a venire, che la sua mamma era morta lo stesso giorno in cui Re Umberto I°veniva assassinato a Monza.

Ecco chi era la signora in nero davanti a lui, era Ortensia, la sua mamma che era venuta a prenderlo.

Un sottofondo di voci lo distrae un attimo, la figura in nero si dissolve, ode la voce della nuora Nina: "Nonno, cos'hai, non stai bene?, del figlio Sergio: Portiamolo a letto" e ancora della nuora: "Chiamiamo il dottore".

Uno sforzo, in un attimo di lucidità, dopo quattro anni di buio, Beppe riesce a parlare: "Non é necessario, é arrivata la mia ora". Senza strepiti, senza paura, con solenne dignità.

La figura in nero riprende forma ai piedi del letto: Hai ancora due minuti e mezzo".

Quel bambino, di appena sei anni, arranca nella neve e nel freddo di dicembre per andare a scuola; sei chilometri all'andata e sei al ritorno. Malvestito, con gli stivaletti sbrecciati e consunti ai piedi. Porta sulla schiena lo zainetto dei libri e del pranzo: pane e formaggio; porta sotto il braccio un pezzo di legno che servirà per alimentare il fuoco della stufa della scuola.

Ora é un ragazzetto di dodici anni e per dodici ore al giorno consuma la propria giovinezza in una fornace a fabbricare mattoni per due lire al giorno. Quei soldi gli servono per sopravvivere e per far sopravvivere la sua famiglia.

Si risente la voce della signora in nero: "Beppe, ancora due minuti".

Adesso ha diciotto anni, si trova su un'aia, é in corso la festa della mietitura. "Chi é quella bella moretta che si libra nell'aria con tanta leggerezza?". Non ha occhi che per lei Beppe. Prima di notte conoscerà il suo nome: Oddonea Negri e il sapore delle sue labbra.

"Ancora un minuto e mezzo" scandisce la signora.

E' passato un anno, vestito di grigio verde, sul Sabotino. E' fuori di pattuglia in una notte calda e senza luna del maggio 1916 quando, improvvisamente, attorno si scatena l'inferno. Shrapnels esplodono illuminando a giorno la costa della montagna, una sventagliata di mitraglia e l'esplosione di alcune granate uccidono, nel volgere di pochi secondi, il tenente, il sergente e cinque soldati. "Cazzo al riparo, i tognini! Guastini, porca troia, giu' la testa, vuoi farti accoppare?".

Silenzio, il lamento dei feriti, una voce gutturale urla: "Italiani, arrendetevi, siete circondati".

Il sussurro del soldato Guastini: "Beppe che si fà, sei tu il piu' alto in grado adesso che il tenente e il sergente sono morti, spetta a te decidere".

La voglia di resistere e farla pagare cara a quei tognini é grande, ma davanti agli occhi di Beppe ricompare il corpo flessuoso della sua Oddonea che balla nella notte tra i riflessi rossastri dei fuochi accesi sull'aia: "No, non posso perderti così". Viene alzato un braccio e sventolato un panno bianco. Lo attenderanno due anni e mezzo di prigionia in un campo, in Moravia.

Ricompaiono i rumori nella stanza e le voci di sottofondo: "Nonno, abbiamo telefonato a Fiorenzo, a Pavia; viene subito". Ma su tutte distingue quelle della signora: "Non ti resta che un solo minuto".

La guerra é finita da poco, in un campo di grano maturo, la Oddonea é stata sua per la prima volta. Sarà la sua sposa per tutta la vita.

"Il tempo stringe, ti restano solo trenta secondi" ribadisce la signora.

Le immagini davanti agli occhi di Beppe prendono ad accelerare vorticosamente.

E' duro lavorare la terra con quel gran caldo, soprattutto se hai una spina piantata nel cuore, quella d un figlio che non torna dal fronte.. Beppe si deterge la fronte sudata con la manica della camicia. E' la tarda primavera del 1943. Negus, il vecchio cane nero, scatta improvvisamente in una corsa forsennata verso casa: "Cosa fà?, Dove sta andando?". Dopo mezzora eccolo di ritorno, con la lingua penzoloni e la coda ondeggiante proiettata verso il cielo. "Ma chi é quello in fondo al campo, in divisa? Ma é Sergio! venite! Sergio é tornato dalla Russia".

Giuseppe deve fare presto, sa che il suo tempo sta per finire.

Sul letto di morte c'é sua figlia Edra, consumata dalla leucemia. "Cristo Santo, perché lei e non me".

Pochi secondi ancora ed ecco il viso rapito del nipote Fiorenzo; sono seduti davanti alla stufa durante un freddo inverno dei primi anni sessanta: "Nonno, ma quanti tognini hai ammazzato in guerra? Raccontami ancora degli undici assalti alla baionetta in dieci giorni, del Sabotino e di quella volta che il Re piccolo piccolo ti é passato vicino in trincea".

Poi buio e silenzio. Beppe se ne é andato per sempre.

                                                          ° ° ° ° °

Beppe non sa per quanto tempo ha dormito; si risveglia in una radura erbosa tra i monti; il sole sta per sorgere; Il paesaggio attorno presenta una strana luminescenza grigio verdastra. La signora in nero e' seduta a pochi metri da lui; gli indica un sentiero tra gli abeti: "Seguilo, tra mezzora giungerai davanti ad un cancello, qualcuno verra' ad aprirti".

Beppe si incammina, il pendio é dolce, l'aria frizzante, gli uccelli cantano in coro, l'odore delle conifere intenso. Ecco il cancello, un signore austero lo attende sulla soglia: "Chi sei?" soggiunge. Beppe, intimidito, risponde:" Caporal Maggiore M. Giuseppe, 74° Fanteria, congedato dall'Esercito col grado di sergente, Cavaliere di Vittorio Veneto".

L'uomo di fronte a lui si scioglie in un sorriso: "Sei stato un uomo giusto, Giuseppe, vieni, entra, in tanti ti stanno aspettando".

 
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Post N° 14

Post n°14 pubblicato il 16 Marzo 2007 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Vi avevo precedentemente anticipato che in un racconto successivo sarei morto un'altra volta. Il momento é arrivato anche se c'é una sorpresa finale.

                                                 IL CALDERONE

Lo squillo del cellulare, un'enorme massa rossa catapultata verso di lui, una luce accecante che gli esplode intorno; furono le ultime cose che udì e vide nella sua vita; poi il silenzio e il buio.

Lo spirito si staccò dal corpo e rimase lì, in piedi, sul luogo dell'incidente, a rimirare lo scempio di lamiere, carne e sangue.

Udì le grida dei primi soccorritori: "Madonna che botta, questo ci ha lasciato la pelle", le prime giustificazioni disperate dell'autista del TIR: "Non ho potuto evitarlo, mi é venuto addosso a più di 100 all'ora, magari si é sentito male" e pure la conferma, con voce tremante e incerta di una prostituta dell'est che, su quella strada, faceva mercimonio di se stessa: "E' vero, ha ragione lui, andava forte e poi, improvvisamente, ha incominciato a sbandare".

Lo spirito guardava il corpo inerte passandolo come ai raggi X: l'osso frontale sfondato, tre grosse raccolte emorragiche in quello che, fino a pochi istanti prima , era un cervello, la frattura fra la quarta e quinta vertebra cervicale con sezionamento del midollo spinale, lo sfondamento degli acetaboli, fratture multiple agli arti inferiori e il piantone dello sterzo conficcato in profondità nel torace. Vedeva le singole cellule sfaldarsi ad una ad una e le molecole, come impazzite, disintegrarsi in modo vorticoso. Venuta a mancare l'impalcatura dello spirito, la materia si dissolveva come neve al sole.

Ancora voci: "Dicono che sia un dottore di Pavia, non si sarà nemmeno accorto di morire".

Lo spirito si sollevò da terra di alcuni centimetri, un metro, dieci, cinquanta: osservava , da quell'altezza, l'area dell'incidente cosparsa di pezzi di copertone e lamiera e una doppia fila di auto bloccate lungo la provinciale che da Tromello porta a Mortara; cinquecento metri: quel pezzo di Lomellina con i suoi campi coltivati a riso e i radar del Centro Aeronautico di Remondò; mille metri: il Po con il ponte di Casei Gerola e, sullo sfondo, Pavia a sinistra e Voghera a destra.

La velocità crebbe vertiginosamente e lo spirito ebbe appena modo di vedere sfumare sotto i suoi piedi le Alpi e la Pianura Padana, lo Stivale per intero, i contorni dell'Europa, la Terra e i pianeti del Sistema Solare. In men che non si dica il Sole si ridusse ad un puntino sempre meno luminoso e sempre più lontano.

Più acquistava velocità, più aveva la sensazione di uscire dalla propria dimensione, dal proprio essere per entrare a far parte di un essere diverso. All'inizio provava un senso di estraneità ma, col passare del tempo e lo scorrere dello spazio, questi due elementi si stavano confondendo l'uno nell'altro; provava sempre maggior familiarità con questo enorme tutto in cui stava precipitando per mescolarvisi.

Lo spirito stava entrando in sintonia con lo spirito universale, ad esso cedeva le proprie sensazioni ed esperienze e da esso ne riceveva di ritorno altrettante, ma di numero e intensità di miliardi e miliardi di volte superiori.

Non so per quanto tempo fluttuò in quel calderone enorme: avanti e indietro non solo nello spazio ma anche nel tempo, a contatto con entità già viste, visitate e possedute e con altre mai conosciute e a lui estranee.

All'estremità del calderone piccole entità entravano nel grande tutto e altrettante uscivano, come per gemmazione, per allontanarsi a velocità sempre più crescente. lo spirito intanto continuava a fondersi nel grande spirito, assumeva forme diverse per poi rifondersi ancora in una serie infinita di volte.

Ad un certo punto la sensazione di staccarsi, di allontanarsi dal calderone a velocita' sempre più folle. il Sole, la Terra, l'Europa, la fascia alpina imbiancata di neve, la superficie di un lago, splash..

Sgambetto nell'acqua gelida di un fiume alla confluenza di un lago alpino. Che dico sgambetto, guardo sott'acqua: "Quelle sono zampe, zampetto dunque". Mi specchio nell'acqua limpida del lago e mi riconosco in un maestoso bianco cigno. "Ma dove sono?" Mi guardo in giro, "Ma quei profili di monti, lungo la sponda opposta del lago, li riconosco: la punta del Piancavallo, il Morissolo, il Limidario stracarico di neve e i panettoni sempre innevati del Lema e della Forcora".

Sono sempre più stupito: "Ma lì davanti non vedo Cannero e i suoi castelli affioranti dall'acqua, mi giro verso sinistra e non vedo che poche capanne di pescatori: la mia Germignaga, paese natio; allora l'acqua in cui sto nuotando é quella del Lago Maggiore".

Sulla vicina sponda s'avanza un drappello di soldati, sono legionari romani; dal vessillo leggo che appartengono alla XI° legione, la Claudia Pia Fidelis, "Possibile, trasformato, anzi rinato cigno nel 50 d.C.

I soldati scortano un gruppo di cinque prigionieri in catene, facce di montanari segnate dalla fatica e dal clima rigido; "Che siano Leponti, gli antichi abitanti della zona prima che arrivassero i Romani?".

I prigionieri vengono fatti salire su una barca a fondo piatto che, con un paio di colpi di remo si stacca dal pontile e volge la prua verso il fondolago; " A Ticinum e poi a Classe sulle triremi, o a Roma, da gladiatori?".

Alla mia destra si affianca una cigna dal collo lungo e flessuoso, bianca come il latte e con le zampe lunghe e nervose; il suo odore é buono. A dieci metri dalla riva ci sono dei canneti; ci dirigiamo in silenzio e in preda ad una frenesia erotica.

                                            

 
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Post N° 13

Post n°13 pubblicato il 01 Marzo 2007 da hrothaharijaz
Foto di hrothaharijaz

Sono contento perche', dopo un lungo periodo di astinenza, sono riuscito a scrivere ancora. Un grazie agli scarsi, ma competenti lettori, che mi hanno dato la forza di ricominciare.

Questo racconto é dedicato a tutti i giovani che entrano nel mio ambulatorio su una carrozzina e soprattutto a Trilly, cioe' alle persone buone e positive che potrebbero operare il miracolo.

                                                            TRILLY

E cosi' per Ludovica era arrivato il giorno della dimissione dalla clinica di rieducazione per malattie neuromotorie. Sei mesi di ricovero, di lunghe e dolorose sedute di fisioterapia, per poi uscire dall'ospedale su una carrozzina, seppur rosso fiammante, senza la benchè minima sensazione di vita dall'ombelico in giù e la certezza che, a meno di miracoli, quella sarebbe stata la sua vita per sempre.

Tutto era iniziato, all'improvviso, una fredda e piovosa serata di sei mesi prima; lei era distesa sul sedile posteriore dell'auto di papà, abbracciata a Tommy, il suo orsachiotto di peluche, poi la frenata, la sbandata, l'urto dell'auto contro una pianta, una fitta lancinante alla schiena e quella strana e brutta sensazione di non sentire più le gambe.

Poi la corsa in ospedale, l'intervento, il risveglio dall'anestesia e sempre quella strana e brutta sensazione.

Gli incoraggiamenti dei medici e la vicinanza di mamma e papà le avevano infuso un coraggio e uno spirito di sopportazione fuori dal comune e inusuali per una bambina della sua età. Poi, considerando gli scarsi risultati ottenuti, era subentrata una certa rassegnazione.

Il dramma si concluse il giorno prima di essere dimessa; pensavano che lei dormisse e le parole del medico, terribili come martellate sulla testa:" Signori Rosselli, mi spiace, abbiamo tentato di tutto ma il midollo spinale é leso in modo irreversibile; allo stato attuale delle conoscenze mediche non c'é nulla da fare, Ludovica non potrà più camminare".

Quella notte Ludovica non dormì, ma nemmeno pianse; vide davanti a sé scorrere, come in un film, le immagini di quello che sarebbe stata la sua vita in futuro, di quello che non avrebbe potuto mai fare e di quello che avrebbe dovuto subire e soffrire.

Il giorno dopo avrebbe compiuto cinque anni e Ludovica mai avrebbe pensato di iniziare la giornata col sorriso sulle labbra e con quella botta di felicità che solo i bambini sono in grado di sperimentare. Aperti gli occhi, dopo quelle poche ore di sonno, vide mamma e papà ai piedi del suo lettino con una grande scatola blu' avvolta da un enorme fiocco rosa:" Buon compleanno Ludovica".

Aperta la scatola, quello che vide le fece esplodere il cuore dalla gioia, un batuffolino bianco e caldo di sonno, un cagnolino, anzi una cagnolina come avrebbe scoperto di lì a poco, di razza maltese.

Tutti i pensieri foschi sparirono improvvisamente dalla sua testa e le immagini tristi della notte vennero sostituite da quelle rosee che rappresentavano la sua vita futura con Trilly, sì perche' la maltesina si sarebbe chiamata con quel nome.

L'arrivo di Trilly cambiò completamente l'esistenza di Ludovica, non le diede praticamente il tempo di pensare ai propri guai e la frenesia che era innata nella piccola bestiola venne trasmessa sempre alla padroncina.

Dove c'era Ludovica c'era sempre Trilly. I campanellini del collare della cagnolina, suonando, precedevano e accompagnavano l'entrata di Ludovica in ogni stanza della casa, spandendo una gioia festosa.

Quando Ludovica tornava dalla scuola o da qualche visita medica, Trilly, al suo rientro in casa, le volava letteralmente in braccio e la leccava e la baciava sulla faccia fino allo sfinimento.

Ludovica vedeva i compagni d'asilo, prima, di scuola, poi, scatenarsi nei giochi e correre mentre lei era relegata all'immobilita' sulla sua carrozzella. Per lei correva Trilly che, con la sua esuberante felicità, le trasmetteva la gioia di vivere anche se non aveva l'uso delle gambe.

Ludovica studiava e ripeteva ad alta voce la lezione davanti a Trilly e questa ascoltava attentamente, quasi comprendesse tutto e, alla fine della ripetizione, abbaiava festosa, non si capisce se per sottolineare che Ludovica era stata brava o se volesse un supplemento di lezione.

Non c'era festa di compleanno a cui Ludovica non fosse invitata:" Porta anche Trilly però", era la frase di rito che accompagnava l'invito.

Alla sera, sfinite, si addormentavano una accanto all'altra, quasi contemporaneamente e, al mattino, le si potevano ritrovare nella stessa posizione in cui si erano addormentate, Ludovica su un fianco e Trilly col muso incollato alla schiena della padroncina, all'altezza di dove era avvenuto il patatrack.

I campanellini di Trilly davano, al mattino, la sveglia alla casa e il via ad una nuova e gioiosa giornata.

                                                             ° ° °

Sono passati quindici anni. Ludovica é cresciuta, frequenta l'Università, e con profitto. Anche Trilly é cresciuta ma, soprattutto, invecchiata e con qualche acciacco e, nonostante abbia perso un pò della sua gioiosa esuberanza, i suoi campanellini continuano a risuonare per le stanze della casa.

Improvvisamente quel mattino, al risveglio, Ludovica avverte sotto la pianta dei piedi uno strano formicolio, una sensazione piuttosto fastidiosa, ma sempre una sensazione.

Il giorno successivo, sempre al risveglio, il formicolio interessa i piedi e parte delle gambe.. Nel giro di una settimana anche la parte del suo corpo che aveva avvertito come morta veniva interessato dallo stesso fenomeno.

Adesso, dormendo, avvertiva la pressione del musino di Trilly sulla sua schiena.

Nel frattempo Trilly appariva strana, svogliata, sembrava quasi trascinare, quando camminava, gli arti posteriori. La sera prima non era riuscita a saltare sul letto da sola, ce l'aveva dovuta adagiare la mamma di Ludovica.

Ogni mattina, appena desta, Ludovica scopriva qualcosa di nuovo di questo suo imprevedibile corpo; oggi si era svegliata e, guardandosi i piedi, aveva notato che riusciva a muovere avanti e indietro le dita.

La notte successiva si svegliò di colpo avvertendo una fastidiosa sensazione di peso sulla vescica e, senza quasi accorgersene, si trovò a gridare;" Mamma, mi scappa la pipì". Fra l'incredulità di tutti, accompagnata in bagno, riempì d'urina il suo vecchio vasino da notte.

Decisero quella notte stessa che all'indomani avrebbero portato Ludovica dal neurologo per cercare di dare una spiegazione logica a quanto stava accadendo.

Nel corso della notte medesima Ludovica si svegliò all'improvviso, avvertiva una fastidiosa sensazione di bagnato sul letto; le bastò allungare una mano per accorgersi che Trilly aveva fatto la pipì e bagnato le coperte; "Ah Trilly, stai proprio diventando una vecchia nonnina".

Il mattino successivo, al momento di uscire di casa , Ludovica si girò per fare ciao alla sua adorata cagnolina:" Tranquilla Trilly, Ludo torna a casa presto e ti porterà una sorpresina". Due occhietti tristi e un debole guaito furono la sola risposta:

Ludovica uscì con uno strano presentimento, una sensazione di malessere avvolgeva il suo cuore, ma non disse niente a nessuno.

Il neurologo ascoltò perplesso il racconto degli ultimi fatti avvenuti. Al momento della visita rimase sbalordito quando constatò che la ragazza rimaneva in piedi da sola e per poco non le venne un coccolone quando la vide camminare senza l'assistenza di qualcuno. "Non capisco" furono le sue due uniche parole. Eseguita nel giro di un'ora una risonanza magnetica, il neurologo si presentò ai genitori e a Ludovica: "Incredibile, dall'esame risulta che la lesione al midollo spinale é scomparsa e vostra figlia é guarita, non ci sono spiegazioni logiche, se credete ai miracoli questo potrebbe esserne uno".

La gioia dei genitori fu devastante, meno quella di Ludovica. Nonostante fosse lì, in piedi, avesse mosso i primi passi dopo quindici anni e vedesse nell'angolo la sua carrozzella, rosso fiammante, che non avrebbe più usato, non riusciva a gioire.

Arrivata a casa, si recò subito in cameretta; sul suo lettino giaceva Trilly, ormai fredda. In quel momento capì cos'era successo e perché.

                                                                          

 
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