Creato da korov_ev il 06/02/2013

Fermata a richiesta

Vietato parlare al conducente

 

 

Un'altra occasione persa (per starmene zitto)

Post n°109 pubblicato il 15 Agosto 2020 da korov_ev

 

Ferragosto.
È passato circa un anno dal mio ultimo post.
Vi dirò, mi ci voleva proprio, questo tripudio di grigliate e tuffi al mare immortalati da una folla di smartphones impazziti e conservati dai servers di Whatsapp a memoria dei nostri giorni felici.
Io sto qui e guardo. Non sono felice, né deluso, né triste o allegro. Guardo.
Non sono mai andato dietro alle feste comandate, neanche da bambino a Natale.
Uno dice: ma i regali ti interessavano. I regali mi duravano una settimana, mi affascinavano di più le luminarie che cambiavano la faccia al paesello, avevano il colore delle stelle e il sapore delle nuvole e dello zucchero filato. Be', lo ammetto, qualche volta anche l'odore della frittura di pesce, ma la vita non può mica essere solo zucchero filato e luci colorate, qualcosa che puzza da qualche parte c'è sempre. E poi a me la frittura di pesce piace da impazzire, soprattutto nel cartoccio di giornale.
Adesso, però, sto qui e guardo, e penso che fior fiore di analisti, economisti e psicologi di massa stanno a guardare proprio come me in questo momento.
Io sto qui e penso che quei tuffi e quelle grigliate e la grande ruota sul porto che gira felice, e perfino il flute di prosecco che gorgoglia tra le dita di un signore grasso e abbronzato, non siano altro che ininterrotti flussi di denaro. Un resoconto che a capodanno ci dirà quanto siamo stati felici e quindi bravi. O magari bravi e quindi felici.
Lo chiamano PIL
Il Covid ci ha  paradossalmente dato la possibilità di vedere che un altro tipo di vita è possibile, che la velocità e la produttività non sono tutto e che si può vivere bene anche con qualcosa in meno, ma figurarsi se a noi poteva piacere un'idea del genere.
E allora via, bisogna tornare subito a correre, ad essere competitivi, a schiacciare tutto e tutti sotto la logica della crescita perpetua e del baccanale. Ma qualcuno questo baccanale lo dovrà pur pagare.
Tanti lo stanno già pagando. Da un bel pezzo, lo stanno pagando. Ma sono fuori dall'orbita dei nostri pensieri, lontani dagli occhi oltre l'orizzonte e quindi non esistono. Adesso esistono solo i miei tuffi, la mia grigliata e il mio fedele smartphone che mi ricorderà ai posteri. Alla faccia di Nerone che ha dovuto dar fuoco a mezza Roma, altrimenti chi se lo ricordava.
Già, per quale motivo mai ci si dovrebbe ricordare di uno che fece del "Panem et circenses" uno stile di governo con cui modellare a suo piacimento un'enorme massa di coglioni?

 
 
 

12 agosto 1944 (Sant'Anna di Stazzema)

Post n°108 pubblicato il 11 Agosto 2019 da korov_ev

 

Sull'uscio, piedi scalzi e muti, le donne guardavano gli uomini ritti come steli di grano sul bordo della terra riarsa aperta a forza.
Le donne, sull'uscio, con una spalla poggiata allo stipite e l'altra rannicchiata sul cuore, guardavano gli uomini in divisa silenziosi come temporali levatisi davanti ai loro uomini. Li guardavano negli occhi e nelle mani, e fin dentro alle canne dei fucili e alle dita nervose.
Poggiavano un piede sul dorso dell'altro, le donne. Accartocciavano le dita sulle ossa scarne; leggevano negli occhi bassi degli uomini quella domanda e avevano paura.
- Chi sei tu, qui davanti a me, che mi somigli e non riconosco?
Cambiavano di posto ai piedi, le donne, sull'uscio. Destro sotto, sinistro sopra, e spiavano gli uomini per vedere se sarebbero crollati. E pregavano e maledicevano, perché ogni scelta era quella sbagliata.
Guardavano gli uomini, i loro uomini; li guardavano negli occhi, le donne di Sant'Anna, ed erano occhi accesi di rabbia. Li guardavano negli occhi e intimamente gioivano. E morivano. perché sapevano che non sarebbero crollati. Non oggi, non questa volta.
E nascondevano i figli negli armadi, le donne; e i loro pochi anni dietro un velo nero, e coi piedi scalzi uno sull'altro, guardavano gli uomini cadere sulla terra ferita, con gli occhi fissi e rabbiosi e il volto nella polvere.
Padri, mariti, figli, e poi ancora fratelli e sorelle e ancora figli e figlie e figli di nessuno. Crocefissi, scannati, sventrati dalle granate; bruciati vivi nelle case e nei fienili e sotto i letti ancora caldi.
Li guardavano e sentivano in bocca il sapore del loro ventre violato, dei loro seni inutili gonfi di latte, della loro carne presa a morsi.
Li guardavano e sentivano in bocca il sapore del furore della vendetta e quello ancor più aspro del perdono. Li guardavano e sapevano che non sarebbero crollate.
Non oggi. Non questa volta. Non ancora.

 

 

 
 
 

Blood, sweat and tears

Post n°107 pubblicato il 16 Luglio 2019 da korov_ev

No, non il gruppo rock, di fine anni sessanta. Io intendo proprio sudore, lacrime e sangue, ciò di cui è fatta la vita di tutti quelli nati senza paracadute, senza i soldi di papà a parargli il culo e a farli crescere bene; la vita di tutti quelli nati senza pedigree o, peggio, nati col pedigree sbagliato.
Mi dici: "Sono andata alla libreria di G. oggi. C'era odore di sudore rancido, o forse di sporcizia, non lo so, ma era forte, mi ha nauseata. Credo dorma in libreria, perché lì, da una parte, sembrava ci fossero dei vestiti ammucchiati e altre cose buttate là come se avesse preso a vivere nel suo minuscolo negozio".
Lo dici con un'espressione strana sul viso, come di chi non capisce. Come se G. non potesse trovarsi in difficoltà per il semplice motivo che fa parte della tua vita, come se aver sentito sotto i piedi i cocci della decadenza e respirato nella tua aria gli odori peggiori della vita ti avesse frastornata.  Come se nel cerchio della tua esistenza fosse sorprendente una vita in Do minore.
Quando la sconfitta entra nelle nostre stanze senza il filtro sterile di uno schermo televisivo o priva dell'anestetico esalare d'inchiostro tra le pagine di un giornale, quando non è accartocciata all'angolo di una piazza a lato dei tuoi passi... quando non si scontra, ma si incontra con la tua vita, allora se ne sente tutto il tanfo sotto il naso.
Adesso i tuoi occhi sono come pozze d'acqua in cui sia stato gettato un sasso. Increspature concentriche si staccano dal centro dei pensieri corrugandoti la fronte.
Io non so se G abbia problemi, né di che tipo, ma la vita di certe persone è così: lacrime, sudore e sangue.
È così anche se confina con la tua, anche se a volte si intreccia, con la tua.
Sì, la vita di certe persone è lacrime, sudore e sangue, tutto chiuso in tante piccole buste di plastica legate strette per non disturbare l'olfatto di chi passa accanto credendo di sapere senza neppure immaginare; credendo di sapere senza conoscere i silenzi carichi di pudore né i pensieri confusi col rumore del mondo che corre intorno
Certe vite sono così, e capita, a volte, che si insinuino come fumo nelle fessure del dubbio: è allora che, per qualche istante, si aprono sulla pelle intatta le crepe delle della nostra "borghesitudine" distratta.

 

 
 
 

I dolori del giovane Korov'ev (post-umi di un tempo che fu :-)

Post n°106 pubblicato il 25 Giugno 2019 da korov_ev

L'altro giorno stavo riordinando vecchi incartamenti e scritti diciamo... vintage, quando, da uno dei tanti quaderno, salta fuori una mia foto di tanti anni fa con dietro scritto "Lago di Soanne, estate 1994". Un po' più sotto, parole in corsivo:

Terra e pietra disegnate dal tempo,
e l'immobile gorgoglio di vite nude

recitate tra favole di battaglie
e sconfitte di marce e scarpe rotte

 e ancora:

E’ polvere di acqua e sale,
confine di cielo,

quella linea sottile che non so
e mi accorgo già di amare.

Ora, al di là del fatto che sarebbe carino scrivere qualcosa sulla triste e romantica leggenda del pastorello Andreuccio per la quale quello specchio d'acqua alle mie spalle è conosciuto da queste parti, ciò che mi ha colpito come un pugno allo stomaco, guardando la foto qui sopra, è qualcosa che in gioventù non ho mai realizzato e che ora, purtroppo, non serve più a molto capire, e cioè:
minchia, che bel pischelletto che ero!
E chi cazzo se l'immaginava, allora. Io vedevo solo che le ragazze non mi filavano più di tanto, ma vallo a capire che era per via del fatto che la mia imbranataggine, i miei silenzi timidi e le mie rare parole forse troppo complicate, mi facevano passare per uno che se la tirava (cosa di cui sono venuto a conoscenza solo durante l'ultima cena dei coscritti qualche mese fa per bocca di una mia cara amica d'infanzia).
Se mi guardo da qui dove sono oggi, dall'alto della mia esperienza semisecolare, con tanti anni in più e molti capelli in meno... anzi, diciamo pure tutti i capelli in meno, l'unica cosa che mi viene di dire a quel giovane con lo sguardo altrove e l'aria un po' sognante  è: PIRLA!
Avresti potuto farti tutte le meglio gnocche da qui a Capo Nord, e invece niente, nisba, nulla, nada, rien de rien.
Ma dico io, giovane Korov'ev, con tutte le tedesche che c'erano in giro a quel tempo sulla riviera, non era meglio se invece di stare lì a cazzeggiare e scrivere fesserie ti facevi dare qualche lezione da Zanza su come abbordare e, magari, imparavi a sfruttare meglio quella giovinezza che, purtroppo, si fugge  (silenziosa) tutta via?
Il fatto è che a quel tempo ti mettevano in testa fin da piccolo un sacco di cazzate e ti insegnavano a cercare cose che non esistono, e allora tu sognavi l'amore, quello con la A maiuscola, e pensavi che l'unica cosa che avrebbe contato sarebbe stata quell'unità tra te e la tua donna; lo zoccolo duro di quel "Noi" che avrebbe resistito quali che fossero state le avversità della vita.
Tutte cazzate, ma probabilmente, anche fossi stato cosciente di tutto non avrei saputo essere diverso. Come si dice: quando uno nasce coglione...
Va be', quel che è fatto è fatto e quel che non è fatto... be', p
arliamone :-)

 
 
 

Ivan

Post n°103 pubblicato il 05 Giugno 2019 da korov_ev

 

La musica che si ascoltava in casa quando io ero bambino era quella dei cantautori "impegnati" di sinistra; era usuale sentir risuonare in quelle stanze le note e i versi de "La locomotiva" o le parole di "Socialdemocrazia" piuttosto che quella della "Canzone del maggio".
Quella era la musica che accompagnava lo scorrere lento di vite trascorse all'ombra di generazioni solo sopravvissute e mai vissute: non me ne sarei potuto sottrarre nemmeno se avessi voluto.
Ad un certo punto, però, tra tutta quella poesia che chiamava agli ideali di giustizia e uguaglianza, cominciai a distinguere il senso delle strofe dalle bocche che le pronunciavano.
Cominciai a percepire gli autori di quelle canzoni come superbi fabbricanti di parole, eccellenti acrobati della rivoluzione, ma nulla più.
Pur mantenendo intatta tutta la loro bellezza, parole fatte per essere "mezzo" diventavano "fine" o, peggio, fine a se stesse.
Uno dei pochissimi cantautori a non aver mai fatto parte di questa mia innocente "lista nera" fu, ed è tutt'oggi, Ivan Graziani.
Capisco che per molti egli potesse essere un cantautore "minore". Le sue canzoni quasi senza metro, senza rime; le melodie fuori dal comune, e poi quelle storie così piccole, quasi stupide, di fronte al "risveglio" delle masse e all'avanzare dell'enorme nuova coscienza popolare..: sì, lo capisco, che per molti potesse essere un cantautore minore, ma per me non fu e non è così.
Le sue canzoni sembravano raccontarmi quello che io ero, quello che provavo e vivevo di giorno in giorno.
E poi vita, morte, amore, giustizia, libertà: i massimi sistemi si specchiavano nelle sue storie piccole di provincia e sembravano quasi chinare il capo, cedendo la loro solennità alla semplicità di quegli stralci di vita quotidiana. Del resto che cos'è un deserto se non una moltitudine di granelli; e cos'altro l'eternità, se non il susseguirsi di piccoli istanti che non possono che rivolgersi all'indentro per trovare il loro infinito nell'infinitamente piccolo (?).
Così nelle sue canzoni la Storia diventava tante storie. Storie minuscole, a volte banali, altre tristi o allegre o severe, ma sempre "vere"; vere come vero ho sempre sentito lui.
Mi è accaduto di incontrarlo, un paio di volte, tanti anni fa.  Un bar anonimo lungo una strada anonima, una delle tante che tagliano le valli strette dell'Appennino marchigiano: aprire la porta e trovarlo lì, uno tra tanti. Sulle sue labbra la stessa amichevole confidenza dei "miei"vecchi, quelli che riempiono i bar di paese nei dopopranzo d'agosto; quella confidenza che non si nega a nessuno, nemmeno agli sconosciuti capitati lì per caso.
Ancora oggi, a cinquant'anni, anzi, cinquantuno, mi capita di ricordare cose mai viste eppure vissute, vissute attraverso quelle favole in musica narrate dalla sua voce strana e inusuale; ancora oggi il saltellare nervoso di un corvo mi trasporta nei vicoli e su per le scale ritorte di Anghiari e vecchie ville abbandonate avvolte dalla vegetazione mi raccontano di belle signore bionde prigioniere negli specchi delle loro voglie e della loro età, mentre, la sera, ligi e timorati Jekyll si trasformano in tanti Hyde in attesa lungo autostrade telematiche e Radio Londra annuncia a tutti che la guerra è finita, è finita davvero, per i vivi e per i morti.
Mi piace andare su e giù per certi ricordi, adesso, però, devo lasciarvi.  È tardi e la luna luccica sul dorso dei delfini al largo. Dal ponte di questo cargo vedo, lontano tra i flutti, il capitano Nemo apparire, ma la gente continua a dirmi che sono strano, più che strano, perché non c'è niente sul mare. Né delfini né capitani, e nemmeno preti neri che giocano a scivolarello o ville bianche sopite tra i rami dei ciliegi.
Non c'è niente, proprio niente, sul mare, neanche quella volpe bianca che fugge libera su tre zampe nella neve di aprile.
La gente dice che sono strano, ma io ho imparato a sorriderne; l'ho imparato da tanto e un po' mi dispiace per i loro occhi dalle cataratte imbiancate e per le loro vite ad alta quota. Mi dispiace perché non immaginano nemmeno come sia, una vita come la mia, lungo  la quale non è un delitto avere fantasia, sognare un po', andare via.


 

 
 
 
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