Creato da: labuonastregadelnord il 31/05/2011
Eccellenze del Nord (note e meno note)

 

 

CASTELLO DI BRESCIA

Post n°111 pubblicato il 05 Giugno 2014 da labuonastregadelnord


Periodo Romano

Il colle Cidneo, frequentato almeno dall’età del Bronzo Finale (IX sec. a. C.), ebbe una sua prima sistemazionein epoca gallica con la costruzione di un tempio dedicato al dio celtico Bergimus.
 
La generale riorganizzazione del colle e il suo inserimento nel perimetro murario cittadino è tradizionalmente attribuita all’età augustea - tiberiana (fine I sec. a. C.).
Recenti indagini archeologiche hanno individuato in un potente muro l’unica struttura residua della fortificazione sommitale che doveva comprendere anche il complesso templare edificato nella seconda metà del I secolo d. C., coevo quindi alla ricostruzione del Capitolium e del foro di età flavia.
Di questo tempio monumentale, le cui dimensioni corrispondevano quasi esattamente a quelle del Mastio visconteo si conservano i giganteschi muri di sostegno e la scalinata frontale poggiante su ampie cisterne. Ulteriori ritrovamenti di età tardo antica (V - VI sec.) testimoniano la probabile presenza di una guarnigione stabile.
La continuità delle funzioni cultuali dell’arce è infine testimoniata da un piccolo edificio ad aula unica nel quale è sicuramente identificabile il martyrium paleocristiano intitolato a Santo Stefano.
Nel basso medioevo, probabilmente tra XI e XII secolo, la connotazione sacrale dell’arce fu ulteriormente esaltata dalla costruzione di una grande chiesa. Il nuovo edificio, che si doveva percepire dal basso come una presenza monumentale e fortemente simbolica era costituito da un corpo allungato monoabsidato, fiancheggiato a settentrione da un massiccio campanile quadrato e preceduto a ovest da due potenti torri scalari cilindriche poste agli angoli della facciata.
Una di esse, nota oggi come Mirabella, è l’unica parte della chiesa sopravvissuta alle demolizioni operate nel XIV e nel XIX secolo.

 

Periodo Medioevale Visconteo

castello di brescia

Le notizie storiche sul castello dopo l’anno Mille si fanno più numerose anche se poco ci illuminano sulle caratteristiche delle fortificazioni del colle.
Un importante documento attesta come il vescovo Olderico nel 1038 concedesse ai cittadini bresciani diritti sul Cidneo impegnandosi a non farvi costruire alcun edificio.

Le lotte interne al Comune non coinvolsero in modo significativo la rocca bresciana che fu invece danneggiata durante l’assedio di Federico Barbarossa.

Fra il 1174 e il 1187 fu ampliata la cerchia muraria che, come quella romana, incluse al suo interno il colle Cidneo. Un ulteriore e consistente allargamento, che portò la città alla forma mantenuta fino all’Ottocento, fu realizzato fra il 1237 e il 1254. I documenti che descrivono questo “piano regolatore” attestano come sul colle Cidneo si trovassero consistenti resti di mura romane e tardo antiche oltre che numerossimi edifici religiosi. Nell’area si svolgevano inoltre mercati e fiere periodiche.

Con la stabilizzazione del dominio visconteo furono iniziati consistenti lavori di ristrutturazione delle difese cittadine. I signori milanesi realizzarono, a partire dal 1337, la Cittadella Nova, cinta fortificata interna alla città che dal castello si protendeva verso sud proteggendo Broletto e Duomo, centri del potere politico e religioso.
Nel 1343 Giovanni e Luchino Visconti iniziarono consistenti lavori di ristrutturazione delle fortificazioni sul colle.

La più importante vestigia conservatasi è il Mastio, residenza del capitano della guarnigione, decorata un tempo da affreschi policromi a fasce geometriche-floreali inframezzate dallo stemma visconteo.
Completamente scomparso il pra’ della bissa, sorta di enorme rivellino, che occupava l’odierno piazzale della “Locomotiva”.

Le tecniche di assedio e di difesa rimasero sostanzialmente invariate nei secoli sino all’avvento delle armi da fuoco. In altre parole si assediava e ci si difendeva in egual maniera dai tempi più antichi, prima dell’avvento dell’impero romano, fino all’alba del mondo moderno.

Davanti ad un ben munito sistema difensivo l’attaccante poteva scegliere diverse tattiche: bloccare gli assedianti ed attendere la loro resa, passare sopra le loro mura scavalcandole con un assalto diretto, passare attraverso varchi aperti con le proprie macchine da guerra, poteva, infine sottopassarle scavando gallerie, più propriamente mine.

Spesso l’assedio era condotto combinando i vari metodi. Il metodo più diretto, ma anche più sanguinoso, era quello di dare la scalata alle mura utilizzando scale e torri mobili ossidionali, occupare tratti di mura e da qui tentare l’apertura delle porte della fortezza per consentire l’ingresso dei soldati restati all’esterno.

I difensori potevano validamente opporsi alzando l’altezza delle mura e scaricando dall’alto qualsiasi oggetto pesante, creare ampi fossati spesso riempiti di acqua, disseminare il terreno esterno alle mura di buche celate da rami e zolle di terra per renderle invisibili e intrappolare, se non addirittura far ribaltare, le torri in legno degli assedianti, utilizzare infine proiettili incendiari per appiccare il fuoco alle macchine nemiche.

Per aprire varchi nelle mura gli assedianti utilizzavano arieti protetti da una tettoia corazzata (vinea) montata su ruote che veniva spinta fin contro le muraglie da demolire.
Il più efficace sistema di demolizione delle difese era però l’impiego della mina, lo scavo cioé di una galleria sin sotto le fortificazioni con la creazione di vaste cavità rinforzate da robusti pali che una volta incendiati provocavano il crollo delle strutture sovrastanti.
A questa tecnica ci si poteva opporre edificando torri e mura estremamente massicce oppure realizzando scavi di contromina per cercare di intercettare gli attaccanti e ingaggiare terrificanti corpo a corpo nell’oscuro delle viscere della terra.

Questi attacchi diretti erano supportati dall’impiego di macchine da lancio, mangani o baliste , cui si aggiunse in epoca medievale il trabocco, che scagliavano ogni tipo di proiettile, dai più tradizionali (pietre, dardi ecc.) ai più fantasiosi, (escrementi, carogne, prigionieri).

Primo Periodo Veneziano

Dopo la dedizione di Brescia alla Serenissima Repubblica avvenuta nel 1426, la nuova dominante iniziò importanti lavori di risistemazione delle fortificazioni cittadine, gravemente danneggiate nel corso della guerra con i milanesi.

Il successivo tentativo di riconquista della città da parte dei milanesi fu respinto nel 1438 sugli spalti del Roverotto, lungo quel fronte orientale delle mura che era particolarmente esposto ad attacchi in quanto ben visibile e controllabile dai Ronchi e dalle pendici della Maddalena.

Nel 1466 la Repubblica veneta decise la risistemazione dell’intera cerchia difensiva esterna: le mura furono abbassate, terrapienate e circondate da ampi fossati.

Verso fine del Quattrocento furono eseguite consistenti opere di rafforzamento del Castello, il cui impianto non fu però sostanzialmente modificato se non per quello che riguarda il rifacimento di alcune torri, in particolare la Coltrina e quella poi detta dei Francesi, entrambe probabilmente opera dell’architetto militare Jacopo Coltrino la cui presenza a Brescia è attesta intorno al 1499.
In qesta occasione le tradizionali torri a pianta quadrata furono sostituite da torrioni a pianta circolare.

A questi importanti lavori di ristrutturazione é sopravvissuta una torre del perimetro settentrionale posta a fianco di quella detta dei Francesi.

Anche il possente torrione detto dei Prigionieri, posto a protezione del ponte levatoio, è probabilmente da attribuirsi alla ristrutturazione quattrocentesca.
Questa modificò l’assetto della struttura di accesso al castello, prima protetta da una torre quadrata merlata posta davanti al Mastio visconteo e conservatasi sino al XIX secolo.

 

Occupazione Francese-Spagnola

Nel 1509 l’esercito veneziano fu travolto dalle truppe francesi nella battaglia di Agnadello; Luigi XII entrò in Brescia e la nostra città subì la disastrosa occupazione di eserciti stranieri, francese, spagnolo, imperiale.

In questo breve periodo furono intrappresi importanti lavori sulle fortificazioni del fronte orientale del castello: fu costruito un alto sperone in corrispondenza della torre significativamente poi chiamata dei Francesi e di un grande baluardo a forma di mezzaluna che avrebbe dovuto essere saldato al pra’ della bissa con un breve tratto murario.
I lavori, peraltro lasciati incompiuti, comportarono la distruzione dell’antico monastero di San Martino.

Fu proprio nel periodo di occupazione francese che la città subì le più disastrose conseguenze del conflitto che da anni opponeva Venezia agli altri stati italiani e ai loro alleati.
Insorta nel 1512 contro le truppe di occupazione e aperte le porte della città alle truppe venete, comandate dal futuro doge Andrea Gritti, Brescia fu travolta dalla pronta reazione delle truppe francesi al comando di Gaston de Foix. Questi, ricongiunte le proprie forze utilizzando la strada del soccorso sul lato settentrionale del castello, scatenò il 19 febbraio l’attacco alla città concluso da un sanguinoso saccheggio.

Una volta ripreso il possesso della città i veneziani ristrutturarono le zone della fortezza che si erano rivelate deboli, in particolare ricostruirono nel 1523 la porta del Soccorso affiancandole un poderoso torrione semicircolare a tre ordini di cannoniere interne cui convergeva la medioevale via del Soccorso.
Inoltre a nord - est del colle fu ultimato nel 1557 il taglio della sella che univa il Cidneo ai Ronchi e fu costruito il baluardo della Pusterla.

Introduzione delle armi da fuoco

L’avvento delle armi da fuoco rivoluzionò drasticamente i modi di condurre gli assedi innescando una rincorsa tra perfezionamento delle artiglierie e specializzazione delle difese che continua ancora ai nostri giorni.

Se la storia dell’invenzione della polvere da sparo resta ancora avvolta nel mistero, sappiamo che le artiglierie furono impiegate sin dai primi anni del Trecento anche se la loro potenza offensiva diverrà fondamentale solo nel corso del Cinquecento. I primi cannoni erano di piccolo calibro, sparavano sia proiettili che dardi ed erano impiegati in funzione antiuomo; in origine potevano essere ad avancarica ma anche a retrocarica, non possedevano affusto ed erano di conseguenza piazzati sul terreno o su rudimentali cavalletti mentre l’alzo era realizzato interrando la parte posteriore o sollevando la parte anteriore con travi di legno. 
Le dimensioni erano variatissime con calibri non uniformati; la bassa tecnologia non consentiva fusioni efficaci e quindi le canne erano ottenute lavorando piccoli pezzi di ferro; i calibri maggiori si ottenevano assemblando doghe di ferro saldate a caldo e rinforzate con anelli di ferro battuto.
Anche se l’efficacia distruttiva delle prime artiglierie era ridotta, si rese necessario modificare le strutture difensive che furono ispessite con l’introduzione di terrapieni interni mentre le parti alte e deboli furono radicalmente eliminate.

Il progressivo aumento della potenza di fuoco portò alla riprogettazione delle strutture fortificate secondo due indirizzi: il primo tendeva a ispessisire le murature così da assorbire l’impatto dei colpi; il secondo prevedeva l’introduzione di sagomature speciali delle fortificazioni per offrire la minor superficie verticale possibile. In questo periodo detto di transizione furono sperimentate innumerevoli forme intermedie tra la fortificazione medievale e il fronte bastionato introdotto in forme compiute nel 1534 da Antonio da Sangallo il Giovane nella Fortezza da Basso di Firenze.

Nel corso di tutto il Quattrocento furono costruite rocche con torrioni cilindrici di limitata altezza, ampie scarpe fortemente inclinate, casematte per l’uso protetto delle artiglierie, cammini di ronda alla stessa quota per facilitare il movimento dei pezzi.
La polvere da sparo fu inoltre impiegata con effetti devastanti nella mina e in un’arma nuova, il mortaio, cannone con canna estremamente corta che veniva puntata verso l’alto e che sparava proiettili dalla traiettoria molto curva capaci di scavalcare le difese nemiche.

Secondo Periodo Veneziano

Lo spostamento lungo l’Adda della linea di confine con il Milanese cambiò il quadro strategico complessivo della parte orientale del dominio veneto e costrinse la Serenissima innanzitutto a rinforzare le difese di Bergamo dove fu ricostruita l’intera cinta muraria.

Per quel che riguarda Brescia fu invece deciso di riammodernare soltanto le difese del colle Cidneo.
Nel 1588 fu iniziata la costruzione di una nuova cerchia esterna a quella viscontea, che avrebbe dovuto in origine collegare il Prato della Biscia con la mezzaluna e lo sperone costruiti dai francesi.
Questa prima proposta progettuale fu poi abbandonata a favore della realizzazione di un’ampia cinta muraria bastionata.

Basandosi sul principio della difesa fiancheggiante la nuova cerchia fu dotata di due mezzi baluardi, detti di San Pietro e di San Faustino, con al centro un baluardo intero intitolato a San Marco.
La progettazione dell’opera fu affidata a specialisti delle fortificazioni quali il Lorini e il Savorgnan. Le postazioni da fuoco si trovavano lungo le mura protette da robusti parapetti chiamati merloni, oppure erano collocate su piazze rialzate al di sopra dei baluardi denominate cavalieri.
Perché la fortezza risultasse in caso di pericolo completamente autonoma, la si dotò di edifici adibiti a deposito di vettovaglie, di capaci cisterne, di nuovi alloggiamenti per le truppe, di edifici religiosi, di forni, di numerose polveriere.

Mai più coinvolto in vicende belliche il nostro castello cominciò a decadere, anche per l’aumentata potenza delle artiglierie e subì un inarrestabile degrado, accelerato dallo scoppio di una polveriera nel 1747.

Periodo Napoleonico e Austriaco

La nostra fortezza alla fine del XVIII secolo era ormai in piena decadenza ed era descritta come molto difettosa, e senza consistente difesa. La disgregazione dei domini della Repubblica veneta fece sì che nel 1796 Napoleone conquistasse con facilità i territori bresciani e con questi anche il Castello.

Durante il periodo napoleonico furono condotti semplici lavori di adeguamento fortificatorio mentre numerosi fabbricati furono ridotti a reclusori come il Mastio e la Torre adiacente detta appunto dei Prigionieri.

La susseguente dominazione austriaca accentuò le caratteristiche repressive della fortezza migliorando gli accessi da nord, attraverso la Porta del Soccorso, e ampliando i dormitori per ufficiali e truppa. Questi lavori furono intrapresi dopo il temporaneo abbandono della città per le vicende legate alle insurrezioni del 1848.
Il Castello che si trovava in generale deperimento e su cui palesavano a chiare note gli insulti del tempo, fu prontamente riattato. L’efficacia della macchina bellica fu tristemente sperimentata dai bresciani nel 1849 quando da essa mossero gli attacchi degli austriaci contro i rivoltosi risorgimentali.

Occupato dalle truppe alleate franco - piemontesi nel 1859 il Castello conservò il ruolo di semplice carcere militare fina alla sua dismissione e riduzione a funzioni civili all’inizio del Novecento.

L’Amministrazione Comunale avviò l’acquisizione del colle e la sua sistemazione con la realizzazione di una strada che dall’attuale piazzale Cesare Battisti sale sino all’ingresso del Castello e da cui ridiscende sino all’attuale Piazza Arnaldo.
Contemporaneamente furono avviati i lavori di sistemazione a parco dei declivi del colle sino ad allora tenuti sgombri da qualsiasi tipo di vegetazione.

Evoluzione delle armi da fuoco

L’introduzione della polvere da sparo in grani di potenza quasi doppia rispetto a quella farinosa, la realizzazione di artiglierie fuse in bronzo quindi più leggere e resistenti di quelle in ferro, l’introduzione dell’affusto su ruote che consentiva una straordinaria rapidità nello spostamento dei pezzi, la realizzazione di proiettili esplosivi portarono ad una febbrile ricerca di mezzi in grado di contrastare la potenza distruttiva delle nuove armi.

L’Italia, crocevia di eserciti in lotta, diventò alla fine del Quattrocento il banco di prova in cui sperimentare le adeguate contromisure incentrate sulla geniale invenzione del baluardo.
Esso è sufficentemente ampio da contenere un maggior numero di pezzi ed è opportunamente sagomato per difendere con il tiro radente le facce dei bastioni contigui. I teorici italiani lavorarono a lungo sulla forma da dare a questi bastioni, in origine un semplice triangolo, perche fossero adeguatamente protetti e potessero, nello stesso tempo battere il nemico, con il micidiale fuoco d’infilata.

Per consentire la massima resistenza delle mura queste furono abbassate e inspessite; per proteggere le parti residue di muraglie fu creata davanti ad esse un terrapieno ammonticchiando la terra di scavo del fossato con la creazione di un piano inclinato che poteva essere battuto dalle artiglierie della fortezza.

Al di sopra delle mura infine fu creato un piano tondeggiante in terra adatto alla protezione delle postazioni di artiglieria e ad assorbire i colpi sparati dagli assedianti.
Il camminamento di ronda fu sostituito dalla strada coperta, teorizzata dal matematico bresciano Niccolò Tartaglia padre della balistica moderna, realizzata alla sommità del muro di controscarpa adatto alla sorveglianza ma capace negli assedi di ospitare manipoli di fucilieri. L’attacco del bastione alle mura fu poi arretrato rispetto al profilo esterno per collocare delle cannoniere protette dal cosiddetto orecchione.

Il miglioramento delle armi da fuoco portatili portò a variazioni nel numero dei bastioni che furono aumentati e ravvicinati mentre si moltiplicarono le postazioni esterne che dovevano allontanare il fuoco dalla fortificazione principale.

Nella seconda metà del Cinquecento le operazioni militari si spostarono dall’Italia ai Paesi Bassi ed è qui che si sperimentarono nuove tecniche di difesa: numerosi furono gli architetti militari italiani che qui si trasferirono mentre un’importante scuola “nordica” andava affermandosi sino alla esplosione del più grande genio fortificatorio secentesco Sébastien Le Prestre marchese di Vauban.
Per la nostra penisola iniziò un periodo di relativa tranquillità che congelò la forma delle nostre fortezze le quali solo raramente furono ancora impegnate in operazioni di guerra. 

Il Castello oggi

Conclusa la stagione militare del nostro castello questi fu utilizzato non sempre coerentemente con la tipologia di edifici presenti.

Dopo aver ospitato esposizioni temporanee, famosa fu quella del 1904 con la realizzazione di padiglione liberty, vi furono ricavati il giardino zoologico, i Musei di Scienze Naturali e del Risorgimento e un vasto parco urbano.
Purtroppo furono distrutti i dormitori militari veneziani, tamponati molti dei passaggi di servizio alle cannoniere e “mascherate” molte delle strutture militari celate da non sempre opportune piantumazioni.

Dopo una lunga stagione di abbandono sono in corso i lavori di recupero dell’area ex giardino zoologico e della sua sistemazione a parco. Programmati sono inoltre importanti lavori di consolidamento delle mura per consentire il recupero di percorsi e fosse negate alla cittadinanza ormai da molti anni.

In particolare saranno riaperte la Fossa viscontea e la Strada del Soccorso. Quasi completato il restauro del Mastio visconteo che dal 1988 ospita il Museo delle Armi Antiche “Luigi Marzoli”, uno dei più importanti d’Europa per la ricchezza delle sue collezioni.

Nelle sue sale sono esposti copricapi e frammenti di armature quattrocentesche, armi e armature cinquecentesche, armi da fuoco sei-settecentesche in gran parte opera di armaioli bresciani.
È stata poi data sistemazione alle ricchissime raccolte del Museo con la realizzazione di un ordinato deposito consultabile nel sottotetto dello stesso edificio. Sono stati avviati inoltre studi per il completo rinnovo del Museo del Risorgimento, collocato nel Grande Miglio.

Sono da completare inoltre il recupero come sale espositive del Piccolo Miglio e della chiesetta di Santo Stefano nuovo.

Nel 1953 entrava in funzione sul Bastione San Marco il telescopio che per mezzo secolo ha avvicinato i bresciani alle meraviglie del cosmo. Il rifrattore Ruggieri, con il suo obiettivo a lenti del diametro di 12 cm, ha fatto scoprire ai visitatori della Specola Cidnea i numerosi crateri lunari, i satelliti Medicei di Giove, gli anelli di Saturno e le calotte polari di Marte.

 

 

 

 
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EDOARDO MANGIAROTTI

Post n°110 pubblicato il 18 Giugno 2013 da labuonastregadelnord

Edoardo Mangiarotti è ancora oggi lo schermitore più medagliato di sempre. La Famiglia Mangiarotti

Tutto ebbe inizio nei primi anni del secolo scorso, quando Giuseppe Mangiarotti scoprì la nobile arte della Scherma. Ne fece la sua compagna e la sua ragione di vita; la studiò e la rinnovò, nobilitando soprattutto la spada, in molti ambienti negletta se non sconosciuta. 
Fu studioso e soprattutto Maestro. Il suo verbo s'irradiò dalla prima e storica Sala in via Chiossetto a Milano per toccare le sponde del Danubio nella Sala Santelli a Budapest e per giungere -tramite i Maestri da lui formati e i testi scritti direttamente in tre lingue- agli estremi confini del mondo, sino a contribuire all'affermazione della grandissima scuola sovietica di spada. 
Creò innumerevoli campioni che vinsero per decenni Olimpiadi e Campionati del Mondo senza pari. È noto ai più per avere fatto dei suoi tre figli tre campioni ineguagliati, tutti con caratteristiche e originalità differenti.

Dario, il primo dei suoi eredi, è stato anche il primo nel 1935 a succedergli nell'albo d'oro dei Campionati Italiani, da lui presidiato dal 1906 al 1908. Ma il primo della famiglia a vincere un oro olimpico fu Edoardo, che realizzò l'impresa da minorenne a Berlino nel 1936. Mario, il terzo, ottenne ottimi risultati schermistici nella nazionale italiana, unitamente a gratificanti studi in medicina che lo portarono ad essere stimatissimo specialista in cardiologia. 

Il nome Mangiarotti è salito sui gradini dei podi internazionali più di qualunque altro nella storia: Dario, Edoardo e Mario hanno vinto una quantità innumerevole di medaglie. Per i tre fratelli, solo tra Giochi Olimpici e Mondiali si contano ben 55 medaglie.

In questa dinastia non potevano mancare le donne. In primis Rosetta Pirola, consorte di Giuseppe, che fu pugnace spadista con una carriera che la vide affrontare anche fortissimi spadaccini dell'altro sesso e che culminò con la vittoria nel 1931, a Firenze, delle Olimpiadi della Grazia. Eugenia Gavazzeni, moglie di Mario, Campionessa Italiana assoluta di fioretto a squadre nel 1958. Camilla Castiglioni, moglie di Edoardo e anche lei frequentatrice delle pedane, che ha sempre sostenuto il Circolo della Spada, essendone tuttora la Presidente. Ed infine Carola, figlia di Edoardo e Camilla, olimpica a Montreal nel 1976 e a Mosca e nel 1980 e oggi dirigente del Circolo. 

Si ringrazia la Federazione Italiana Scherma per i testi contenuti in questa pagina, tratti da La Scherma
(numero monografico di Aprile 2009 intitolato "Mangiarotti: 90 anni di scherma")

 

Edoardo Mangiarotti, lo schermitore più medagliato di sempre.

Edoardo, nasce a Renate Veduggio nel 1919, nella Brianza Milanese, secondo di tre fratelli.
Inizia la scherma, con il fioretto in tenera età e ad otto anni partecipa ai Campionati Giovani Balilla già con brillanti risultati. La sua mano naturale è la destra, ma il padre, in onore del fuoriclasse schermitore mancino Lucien Gaudin, da lui ammirato e stimato, a nove anni lo imposta nuovamente con la sinistra (molti anni più tardi, nel 1951, questo cruccio del padre gli permise di vincere il Campionato del Mondo a Stoccolma, poiché infortunatosi durante un assalto alla mano sinistra, cambiò arma continuando la gara con la destra). Nel 1936 viene selezionato per le Olimpiadi di Berlino a soli 17 anni, preferito al fratello Dario maggiore di quattro e Campione Italiano in carica quell'anno, perché ritenuto più promettente. E la piccola matricola Edo, ancora minorenne, vince la medaglia d'oro nella spada a squadre ai Giochi del Furher. I giornali titolano: "Edoardo Mangiarotti, l'enfant prodige".

Chiamato alle armi come sottotenente al Settimo Fanteria di Milano, partecipa alla seconda Guerra Mondiale, abbandonando, anche se non del tutto, l'attività schermistica. È però nel dopoguerra che Edoardo Mangiarotti raggiunge i massimi traguardi conquistando ben dieci ori tra Olimpiadi e Mondiali. Dal '48 al '50 è vincitore anche di tre Challenge Monal di Parigi consecutive, impresa mai più riuscita a nessuno.
L'impegno di Mangiarotti non si ferma solo all'attività agonistica, conclusasi nel 1960 con l'oro a squadre delle Olimpiadi di Roma, perché è stato anche Commissario della Federazione Italiana Scherma dal 1959 al 1961, corrispondente della Gazzetta dello Sport, membro d'Onore della Federazione Internazionale, presidente per oltre 40 anni dei Veterani dello Sport e delle Medaglie d'Oro al Valore Atletico. Non da ultimo, ha diretto insieme alla figlia Carola, la sala di scherma di famiglia, fondata da suo padre Giuseppe nel lontano 1909.

In tutta la sua carriera ha partecipato a cinque edizioni dei Giochi Olimpici (Berlino 1936, Londra 1948, Helsinki 1952, Melbourne 1956, Roma 1960) vincendo 13 medaglie: 6 d'oro, 5 d'argento e 2 di bronzo. In 10 edizioni dei Campionati del Mondo ha invece collezionato 26 medaglie (13 ori, 8 argenti e 5 bronzi). Edoardo Mangiarotti è ancora oggi lo schermitore più medagliato di sempre. 

 

 
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IPPOLITO NIEVO

Post n°109 pubblicato il 04 Ottobre 2012 da labuonastregadelnord

Ippolito Nievo
In difesa della terra

Ippolito Nievo nasce a Padova da Antonio Nievo, nobile magistrato mantovano, e da Adele Marin, nobildonna veneziana figlia di un patrizio e della contessa friulana Ippolita di Colloredo; Ippolito Nievo sarà particolarmente legato al nonno Carlo Marin. Trascorre l'infanzia ad Udine, dove la sua famiglia si trasferisce nel 1837; durante i periodi di vacanza è nel vicino Castello di Colloredo di Montalbano, luogo che rimarrà a lungo nell'immaginario del futuro scrittore. I luoghi della sua infanzia e della sua famiglia faranno da sfondo in tutti i suoi romanzi e le sue novelle, ai personaggi che si muoveranno tra la Lombardia, il Veneto e il Friuli.

Dal 1844 è a Verona dove frequenta il ginnasio: qui avviene la sua scoperta dei grandi autori romantici, quali
George Byron, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, e dei grandi successi letterari, come Honoré De Balzac, George Sand e Jean-Jacques Rousseau.
Per seguire il padre nei suoi trasferimenti di lavoro, Ippolito trascorre i primi anni d'infanzia in varie città del Regno Lombardo Veneto.
Nel 1849 è prima a Crema e poi a Pisa; venuto a contatto con l'ideologia e il pensiero di
Giuseppe Mazzini, nel 1848 il giovane Ippolito partecipa infatti allo scoppio del moto insurrezionale di Mantova, che però fallisce. Nella primavera del 1849 soggiorna per breve tempo a Pisa dove conosce Andrea Cassa, con il quale partecipa ai moti livornesi ed entra in contatto con gli esponenti del partito democratico di Guerrazzi.
Deluso dalla sconfitta si reca a Cremona con l'amico Attilio Magri e in questa città, dove vivrà per alcuni mesi, conosce Matilde Ferrari, l'ispiratrice del romanzo "Antiafrodisiaco per l'amor platonico" composto nel 1851; Ippolito Nievo si innamora quindi di Matilde.

Prosegue gli studi a Cremona e a Revere, in un liceo privato, dove consegue la licenza liceale nel 1850.
Torna a Mantova nella casa paterna e si iscrive alla facoltà di Legge presso l'Università di Pavia; proseguirà poi gli studi a Padova dove si laurea nel 1855 quando già gli avvenimenti storici e politici di quel tempo lo avevano coinvolto in prima persona.

Appena laureatosi, Nievo decide di dedicarsi totalmente alla letteratura ed al giornalismo, andando contro la volontà del padre che lo voleva notaio.
Nel contempo erano già apparse le sue prime opere letterarie (il saggio "Studii sulla poesia popolare massimamente in Italia" è del 1854, così come la rappresentazione del suo dramma "Gli ultimi giorni di
Galileo Galilei"). Inizia a collaborare con giornali di provincia ("La Lucciola" di Mantova; "L'Annotatore friulano" di Udine), sui quali pubblica novelle ispirate alla vita di campagna, della quale inizia a difendere le usanze, le tradizioni ed i costumi nei confronti delle accuse borghesi di rozzezza e di ignoranza.

Del 1858 sono la pubblicazione della raccolta di poesie "Le
lucciole" ed il trasferimento a Milano. Nel 1859 si arruola a Torino tra i cacciatori a cavallo di Garibaldi, con i quali combatte a Varese e a San Fermo. In seguito Nievo è tra le fila di Nino Bixio a Padonello. Dopo la pace di Villafranca scrive l'opuscolo "Venezia e la libertà d'Italia" e si stabilì nella casa di Fossato, non più in terra austriaca. L'anno successivo entra a far parte della spedizione dei Mille, che sbarca a Marsala: in questa occasione Nievo si distingue a Calatafimi e a Palermo, tanto che gli viene affidata la nomina di "Intendente di prima classe" con incarichi amministrativi, di cui sarà anche attento cronista ("Diario della spedizione dal 5 al 28 maggio" e "Lettere garibaldine"). Riceve l'incarico di riportare da Palermo i documenti amministrativi della spedizione, ma il vapore "Ercole" sul quale viaggiava naufraga al largo della costa sorrentina in vista del golfo di Napoli: Ippolito Nievo trova la morte durante il viaggio di ritorno dalla Sicilia, presumibilmente nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1861.

 
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Alex Zanardi

Post n°108 pubblicato il 26 Agosto 2012 da labuonastregadelnord

Alex Zanardi

Con la voglia di vivere

A 100 chilometri da Berlino e a 60 da Dresda è stato costruito, adiacente la nuovissima pista del Lausitzring (tristemente famosa per il terribile incidente costato la vita al pilota italiano Michele Alboreto), un circuito della lunghezza di 2 miglia che permette con facilità alle autovetture di raggiungere picchi di oltre 370 km/h.
E' proprio all'interno di tale circuito che, in una corsa a pochi giri dal termine, nel pomeriggio di sabato 15 settembre 2001 ha avuto luogo il terribile incidente fra il nostro Alex Zanardi e il pilota italo canadese Tagliani.

Zanardi, a undici giri dal termine, era rientrato per un rabbocco precauzionale di benzina e con foga aveva ripreso la pista, ricevendo schizzi di carburante sulla visiera. Ma nell'atto di detergerla successe che perse sfortunatamente il controllo della vettura la quale, dopo un testa e coda, rientrò lentamente ma trasversalmente sulla pista proprio mentre sulla stessa linea soppraggiungeva la vettura di Tagliani. Conseguenza di questa tragica fatalità fu un urto perfettamente perpendicolare fra le due vetture, inevitabile e violentissimo, che tagliò letteralmente in due la Reynard Honda di Zanardi, proprio all'altezza delle anche del pilota bolognese.


Subito le condizioni apparvero disperate e per limitare l'emorragia si dovette intervenire con la soluzione più drastica e radicale: l'amputazione degli arti inferiori. Come per
Clay Regazzoni, come per Frank Williams. Se con quest'atto, dettato da "estrema ratio", si riuscì indubbiamente a salvare la vita del valoroso pilota, le condizioni di Zanardi rimasero gravissime per lungo tempo, complici altre numerose fratture e il perenne rischio di embolia.

Alessandro Zanardi nasce a Bologna il 23 ottobre 1966 con la passione per i motori nel sangue, ben supportata dell'esempio paterno. Anche il genitore era ottimo pilota dilettante e grande intenditore. Alex frequenta così le corse, inizia a gareggiare sui kart e segue con passione tutti gli avvenimenti legati a questo sport. La sua classe indiscussa pian piano emerge, ottenendo nel tempo ottimi risultati come i 3 Campionati Italiani ed il titolo Europeo di kart: i risultati lo fanno entrare di diritto in Formula 3 dove, come miglior risultato, ottiene un secondo posto nel Campionato Europeo.


Pur senza possedere grandi possibilità economiche (il padre è idraulico e la madre una valente artigiana camiciaia), Alex Zanardi riesce ad entrare in Formula 3000 nel 1990. Eddie Jordan, grande talent scout ed opportunista, lo segue e nel 1991 lo schiera nel suo Team in
Formula 1. Pur confermandosi grande combattente non ottiene però in questo periodo risultati di rilievo. Passa per tutte le cosiddette squadre di "riempimento" (Minardi, Lamborghini e Lotus), fino al 1994. In 25 Gran Premi disputati non riesce ad ottenere che un solo punto in Classifica. A Spa è protagonista di un terribile incidente che, pur senza conseguenze, lo costringe a lasciare il Team Lotus.


Nel 1995 nonostante i tanti contatti con squadre di Formula 1, nulla va a buon fine e viene avvicinato da procuratori che lo propongono a manager della Formula Kart americana. Chip Ganassi, leggenda della Serie americana lo vuole e, con un ingaggio che non si può rifiutare, lo convince a fare il passo. Si ambienta in fretta e già nel primo anno (1996) ottiene tre vittorie che lo pongono in primo piano per la vittoria dell'anno successivo: un successo che gli fa guadagnare il rispetto (con anche un pizzico di sana invidia) dei piloti americani.

Le previsioni vengono pienamente confermate e per gli anni 1997 e 1998 il pilota da battere è lui. Con autentiche imprese che fanno impazzire i tifosi Alex si impone nel Campionato in entrambi gli anni, ma il desiderio di rivalsa per una Formula 1 che non lo ha nè capito, nè giustamente valutato, lo chiama. La richiesta da parte del Team Williams per un contratto triennale non lo fa neanche riflettere, firma ed abbandona gli Stati Uniti, lasciando un grande vuoto fra gli appassionati.

La Williams, pur sempre squadra di vertice, nel 1999 realizza una vettura mal riuscita e in 16 Gran Premi, Zanardi colleziona ben 10 ritiri. All'interno del Team il suo carattere educato e gentile si scontra con l'animo burbero del Capo progettista Patrick Head che lo scarica letteralmente, incaricando il giovane
Ralf Schumacher dello sviluppo della vettura. Il clima diventa impossibile e così, a fine stagione, da gran signore, Alex accetta la transazione della risoluzione del contratto dei restanti due anni. Con una bella cifra di liquidazione si ritira a Montecarlo a godersi la dolce moglie Daniela ed il piccolo Niccolò, con frequenti puntate a Castelmaggiore a trovare le adorate mamma e nonna.


Dopo un 2000 di tutto riposo, Mo Nunn, altro grande manager della Cart convince Zanardi a tornare a correre nella Serie a bordo delle Reynard Honda del team e così Alex ritorna negli States. Toltosi la ruggine dell'inattività nelle prime corse, purtroppo quel fatale incidente, assolutamente casuale, ha interrotto quel ritorno.



Il pilota, dotato di un carattere di ferro, non senza fatica si è ripreso, si è adattato a quelle brutte (ma per lui salvifiche) protesi e il suo sorriso è tornato a splendere sulle piste, con grande gioia degli appassionati e di chi lo ha sempre amato.



Con l'aiuto di Gianluca Gasparini, giornalista della " Gazzetta dello Sport", Alex ha scritto "... Però, Zanardi da Castelmaggiore!" (2003), un libro che ripercorre la sua vita, la sua carriera e soprattutto il suo straordinario recupero.


Il ritorno di Alex Zanardi ha commosso l'intero mondo sportivo ancor più del dramma vissuto per l'incidente. Da sempre nobile e gentile nell'animo, Alex non solo ha dimostrato tenacia e determinazione, ma una grande umiltà, voglia di vivere e un immenso amore per il suo sport. Per tutte le sfortunate vittime di incidenti analoghi al suo, per i loro amici e famigliari, e per chiunque ami lo spirito sportivo, Alex Zanardi è un eroe, un esempio e un punto di riferimento.

Nel 2010 la sua carriera si arricchisce di una nuova esperienza, quella di conduttore televisivo: su Rai Tre conduce "E se domani", un’innovativa trasmissione di divulgazione scientifica in onda in prima serata.

http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=1083&biografia=Alex+Zanardi

ALEX ZANARDI TRIBUTE

in data 16/lug/2010

I NEVER SAID THAT HE DIED!!!!

Un tributo al mejor piloto que jamas haya visto, todo un ¡¡¡CAMPEON!!! que es un ejemplo de pundonor, perseverancia y coraje. Unico, irrepetible y original (por sus famosas "DONAS" de la victoria), un atleta que enfrento la adversidad despues de perder las piernas en aquel escalofriante accidente y que regreso a las pistas para hacer lo que más le apasiona como el profesional que es. Por eso y mucho más es y sera admirado por siempre.

 
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GRANA PADANO

Post n°107 pubblicato il 21 Agosto 2012 da labuonastregadelnord

GRANA PADANO

Grana è solo Padano


Il termine “GRANA” è nato originariamente per indicare un formaggio caratterizzato dalla struttura granulare della pasta prodotto nella Valle Padana fin dall’undicesimo secolo.

Il progressivo diffondersi di tale apprezzato formaggio causò l’affermarsi di alcune varietà di GRANA (Grana Lodigiano, Emiliano, Lombardo, Veneto ecc.), che furono tuttavia poi unificate nel termine “PADANO” quando - a seguito dell’istituzione delle denominazioni di origine dei formaggi, avvenuta con la legge n° 125 del 10 aprile 1954 - fu chiesto il riconoscimento della denominazione d’origine GRANA PADANO.

L’utilizzo del termine “GRANA” in modo generico e come denominazione a sé stante, che talvolta continuava a riscontrarsi nella pratica, era pertanto da considerarsi improprio e illegittimo, in quanto l’uso del termine “GRANA” disgiuntamente dall’aggettivo “PADANO” risultava vietato da quanto disposto dagli artt. 9 e 10 della citata legge n° 125 del 10 aprile 1954.
La tutela del termine “GRANA” era inoltre stata estesa, mediante accordi bilaterali, a Germania, Austria, Francia e Spagna.

In ogni caso, tale tutela è stata espressamente richiesta all’atto della presentazione in sede comunitaria della domanda per ottenere la Denominazione di Origine Protetta per il formaggio Grana Padano, cosa che trova conferma nel Regolamento (CE) n. 1107/96 della Commissione, che ha sancito il riconoscimento della DOP GRANA PADANO.
Conseguentemente, anche la denominazione “GRANA” gode a pieno titolo della tutela accordata dal primo comma dell’art. 13 del Regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio, ed in particolare dal punto b), secondo il quale le denominazioni registrate sono tutelate contro «qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili».

In sostanza, il termine “GRANA” costituisce parte integrante e caratterizzante della Denominazione di Origine Protetta “GRANA PADANO” e, pertanto, esso non può in nessun caso essere utilizzato disgiuntamente dall’aggettivazione “PADANO” e con riferimento a formaggio diverso da quello che può legittimamente fregiarsi della denominazione completa.

L’importante principio è stato autorevolmente ribadito anche in una recente sentenza del tribunale di primo grado della Corte di Giustizia UE (sentenza 12 settembre 2007 nella causa T-291/03).
L’illecito ed illegittimo utilizzo del termine “GRANA” in termini generici e disgiuntamente dall’aggettivo “PADANO” viene da tempo sanzionato e represso da parte delle competenti Autorità nazionali, mentre il Consorzio Grana Padano interviene per garantire la tutela anche fuori dei confini dell’UE, incaricando legali residenti nei Paesi dove si verificano le usurpazioni della denominazione affinché perseguano l’uso illegittimo del termine “GRANA”.

Formaggio a pasta dura, cotta ed a lenta maturazione, prodotto con coagulazione per azione del caglio, da latte crudo di vacca la cui alimentazione base è costituita di foraggi verdi o conservati, proveniente da due mungiture giornaliere, riposato e parzialmente decremato per affioramento naturale della panna. Si produce durante tutto l’anno.

CARTA D'IDENTITA'

Ingredienti: latte, sale, caglio, conservante: lisozima proteina dell'uovo.
Forma: cilindrica, scalzo leggermente convesso o quasi dritto, facce piane, leggermente orlate.
Dimensioni: diametro da 35 a 45 cm; altezza dello scalzo da 18 a 25 cm con variazioni, per entrambi, in più o meno, in rapporto alle condizioni tecniche di produzione.
Peso: da 24 a 40 kg per forma. Nessuna forma deve avere peso inferiore a kg 24.
Colore della crosta: scuro o giallo dorato naturale.
Colore della pasta: bianco o paglierino.
Aroma e sapore della pasta caratteristici: fragrante, delicato.
Struttura della pasta: finemente granulosa, frattura radiale a scaglia e occhiatura appena visibile.
Spessore della crosta: da 4 a 8 mm.
Maturazione: la maturazione naturale viene effettuata conservando il prodotto in ambiente naturale con temperatura da 15 a 22 °C.
Resistenza alla maturazione: da uno a due anni.
Uso: formaggio da tavola e da grattugia.
Grasso sulla sostanza secca: minimo 32%.
Il grattugiato: nella tipologia “grattugiato” è ottenuto esclusivamente da formaggio intero già certificato. L’umidità non è inferiore al 25% e non superiore al 35%. Aspetto non pulverulento ed omogeneo, particelle con diametro inferiore a 0,5 mm non superiori al 25%.
Zona di produzione: La zona di produzione e di grattugiatura del Grana Padano DOP è il territorio delle province di: Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Torino, Verbania, Vercelli, Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lecco, Lodi, Mantova a sinistra del Po’, Milano, Monza, Pavia, Sondrio, Varese, Trento, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona, Vicenza, Bologna a destra del Reno, Ferrara, Forlì Cesena, Piacenza, Ravenna, Rimini. Esclusivamente con riferimento alla produzione del latte, la zona di origine si estende anche all’intero territorio amministrativo dei comuni di: Anterivo, Lauregno, Proves, Senale-S. Felice e Trodena nella provincia autonoma di Bolzano.

LA STORIA

La nascita del Grana Padano è una storia affascinante, che risale all’anno mille e all’ingegno dei monaci benedettini. L’opera di bonifica compiuta dai monaci Cistercensi dell’abbazia di Chiaravalle favorì il diffondersi dell’allevamento del bestiame, che generò ben presto una ricca disponibilità di latte, di gran lunga superiore al fabbisogno della popolazione.
Fu così che i monaci misero a punto la “ricetta” del Grana Padano, geniale espediente per la conservazione dell’eccedenza di latte.

Nasce così un formaggio a pasta dura che stagionando, conserva i principi nutritivi del latte e acquista un sapore inconfondibile, dolce e saporito allo stesso tempo. Formaggio a cui viene spontaneamente attribuito il nome di “grana” per la pasta granulosa che lo caratterizza.

La fama del Grana Padano si consolida nel tempo e ben presto diviene formaggio pregiato protagonista dei banchetti rinascimentali di principi e duchi, ma anche principale alimento di sostentamento delle genti delle campagne durante le terribili carestie.
Un formaggio dalle due anime: ingrediente di spicco delle ricette dell’elaborata cucina nobiliare e caposaldo della tradizione gastronomica popolare.

Con il passare del tempo la pratica della trasformazione del latte in “Grana” si diffonde, tanto da diventare uno dei pilastri dell’economia agricola.
La tradizione produttiva del Grana Padano si è tramandata nei secoli secondo metodologie invariate che assicurano ancora oggi al prodotto le caratteristiche organolettiche e l’aspetto che lo hanno reso celebre in tutto il mondo.

LA FILIERA

LATTE CRUDO
massimo due mungiture
 
AFFIORAMENTO NATURALE DELLA CREMA
 
LATTE SCREMATO PER AFFIORAMENTO NATURALE
 
LATTE IN CALDAIA
 
AGGIUNTA DI SIERO INNESTO
ottenuto dalla incubazione del siero della caseificazione del giorno precedente
 
AGGIUNTA DEL CAGLIO
 
COAGULAZIONE
temperatura 31-33ºC
 
ROTTURA DELLA CAGLIATA
 
COTTURA
temperatura iniziale 31-33ºC, temperatura finale 53-56ºC
 
GIACENZA SOTTO SIERO
tempo 30-70 minuti
 
FORMATURA
tempo 2 giorni
 
SALATURA
in salamoia naturale
 
STAGIONATURA
temperatura 15-22ºC

LE STAGIONATURE

La segmentazione del Grana Padano consente di scegliere, leggendo le indicazioni sulla crosta o sulla confezione, il formaggio a denominazione d’origine protetta più consumato nel mondo in base alla diversa stagionatura














I MARCHI DI QUALITA'

Il formaggio a Denominazione di Origine Protetta GRANA PADANO è contraddistinto e caratterizzato da una serie di segni distintivi: marchi di origine e marchi di selezione.

Le due tipologie di marchi hanno natura e funzione diversa e si distinguono anche in base al metodo di applicazione dei medesimi sul formaggio ed ai soggetti che compiono detta operazione.












LE CARATTERISTICHE NUTRIZIONALI

Quello che rende il Grana Padano un alimento completo favorevole al benessere e alla salute di bambini, adolescenti, donne incinte, sportivi e persone anziane è il suo ottimo rapporto tra valore energetico, qualità e quantità di nutrienti contenuti.
Essendo un formaggio semigrasso, il suo valore energetico è inferiore a quello di molti alimenti comunemente consumati che apportano molti meno nutrienti.
Grana Padano è un ottimo alimento naturale,in grado di fornire una grande parte delle sostanze di cui l’uomo ha bisogno.



L'ESPERTO CONSIGLIA

Rispettare i rituali d’assaggio previsti per il Grana Padano consente di valorizzarne tutte le potenzialità e di scoprirne i pregi.


IL TAGLIO DELLA FORMA

Una peculiarità del Grana Padano è che le sue caratteristiche sensoriali variano a seconda della stagionatura. Di seguito riportiamo una sintetica illustrazione dei descrittori sensoriali in funzione dell’età del formaggio Grana Padano in degustazione.

GLI STRUMENTI DEL GUSTO



ANTIPASTI
Ingredienti e dosi per 4 persone
300 g di carne trita di vitello, 200 g di pane raffermo, 80 g di mortadella, un bicchiere di latte un uovo e un tuorlo, 5 fette di pancarré, 80 g di Grana Padano grattugiato, un cucchiaio di prezzemolo tritato, noce moscata, pepe, sale.

Procedimento
Passate il pancarré al setaccio oppure alla grattugia ottenendo una grana molto grossa.  Ammorbidite il pane raffermo nel latte; salate e pepate leggermente, insaporite con noce  moscata quindi lavorate con la forchetta in modo da ottenere un composto omogeneo. In una terrina mescolate la carne, la mortadella tritata finemente, il prezzemolo ed unite il pane ammorbidito, il Grana Padano, le uova appena sbattute e impastate con cura. Regolate di sale. Dividete l'impasto in palline grandi come una noce e passatele nel pancarré grattugiato, premendole con cura e fatele cuocere in olio caldo possibilmente in una friggitrice di ferro. Ritiratele e lasciatele scolare su carta assorbente.

COFANETTO 90 RICETTE

Grana Padano DOP ha un gusto intimo e particolare; merito della lavorazione naturale di solo latte italiano, frutto della stagionatura, dai nove mesi sino ad oltre due anni, un lento processo in ambienti controllati e gelosamente protetti, che dà ad ogni forma un sapore unico.
Queste qualità hanno reso Grana Padano DOP protagonista di ogni piacere del palato e per favorire le scelte del consumatore, Grana Padano si propone in tre diverse stagionature da cui si è preso spunto per realizzare il nuovo cofanetto di ricette dove ogni volume fornisce consigli culinari per utilizzare al meglio Grana Padano DOP dai 9 ai 16 mesi, Grana Padano oltre 16 mesi e Grana Padano RISERVA.
Scarica le ricette dei volumi che preferisci!

 
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