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Piccole storie ignobili

Post n°10 pubblicato il 07 Maggio 2010 da propilei0


Alle elementari facevamo una violentissima discriminazione contro una bambina. Era italiana ma aveva qualcosa per cui la sentivamo diversa. I bambini sono naturalmente crudeli e non è un modo di dire. Dicevamo che era infetta e avevamo paura di toccarla. Se solo ci sfiorava ci sentivamo sporchi e correvamo a lavarci, sentendo la parte che l'aveva toccata di colpo pesante, come se si potesse staccare. Così suo fratello più piccolo, uno scricciolo pallido e violentissimo. Lei altrettanto pallida, faceva di tutto per farsi accettare, per farsi notare, per sfogare la rabbia di essere considerata diversa.
Quelle cose normalmente disgustose che fanno i bambini, se le facevano loro due per qualche ragione si mostravano in tutto lo schifo. Che fosse appiccicare una cicca sotto la sedia, scaccolarsi, sudare a ginnastica. Una volta le avevo prestato una penna, una replay rossa, e lei aveva rosicchiato il cappuccio, sovra pensiero, a lezione. Non sono mai stata una bambina schifiltosa, ma quella penna l'ho buttata via, mi faceva stare male solo guardarla.
Una volta aveva portato un dolce a scuola. Titubanti, lo avevamo assaggiato, incredibilmente non eravamo morti e lo avevamo finito tutti. Cominciavo a fare piccoli esperimenti disastrosi in cucina per imitare mia madre, e mi era piaciuto così tanto che avevo buttato giù un confine e le avevo chiesto se poteva farsi dare la ricetta da sua madre. Lei, che si aggrappava a qualsiasi minima attenzione, me l'aveva procurata, me ne aveva portato un'altra teglia e poi mi aveva chiesto a bruciapelo: "Adesso pensi ancora che sia infetta?". Io mi ero vergognata molto, ma non avevo saputo risponderle né una bugia (no) né la verità (sì, comunque sì).
Ricordo di aver avuto pietà di lei una volta, quando si era impegnata a fare un quadretto in rame, col disegno cesellato e riempito di pongo per tenere la forma. Era un regalo per la festa della mamma. Le era venuto bene davvero, lei ne era fiera. A casa il suo fratellino, geloso, lo aveva buttato per terra e ci era saltato sopra, devastandolo. Le sue lacrime, lei che scuoteva la testa dicendo no alla maestra che voleva rifarlo. Il mio quadretto, mia madre lo ha tenuto appeso per anni, insieme a decine di altri trofei simili.
E' il primo pregiudizio irrazionale che ricordo di aver avuto in vita mia, e il più violento. Ancora ora non mi spiego una cattiveria tanto condivisa e prolungata negli anni. Lei, essendo infelice, era anche mortalmente pesante, aggressiva, appiccicosa, lagnosa: in definitiva antipatica. Bastava questo a farcela temere? A domande esplicita non sapevamo rispondere: ma di cosa avevamo pausa di venire infettati, sotto sotto, della sua infelicità?
Ho poi scoperto che lei e suo fratello erano stati adottati, presi in orfanotrofio già grandicelli. La minaccia che ci terrorizzava segretamente con la sua ombra lunga di abbandono, un luogo non meglio definito che ci faceva paura, come fossero stati in prigione, come fosse stata una loro colpa arrivare da lì. Con gli anni avevano cominciato a circolare storie su di loro che noi ragazzini ci passavamo. Si diceva che i genitori adottivi fossero rigidi, severissimi, che li tenessero chiusi in casa e li picchiassero con la cinghia, che la matrigna fosse una strega e il patrigno un carceriere. Che a passare davanti a casa loro la sera li si sentisse piangere e urlare e che quindi a scuola erano come animali in libertà. Ma queste storie irrazionali, nate dalla cattiveria e dalla credulità, arrivarono dopo, per rinforzare quella prima sensazione di distanza che nasceva da qualcosa di ambiguo e doloroso che non riuscivamo a spiegarci ma che istintivamente scansavamo.
Gli insegnanti e i nostri genitori le avevano provate tutte per farci capire quanto fossimo imbecilli. Per tutte le elementari e le medie. Ricordo un'assemblea di scuola alle medie, col preside che ci fulminava coi suoi occhi azzurri e ci rombava addosso tutta la sua rabbia, scuotendole il braccio e urlandoci perché, cosa significava quell'accusa contro di lei. Noi muti, sapevamo che avevano ragione gli adulti ma era più forte di noi. Avevano fatto vacillare le nostre coscienze ogni tanto, ma non erano riusciti a togliere questa idea a cinquanta bambini in branco. Dagli all'untore. Cosa le abbiamo fatto vivere.

Ieri pomeriggio camminavo con Alice, stavo andando alla libreria vicino casa a fare scorta di libri (e fiabe che a dormire le ci vuole sempre un sacco). Una voce mi ha chiamato: era lei, seduta sul marciapiede, beveva birra insieme a tre tamarri. Come per vantarsi mi disse che alla fine era stata bocciata più volte e che non aveva mai terminato il liceo. Era rimasta incinta, appena diciannovenne, di un uomo molto più grande che non ci sarebbe stato, diventando ragazza madre col futuro rovinato prima ancora di iniziare a guardarlo. Non avevo potuto fare a meno di sentirmi addosso una percentuale di colpa.
 Poi ridendo, mi aveva buttato lì: "Ti ricordi quando tu e gli altri dicevate che ero infetta?" E io avevo ridacchiato, a disagio, l'ho salutata veloce e sono andata via. Sono cose che non si dimenticano, quelle di cui ti vergogni.
In compenso c'era anche un altro bambino adottivo, era di colore ma non ce ne accorgevamo nemmeno. Il massimo che ricordo: due amichette che mi avevano detto che in realtà faceva il bagno nel cioccolato e se gli avessi leccato un braccio avrei scoperto che sotto la sua pelle era bianca. Ma era il primo di aprile, non ero mica così credulona. Però gli avevo passato una mano sopra il braccio tanto per andare sul sicuro, e lui aveva dato della deficiente a me e alle mie compagne, a ragione.

 
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L'ottimismo della volontą eccetera

Post n°9 pubblicato il 25 Marzo 2010 da propilei0

La cosa buffa è che ho un sacco di tempo che la gente normalmente riterrebbe libero. A guardare bene, ho libere tipo 24 ore su 24. A guardare meglio, le riempio di cose. Per la maggior parte belle, necessarie, piacevoli. Le cose che ho sempre voluto e non ho potuto fare. Poi mi rendo conto che il tempo lo perdo anche. L'ho sempre perso, perché sono una disorganizzata e una che viaggia con la testa in compartimenti stagni: quando mi ci rinchiudo smetto di esistere. E i miei pensieri divorano i giorni senza che me ne accorga. E amici che mi dicono "Ma dove sei finita?" e io scopro che sono le 11 di sera quando mi sembrava fossero le 7, che siamo a giovedì quando credevo fossimo a martedì, che è il 25 del mese quando pensavo fosse il 15.
Così. Il tempo mi è immateriale. Lo vedo quando ancora mi trovo a pranzare o cenare da sola. Capace di non accorgermi che ho fame, capace di pranzare alle 4 di pomeriggio e cenare alle 2 di notte, o di saltare direttamente, perché non gli dò importanza, perché lo stimolo della fame non è mai fame. Come diceva mio nonno che aveva passato le due guerre, "Voi non sapete cos'è la fame". Quando avevo delle scadenze sociali, impegni di lavoro, riunioni e appuntamenti, ero in perenne rincorsa dietro il tempo condiviso. Lo soffrivo, ma lo vedevo, cercavo di afferrarlo. Da quando non ce le ho più, faccio fatica, arranco. Perdo la presa sulla realtà. Non è piacevole. E' inconcludente. Io mi sento inconcludente. Anche se faccio un sacco di cose,facciocosevedogente, ho perfino cominciato, mioddio, capoeira: uno sport da culo così (che mi faccio e che dovrebbe venire o meglio e scusate l'immodestia tornare) ma l'ideale per rifarsi gli occhi, c'è una quantità imbarazzante di fighi astronomici. E intanto passo molto tempo con mia figlia, ed è così bello. Che sola con lei ci sto bene: il problema è stare con lei quando c'è altra gente. UH!

Insomma, nella testarda ricerca di sicurezza lavoro per rappacificare tra loro corpo e mente. Per ora si sono incontrati, si sono salutati imbarazzati e stanno cercando argomenti di conversazione mentre cercando di capire le ragioni per cui si sono allontanati tanto negli anni, se riescono anche a coinvolgere l'autostima, quella là che se ne sta sempre per i fatti suoi e non si capisce se è per sua scelta o se sono loro che l'hanno sempre schifata

Poi ci sono le cadute, e quelle sono quotidiane come sempre, e come sempre rovinose. C'è una certa dose di disfattismo e rivendicazione, disillusione e pessimismo, piagnistei e autocommiserazione, scazzo congenito ed eteroindotto. Odio un po', e non è mai una cosa bella. Mica per gli oggetti del mio risentimento, chissenefrega di loro: ma per me. Questa dose è veleno e lo so. E avvelena me, mica gli altri.
Per questo parlo così poco: la sequela di lamentazioni che mi passa per la testa quando mi viene voglia di srivere mi ha francamente rotto i coglioni, ma anche se non riesco del tutto ad evitarmela, almeno evito di annoiare voi.

Comunque ora si prova con una nuova tattica. Quella di Will in "About a Boy". Dividere la giornata in segmenti di 30 minuti. Vediamo se recupero il tempo, la testa, il ritmo, una disciplina. Che anche essere felici è frutto di uno sforzo. E io sono notoriamente pigra.

Perché, come dice il mio libro vaginocentrico preferito (pieno di cliché, ma che comunque mi è servito quando mi serviva):
"People universally tend to think that happiness is a stroke of luck, something that will descend upon you like fine weather if you're fortunate enough. But that's not how happiness works. Happiness is the consequence of personal effort. You fight for it, strive for it, insist upon it, and sometimes travel the around the world looking for it....Once you have achieved a state of happiness, you must never become lax about maintaining it, you must make a mighty effort to keep swimming upward into that happiness forever, to stay afloat on top of it."
(All'incirca: "La gente universalmente tende a pensare che la felicità sia un colpo di fortuna, qualcosa che ti accade come il bel tempo, se sei abbastanza fortunato. Ma non è così che funziona. La felicità è la conseguenza di uno sforzo personale. Combatti, ti sforzi, insisti per ottenerla, e qualche volta viaggi per il mondo cercandola... una volta che hai raggiunto uno stato di gioia, per mantenerlo non devi mai diventare lassista, devi fare l'enorme sforzo di continuare a nuotare verso di essa, di stare a galla sopra di lei.")
[Elisabeth Gilbert, Eat Pray, Love]

 
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MALDIVE

Post n°8 pubblicato il 23 Marzo 2010 da propilei0

Fino ad oggi è stata magia, magia pura. Che mi ha stordito e tolto il fiato.
Questo tempo insieme è un susseguirsi di istantanee.

 
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Ad una donna incinta e' permesso dire tutto?

Post n°7 pubblicato il 27 Marzo 2009 da propilei0

Ecco, io da quando ho scoperto di aspettare una bimba sono felice.

Pur con tutte le difficoltà e dubbi e le ansie sul presente, sento di aver

fatto la cosa giusta.

Me lo dice il mio istinto e me lo dice il mio fisico, che ha magicamente

smesso di perseguitarmi con tutte le reazioni psicosomatiche

che mi trascinavo dietro.

Certo, mancano delle cose - mancano sempre - Arriveranno, se devono. Perchè la vita ti riserva sempre delle sorprese.

Per dire. I sandali originali Louis Vuitton che si vedono su tutte le riviste. Duemilatrecentoeuro circa il valore.

Sono scomodi.

 

 
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SI CHIAMERA' ALICE

Post n°6 pubblicato il 07 Marzo 2009 da propilei0

Ho scoperto che è una bimba.

si è mossa.

L'ho sentita muoversi.

OOOOOOh! Mi sentite? c'è qualcunooooo????

l'ho sentita muoversi.

Cazzo, si è mossa.

A dirla tutta, secondo me, vuole inclinarmi qualche costola.

( Sarei un tantinello emozionata!!!!)

Gulp!!!

 
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