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Ariete_1971 16 ore fa

Dimorphoteca

 

 

 

Dimorphotheca

 

Alcuni anni or sono, ebbi modo di udire una persona che, osservando un esemplare di queste splendide piante, esclamò: “Le manca soltanto la parola!”. In realtà, come ho constatato in moltissime occasioni, nel corso degli anni, anche le specie vegetali comunicano, ma non tramite i suoni codificati del linguaggio: esse “parlano” per immagini, cioè attraverso la visione che gli esseri umani hanno di loro. Trasmettono sensazioni, sentimenti, emozioni, avvalendosi esclusivamente del proprio aspetto; il contenuto del messaggio non è determinato dall’uso di un concetto definito in modo convenzionale e tradotto in onde sonore dagli organi di fonazione, e spetta all’interlocutore, o meglio: allo spettatore, attraverso la propria sensibilità, coglierne il significato. E tuttavia non esiste il rischio di una interpretazione libera, specifica per ognuno: chi, osservando questa bellezza, non è portato alla contemplazione, all’ammirazione, al desiderio di approfondire la propria conoscenza, ad un moto di felicità? Non c’è bisogno di fare nulla, basta lasciarsi dolcemente coinvolgere...

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Mi descrivo

Carattere dolce, ma che non genera iperglicemia. Mi si può frequentare anche a dosi elevate senza effetti collaterali di sorta. Personalità tipica del mio segno, temperata dalla maturità e dalle esperienze della vita, che ne hanno levigato gli spigoli più acuminati. Combattente nato sul lavoro e pacifista nelle relazioni umane, mantengo intatta la mia capacità di autodifesa.

Su di me

Situazione sentimentale

single

Lingue conosciute

Inglese, Francese

I miei pregi

Cuore tenero e trasparente, volontà buona, animo sincero e non-violento, ancora capace di stupirsi

I miei difetti

A volte umorale e volubile altre volte ombroso e insofferente. Come quando piove e c'è anche il sole

Amo & Odio

Tre cose che amo

  1. I legami affettivi profondi e vissuti
  2. Le emozioni che lasciano il segno nell'anima
  3. Dalida, mon coeur, mon amour le plus cher...

Tre cose che odio

  1. Detesto, non odio, la volontà cattiva
  2. chi ferisce i sentimenti altrui, la violenza
  3. la superbia, ogni ingiustizia

I miei interessi

Vacanze Ok!

  • Crociera
  • Spiagge incontaminate
  • Terme

Vacanze Ko!

  • Avventura
  • Settimana bianca
  • Passioni

    • Tecnologia
    • Musica
    • Suonare

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    • Classici
    • Documentario
    • Fantascienza
    • Storico

    Libro preferito

    Il nome della rosa, Se questo è un uomo, Tu passerai per il camino e tanti altri

    Meta dei sogni

    Il mare

    Film preferito

    2001 Odissea nello spazio, The black hole, Fantasia,

    … la forza della vita…

     

     

     

    Questa piccola composizione floreale, pur essendo formata da piantine molto comuni e diffuse, ha però una particolarità che la rende degna di nota: ognuna di esse è stata scartata e gettata via, poiché la si riteneva inutile e non in condizione di giungere a fioritura. Io le ho raccolte dalla strada, presso un cassonetto della nettezza urbana, luogo a cui il proprietario le aveva destinate, forse ignorando che avrebbero potuto riprendersi o forse non ritenendo che fosse il caso dedicare loro tempo, risorse ed energie. Invece è stato sufficiente trattarle con amore e cura, ed il loro ciclo vitale si è compiuto perfettamente, e così oggi rallegrano il mio giardino con la loro presenza ed i loro colori smaglianti. Ognuno tragga le conclusioni che preferisce; a me basta guardarle...

    Because (Lennon-McCartney)

     

    Contenuta nel celebre album “Abbey Road” pubblicato nel 1969, questa “Because” è una delle canzoni più controverse e discusse da parte della critica, dell’epoca e contemporanea, e dai fans dei Beatles. C’è chi la considera un capolavoro e chi invece non ci vede altro che un banale plagio, nella fattispecie del primo movimento della famosa sonata per pianoforte n.14 in Do diesis minore di Ludwig van Beethoven, meglio nota come “Al chiaro di luna”; chi la ritiene la vetta più alta della produzione dei quattro ragazzi di Liverpool e chi pensa che non abbia nulla del loro stile, e che in fondo sia stata soltanto una furba operazione commerciale per rivitalizzare il corso ormai decadente della carriera del più seguito complesso di musica leggera di tutti i tempi, almeno fino ad ora. Inutile provare a stabilire chi abbia ragione: è una polemica basata esclusivamente su opinioni personali, quindi si tratta solo di scegliere quale tesi è più gradita al proprio gusto. A mio avviso, la canzone è di per sé buona: pur essendo frutto di un processo compositivo quanto meno “anomalo”, risulta ben strutturata e gradevole all’ascolto, anche se non nella versione originale, che come tutta o quasi la musica di quel periodo è gravemente penalizzata dalla timbrica orribile degli strumenti e dalla semplicità delle attrezzature tecniche del tempo, ancora in una fase embrionale di sviluppo e non in grado di apportare quell’elemento in più, la bellezza del suono, che invece diventerà imprescindibile in ogni produzione nei decenni successivi. Basti pensare che oggi la maggior parte della musica leggera è suono più che musica vera e propria; il recente Festival di Sanremo ne è l’esempio più eclatante: si potrebbe metaforicamente pensare al famoso “bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto”; ebbene, il bicchiere è completamente vuoto ma molto, molto bello a vedersi. Nella produzione dei Beatles, intendo quella vera, cioè a partire dal 1965 in poi, il bicchiere è sempre stato pieno, ma il contenuto è evaporato rapidamente nel giro dei cinque anni successivi, fino ad arrivare all’ultimo album ufficiale, “Let it be”, ormai prosciugato di ogni creatività, originalità e capacità di evoluzione artistica. Potrei affermare, con molti critici musicali noti e autorevoli, che dopo “Sgt. Pepper” del 1967, qualcosa si è inceppato nel meccanismo della macchina Beatles; già il successivo “Magical Mistery Tour” è declinante, pur contenendo pezzi di assoluto valore, anche storico, come “Strawberry fields forever”, apoteosi artistica di Lennon. I motivi di questa crisi strisciante furono vari e tutti operanti nello stesso momento e portarono alla consapevolezza di dover reagire in qualche modo, prima che la frana diventasse una valanga e travolgesse non solo il gruppo e le relazioni personali dei suoi membri, ma anche l’intera compagine produttiva, che nel frattempo era cresciuta notevolmente, fra tecnici, musicisti di sala, giornalisti al seguito, etc.. La risposta, o meglio una delle risposte, fu la ricerca di nuove idee, e “Because” è proprio la risultante di un’operazione mai osata prima, almeno non ai livelli di un gruppo come quello dei Beatles: il connubio fra musica classica e musica leggera. In realtà, un tentativo era già stato fatto con “Eleanor Rigby”, nel 1966, ma limitatamente all’arrangiamento d’archi; qui, per contro, si tratta proprio dell’impianto armonico di un brano di musica classica, famosissimo e piuttosto facile da eseguire. Volendo malignare, si potrebbe dire che Lennon, essendo completamente ignorante di qualsiasi nozione musicale eccetto la conoscenza delle posizioni degli accordi, quelli più facili, sulla chitarra, mai avrebbe potuto concepire un’articolazione armonica e melodica come quella risultante dalla sua canzone, che infatti appartiene a Beethoven, genio tra i più alti e celebrati dell’arte musicale. Tuttavia, occorre precisare che l’intuizione alla base dell’agire di Lennon è comunque da considerarsi anch’essa vera arte; infatti, è possibile creare, o concepire, cose ignote partendo da cose note anche senza l’ausilio di una preparazione scolastica, e lo stile “naif” non esclude a priori la possibilità di veicolare contenuti importanti e apprezzabili. In definitiva, l’aspetto più rilevante di “Because” è il suo equilibrio precario fra il taglio volutamente classico delle armonie e la forma moderna della canzone di musica leggera; per me, avrebbe dovuto essere stata scritta due anni prima e inserita in “Sgt.Pepper” al posto di “Within you without you”, universalmente considerata una macchia indelebile nel tessuto di un capolavoro. Allora tutto sarebbe stato al suo posto: “Sgt.Pepper” completo e perfetto, come mai nessun disco di musica leggera pubblicato fino ad allora, e “Abbey Road” non ulteriormente danneggiato da un brano scadente come quasi tutti gli altri della sua scaletta. Opinioni… niente altro che opinioni. Tra le molte versioni di “Because” presenti su YouTube e in altri siti, ho scelto questa perché è quella che, per me, coglie in maniera più autentica il pensiero di Lennon, e che, in qualche modo, lo completa a distanza di tanti anni; il suono è meraviglioso, particolarmente quello del piano Steinway, e l’arrangiamento corale altrettanto pieno, definito e corposo. Una nota relativa al testo, molto breve: piuttosto insignificante e privo di spessore, come molti dei testi dei Beatles, eccezion fatta per i loro cavalli di battaglia, in italiano rende ancora meno che nell’originale inglese, ma l’ultimo verso, “because the sky is blue, it makes me cry” da solo rende giustizia a tutta la canzone e non solo. Lo spirito che guarda il cielo, azzurro o blu o anche, più forzatamente, triste o malinconico, e che quindi si commuove è una apertura all’infinito, come appunto è il cielo, e non può lasciare indifferenti o passare inosservato. E’ una pennellata, ultima e tardiva, che risolleva le sorti del brano e lo rende, pur con tutte le sue contraddizioni e ambiguità, una vera, curiosa, bizzarra opera d’arte; c’è, qui, la comunicazione, il filo invisibile con cui l’artista lega a sé l’ascoltatore e su di esso fa passare il suo sentimento, il suo contenuto da trasmettere. Così, in extremis, si chiude una composizione in cui ognuno può vedere e sentire ciò che più gli aggrada, ma in cui non può non percepire le lacrime di Lennon come diverse dalle proprie nello spettacolo della contemplazione celeste. Alla fine, “Because” centra il bersaglio, nel bene o nel male, ed è per questo motivo che vale la pena, ancora oggi, di ascoltarla, magari alzando gli occhi al cielo...

    ... mastodonte sonoro.

    … non mi è possibile separarmi dalla passacaglia in do minore senza tentare di condividerne la mia interpretazione personale, che nel corso degli anni, di studio e di pratica appassionata, ho elaborato gradatamente lungo un percorso fatto di molti errori, ripensamenti, rifacimenti, dubbi ed infine giunto ad una maturazione definitiva, che è quella che considero ormai l’unica per me vera e soddisfacente. Allo stato attuale della mia esperienza di musicista non vedo ulteriori possibilità di evoluzione nella ricerca del significato autentico di questa composizione, anche perché ho la convinzione di aver intuito l’origine dell’ispirazione che mosse Bach a scriverla; affermazione, questa, che potrebbe sembrare pretenziosa, ma che in realtà non lo è affatto, considerando che un interprete non si limita a dar vita ad uno spartito: egli, al contrario, lo sceglie e lo interiorizza in virtù di una sua propria intuizione, speculare e gemella di quella dell’autore. Si instaura un dialogo tra i due soggetti, ed è questa collaborazione che rivela la natura più intima dell’opera d’arte, intesa come comunicazione fra il primo ed il secondo, che successivamente si amplia, nel caso della musica, al pubblico degli ascoltatori, cosicché ognuno ne sia partecipe e nessuno ne resti escluso. Ovviamente il livello di utenza non è lo stesso per tutti; chi ascolta la passacaglia per la prima volta difficilmente potrà coglierne tutta la complessità strutturale, mentre chi la conosce già da molto tempo sarà più incline a considerarne le soluzioni tecniche adottate da Bach in punti specifici; in ogni caso, però, resta comune a tutti, penso, il desiderio di non abbandonarla e, anzi, di farne oggetto di studio e contemplazione, essendo una inesauribile fonte di bellezza e arricchimento spirituale. Ora, la mia ricerca è iniziata col porre a me stesso un quesito ben preciso: per quale motivo un autore come Bach abbia scelto di scrivere un brano per organo utilizzando la forma musicale della passacaglia, che in passato era una danza, cioè musica da ballo, dall’andamento solenne e grave; certamente alla base della passacaglia c’è un concetto chiaramente definito, vale a dire l’esposizione di un tema che può essere utilizzato sia come linea di basso sia come linea di canto, cioè come melodia. L’elaborazione di un tema in mille varianti è caratteristica saliente dell’opera di Bach, autore eccelso nel trattare la fuga, la più complessa ed articolata delle forme musicali di tutti i tempi, e quindi non c’è nulla di strano nel fatto che la struttura concettuale della passacaglia abbia costituito motivo di interesse per il suo genio artistico; ma oltre all’aspetto strettamente tecnico e compositivo, a mio avviso, è possibile ipotizzare un’altra ragione per la quale l’autore ha operato la sua scelta, e questa è la possibilità di esprimere un sentimento, di dar sfogo ad uno stato d’animo. Il tema fondamentale, esposto all’inizio del brano ed affidato ai registri di pedaliera, è composto da una frase di quindici note; questa ritorna poi nel corso di tutta la composizione sia al canto sia nelle voci mediane, ripresa più volte o come esposta in origine o con varianti. Essa serve a marcare un incedere lento e grave, solenne ed austero, ma soprattutto permette all’autore di imporre all’esecutore un ritmo molto stringente, il quale lo vincola non solo nei suoi movimenti fisici, ma anche e primariamente nel suo pensare e nel suo respirare. Questa è, per il mio sentire, la chiave di volta e di lettura di tutta la composizione: bisogna adeguare i movimenti ed il respiro, nel caso dell’esecutore, o il respiro ed il pensiero, nel caso dell’ascoltatore, secondo i tempi stabiliti dall’autore; ecco il primo degli elementi messi a disposizione per ricostruire il senso del pezzo. Bach fa chiaramente capire di voler comunicare qualcosa e ci dispone nella condizione migliore per accogliere il suo contenuto artistico, in pratica ci mette sull’attenti come soldati in attesa di ordini davanti ad un ufficiale, facendo leva sulla più vitale delle funzioni di un essere umano: il respiro. Respirando secondo il tempo dato dalla successione delle note del tema, in breve ci si rende conto di quanto sia facile ritrovarsi in preda all’affanno; non potendo respirare secondo le necessità di ossigeno del momento, l’organismo reagisce con un segnale di allarme, che allerta la coscienza. E in questo varco si insinua la passacaglia con il suo portato artistico: dopo aver condotto alla consapevolezza di sé, Bach prepara l’uditorio a recepire il suo messaggio, il quale è tecnicamente affidato allo svolgersi parallelo delle varie voci melodiche, intrecciate e continuamente sciolte nel lento fluire del discorso musicale. Ogni linea melodica, ogni voce, rappresenta un’entità ben precisa: un pensiero, che può essere, a tratti, o piano e lineare o contorto e frastagliato, e nel complesso ne risulta un groviglio estremamente interessante ma anche molto difficile da comprendere. Quindi emerge un’immagine ormai ben definita, ovvero quella della descrizione, in musica, di uno stato d’animo di profonda angoscia, in cui una massa di pensieri che attraversano la mente, accavallandosi e prevaricandosi a vicenda o anche sviluppandosi convergenti fino ad unirsi per poi nuovamente separarsi, genera un crescendo di contrasti interiori allo spirito umano, implacabilmente scandito dal procedere pesante del respiro affannato e chiuso, costretto nel limite rigido sancito dalla impossibilità di espandersi a pieno. L’intera passacaglia è, dall’inizio alla fine, il racconto di un’esperienza umana vissuta intensamente e drammaticamente, qual è quella di un’anima che, senza potervisi opporre, precipita in un vortice di disperazione caotica e irrazionale fino al punto più basso, e poi, dopo un momento di sosta silenziosa, ne riemerge quasi di colpo, sollevata dalla forza della grazia divina che al tempo stesso la salva e la redime. L’alone religioso che avvolge tutta la produzione artistica di Bach non deve essere ignorato: è noto che il grande maestro di Eisenach apponeva ai suoi manoscritti autografi il motto “Soli Deo Gloria”, riconoscendo, in tal modo, l’origine divina del dono di cui era stato scelto come depositario, il suo grande talento, ma anche intendendo manifestare chiaramente la sua intenzione di adoperarlo per l’elevazione spirituale dei fedeli, cioè di metterlo a disposizione della causa evangelica, e non della sua gloria personale. Un grande atto di umiltà, senza dubbio, il riconoscersi strumento del genio affidatogli piuttosto che suo unico e capriccioso proprietario, difficilmente riscontrabile in altri protagonisti della storia della musica, più propensi ad esaltare sé stessi e la propria fama. Ma anche volendo prescindere dalla connotazione religiosa originaria, il sopravvenire della liberazione dall’angoscia è ugualmente visibile nel finale, articolato e maestoso, con cui termina la composizione: dopo la pausa, che crea l’aspettativa della risoluzione ultima, c’è la ripresa potente e piena del discorso musicale, pensata come grande ripieno sonoro che impiega tutte le risorse disponibili dello strumento, fino alla sua conclusione in tonalità maggiore, con ben sei voci parallele in un unico grande accordo di cadenza. E’ una metafora dell’esistenza umana: il suo nascere già segnato dalla sofferenza e dal dolore, il suo svolgimento travagliato e combattuto, l’approssimarsi alla morte, inesorabilmente certa, e la scelta consapevole e personalissima tra la salvezza e la dannazione eterna. Ovviamente Bach risolve il dilemma nel senso della salvezza, anzi la celebra e ne riconosce l’origine nella misericordia divina; tuttavia la pausa prima della ripresa è eloquente: se non vi fosse possibilità, anche remota di dannazione, non ci sarebbe stata necessità di fermare lo svolgimento del discorso musicale. Invece la pausa è stata prevista, e non a caso: un esito diverso è possibile, e di ciò bisogna tenere conto. Per questo mi è stata suggerita dalla mia fantasia l’immagine del mastodonte, creatura dalla fisionomia gigantesca e pesantissima, lenta nel muoversi ma definitiva nei suoi gesti irrevocabili, i quali hanno bisogno per esplicarsi di un impulso di azionamento cui segue un moto d’inerzia: e la passacaglia si svolge proprio secondo questo schema, acquistando vigore ed potenza man mano che si procede verso la conclusione. Il crescendo grandioso termina nel vuoto sonoro della pausa, ultima occasione di riprendere fiato prima della manifestazione completa della sua forza: in questo finale, dove tutte le voci convergono lentamente fino a disporsi su binari paralleli, ho scorto una visione primordiale: il pedale di basso evoca un movimento sismico, un terremoto che scuote il suolo, mentre le canne dell’organo paiono tanti piccoli crateri vulcanici, dai quali viene espulso il magma incandescente della materia sonora, componendo il quadro di una nuova creazione, di una rinascita o risurrezione in altra forma. E’ chiaro che un animo eccitato può dare libero sfogo a tutte le sue elucubrazioni ed in effetti un contenuto artistico permette ogni sorta di libera interpretazione, anche molto distante dal pensiero dell’autore, del tutto legittima e personale, accettabile sul piano della critica come contributo all’approfondimento della conoscenza, purché priva della pretesa di imporsi come l’unica universalmente valida. Molte volte ho confrontato le mie opinioni e sensazioni con quelle di altri appassionati di musica, per lo più dilettanti ma anche professionisti affermati, e spesso ho notato che più il livello di conoscenza è elevato più i giudizi sono concordanti e simili fra loro; in conclusione, la passacaglia in do minore è stata per me, e lo sarà sempre, un’opportunità per trasfigurare la mia angoscia nella forma perfetta creata da Bach, viverla fino in fondo ed esserne poi sgravato e riportato alla serenità necessaria a condurre l’esistenza in modo almeno sopportabile. Questa è la sua utilità concreta e pratica per la vita di tutti i giorni; diventa quindi impossibile rinunciarvi, una volta che la si è conosciuta, così come accade per ogni vera opera d’arte; esse aiutano a reggere il peso che ognuno bene o male deve portare e ci consolano nei momenti più tristi e difficili, e tanto più sono ricche di contenuto tanto meglio adempiono alla loro funzione. Ecco perché non è possibile equiparare le opere che hanno fatto la storia della musica, ed in parte anche quella della cultura umana nella sua totalità, con quelle destinate ad un uso commerciale, che esistevano ovviamente anche nel passato e che ci sono state tramandate in grande quantità. Non è tutto oro quello che luccica, oggi come ieri, e non tutti gli artisti, ovvero i praticanti un’arte, sono dei maestri, anzi; è raro trovare chi resiste alla prova del tempo e della critica. Il problema di fondo è quello di educare il gusto, di avere il desiderio dell’arte e prima ancora della conoscenza; “ignoti nulla cupido”, si diceva un tempo. In conclusione, la passacaglia è una medicina spirituale, un rimedio per affrontare e vincere i momenti più bui e difficili, inevitabili per ogni essere umano; ed è sempre efficace, non si corre con essa il rischio della assuefazione. Vale dunque la pena di imparare a conoscerla, anche se ciò costa, inizialmente, una discreta fatica, e di tenerla poi sempre a disposizione, per ogni evenienza ...

    Johann Sebastian Bach - Trio Sonata n.1 in Mi bemolle maggiore BWV 525

     

    Johann Sebastian Bach - Trio Sonata n.1 in Mi bemolle maggiore BWV 525

     

    Johann Sebastian Bach - Trio Sonata n.1 in Mi bemolle maggiore BWV 525

    Avere scoperto e poi studiato questa composizione è stato per me, artisticamente parlando, un evento che ha lasciato un segno indelebile nel mio percorso di vita, paragonabile all'importanza che hanno, nella storia personale di ognuno, il giorno del matrimonio o quello della nascita di un figlio. In effetti, da quando comprai le partiture delle Trio Sonate, ormai molti anni fa, il mio modo di pensare la musica e la sua interpretazione non è più stato quello per me consueto; in precedenza concepivo la composizione e l'esecuzione di un brano musicale come un'attività derivante dall'esercizio, affinato dagli anni di studio, di una tecnica, ovvero di un sapere specifico applicato ad una materia. E in questa direzione ho sempre mosso i miei passi, apprezzando soprattutto l'aspetto della perizia e della preparazione scolastica negli autori e nelle loro opere, sia che essi fossero grandi maestri sia che essi fossero artisti meno universalmente noti, ma non per questo indegni di considerazione. Soltanto con l'incontro con le Trio Sonate, e particolarmente con la prima, è stato possibile, per me, progredire in maniera significativa nella comprensione del senso e del significato vero di un'opera d'arte, a prescindere dal fatto che si tratti di musica, poesia, pittura o altra forma espressiva; mi resi subito conto, leggendo le partiture delle Sonate in questione, e senza l'ausilio dello strumento, che la creazione di un contenuto artistico non dipende soltanto dalla conoscenza che l'artista ha acquisito e rielaborato, ma sopratutto da una intuizione dello spirito, la quale può anche essere totalmente slegata da ogni riferimento tecnico specifico o da uno schema mentale consolidato. In talune opere d'arte ciò è più evidente ed in altre lo è meno; in talune, ancora, la forza dell'ispirazione si manifesta in modo più vigoroso, e in ogni caso vi è sempre un'idea di fondo, la cui origine è difficile da trovare, ma che deriva, in ultima analisi, dalla necessità dell'artista di comunicare. Questo concetto di base ha una manifestazione esemplare in questa prima Trio Sonata, e specialmente nel secondo movimento. Senza addentrarsi troppo negli aspetti tecnici, è immediatamente percepibile il carattere vivace e gioioso che Bach ha inteso imprimere alla sua composizione; il primo dei tre movimenti è senza dubbio scritto magistralmente ed ha un carattere, a mio avviso, già mozartiano; il portamento della linea melodica, particolarmente in alcune battute, è quello del pianismo di Mozart, lo si riconosce chiaramente. Ovviamente, essendo Mozart nato sei anni dopo la morte di Bach, il rapporto dovrebbe essere inverso: è la tecnica di Bach a essere presente in quella di Mozart; tuttavia, il tratto saliente del genio di Mozart fu quello di riassumere in una sintesi ed in una forma perfette tutta la tradizione musicale a lui antecedente, definendole, in virtù del suo equilibrio insuperabile, appunto "classiche" e dando poi vita ad una nuova era della storia della musica, quella del Romanticismo. Ecco perché il rapporto è rovesciato, e si può considerare la composizione di Bach come a tratti mozartiana; al di là di questa osservazione, rimane evidentissimo, nel primo movimento, l'uso già moderno di alcune soluzioni armoniche, la cui eco è riscontrabile anche in composizioni contemporanee, perfino al di fuori dell'ambito della musica classica. Dello stesso tenore è il terzo movimento, brillante, veloce, destinato a riservare l'effetto sonoro più spettacolare e sorprendente per il pubblico, in linea con il modello tipico della forma sonata; per ritornare a quanto già affermato, basti pensare ai concerti per pianoforte e orchestra di Mozart: anche in essi, il terzo movimento è nella stessa tonalità del primo, ma più breve e sbilanciato nel senso del virtuosismo, per la soddisfazione sia dell'interprete sia dell'uditorio. Tuttavia, è il tema del secondo movimento quello di maggior rilievo. Raramente mi è capitato, in più di quarant'anni di pratica musicale, di imbattermi in un’idea melodica di tale bellezza; la forza dell'ispirazione di Bach raggiunge qui, secondo me, uno dei punti più alti di tutta la sua produzione, per purezza, originalità, limpidezza. Confesso che ancora oggi non mi è affatto facile eseguire questo pezzo, sebbene non richieda particolari sforzi tecnico-esecutivi se rapportato ad altri, anche più celebri, dello stesso autore; l'impatto emozionale è veramente potente fin dalla prima battuta, che ha in sé uno spunto creativo capace di meravigliarmi ogni volta, ossia il salto d'ottava discendente che segna una cesura momentanea fra la prima e la seconda parte dell'esposizione del tema. Lo svolgimento della composizione prosegue poi in maniera estremamente piana e discorsiva, arricchito dall'intreccio della seconda voce, elemento sempre ben presente nella musica di Bach, e dal sostegno della linea di basso affidata alla pedaliera. E' bene però lasciarsi alle spalle gli aspetti strettamente compositivi e cercare di comprendere l'origine di un pensiero creativo così straordinariamente insolito: l'aspetto che principalmente mi lascia sgomento è la sua capacità formidabile di penetrazione nello spirito dell'ascoltatore o dell'esecutore. A me pare che si instauri una specie di dialogo mistico tra l'autore e il fruitore della sua opera, immediatamente diretto e non vagliato da alcuna razionalità; si viene letteralmente rapiti dall'incanto di un' atmosfera indefinita e indefinibile, ineffabilmente sublime, in cui non è più possibile avere alcun riferimento concreto al mondo reale. E' molto difficile rappresentare con parole un sentimento di tal fatta, poiché le facoltà intellettive sono come sospese, attenuate e limitate a quel tanto che basta per avere consapevolezza di un evento su cui non si ha nessun controllo e che nondimeno è percepito in tutta la sua pienezza nel suo svolgersi. L'unica ipotesi che mi sento di fare, sebbene non dimostrabile con argomenti logici, è che Bach stesse vivendo, in qualche modo, un'estasi mistica o un momento di astrazione mentale così vivido da permettergli di estraniarsi dalla propria persona e accedere, in modo misterioso, ad una dimensione puramente spirituale. E' realistico pensare ad un colloquio fra l'anima del compositore e un'entità non meglio definibile, la quale comunicando la sua presenza abbia espresso per mezzo di suoni il suo messaggio, che poi è stato fissato nella forma artistica più astratta, ossia il linguaggio musicale. La musica permette una modalità di comunicazione libera da concetti definiti o definibili, poiché parla senza mediazione ai sentimenti dello spirito, determinando in essi delle alterazioni del loro stato originario: ovvero non trasferisce concetti, ma ne predispone all'accoglimento e all'interpretazione personale. Nel tema del secondo movimento, e nel suo svolgimento tecnico, questa esperienza è quanto mai palese: si tratta della audio-descrizione di un dialogo fra uno spirito ed un altro spirito, ed il tono discorsivo è meravigliosamente reso da Bach nella scrittura dello spartito; è sufficiente osservare come sono disposte le note sui pentagrammi per rendersi conto che il fraseggio, anzi il periodare, è quello proprio del linguaggio parlato. Le frasi e i periodi, però, sono vuoti di per sé: è la combinazione dei suoni che assegna loro un significato metafisico, non afferrabile in termini concettuali. Se volessimo per assurdo, utilizzando categorie moderne, stilare una hit-parade dei temi musicali più belli di tutta la storia della musica da quando l’uomo è comparso sulla Terra e considerando tutti i compositori di tutti i tempi e di tutti i luoghi, il tema del secondo movimento di questa Trio Sonata si classificherebbe senza dubbio alcuno fra i primi tre; è la sedimentazione sonora di una vox caelestis di natura ignota, che non rivela nulla di sé direttamente, ma che permette ugualmente di intuirne l’origine immateriale. Bach ci ha elevati ad un livello spirituale almeno pari al suo, in grado di trascendere le facoltà intellettuali umane, pur necessarie se non altro alla trascrizione su carta di una tale esperienza; questa mia opinione è stata condivisa anche da persone molto più qualificate di me, le quali sono giunte alle mie medesime conclusioni percorrendo il mio stesso tragitto, anche se in tempi diversi. Non è facile, davvero, esporre il proprio sentire in relazione a capolavori come questa Trio Sonata: l’impresa di descrivere i moti dell’animo è resa ancora più aspra dalla consapevolezza di essere facilmente fraintesi o anche considerati poco credibili. Tuttavia, la realtà è quella che ho descritto, e non ne esiste una diversa; sebbene non dimostrabili nei fatti e secondo logiche razionali, le affermazioni che ho fatto, suffragate, come accennato, anche dalle esperienze vissute e raccontatemi personalmente in via del tutto confidenziale da professionisti qualificatissimi, operanti nel settore del concertismo d’élite, anche internazionale, sono vere. E, del resto, a che pro dire menzogne? Buon ascolto, non c’è altro da dire...

    Wachet auf, ruft uns die Stimme, BWV 645

     

    Questa cantata di Bach mi è particolarmente cara, e non solo per la sua bellezza; ricordo che la prima volta che ebbi modo di udirla eseguita dal vivo fu nella chiesa monastica della comunità ecumenica di Bose, dove ogni tanto mi recavo in cerca di qualche momento di sollievo dalla soffocante quotidianità della mia vita. Dopo la celebrazione liturgica, particolarmente interessante e oltremodo diversa da quelle ordinarie, uno dei monaci si recò all’organo e iniziò a suonarla per i pochi confratelli che si erano trattenuti all’interno dell’edificio, evidentemente in cerca di qualche spunto di meditazione spirituale o forse anche soltanto per il gusto di lasciarsi accarezzare dall’intreccio melodico e avvolgente concepito da Bach. Notai che il maestro organista scelse una registrazione piuttosto inusuale, con una timbrica e una strutturazione del suono che sul momento mi lasciò perplesso; è però probabile che la sua fosse una scelta obbligata dalla limitata capacità espressiva del suo strumento, che non ebbi modo di osservare da vicino e dunque, non potendo avere sufficienti elementi di giudizio, non ritenni di avvicinarmi a lui, al termine dell’esecuzione, per chiedere spiegazioni in merito. Piuttosto cercai di capire se egli suonando intendesse anche dare un’interpretazione “teologica” dello spartito; sì, mi parve di comprendere che essendo la “Wachet auf” stata scritta in riferimento alla parabola evangelica delle vergini sagge e delle vergini stolte, propria del vangelo di Matteo, cap.25, vv 1-13, la scelta timbrica proposta avesse come fine quello di segnare in maniera netta, come nel testo, la differenza tra l’atteggiamento delle une e quello delle altre. Un contrasto non solo molto evidente, ma anche risolto in modo assai severo dal protagonista della parabola, lo sposo, il quale, senza indugio alcuno né misericordia, condanna le vergini stolte e le esclude dalla sua presenza. Devo dire che apprezzai la scelta del maestro, ma solo relativamente alla sua intenzione; a mio parere, infatti, occorre sempre tenere ben presente l’estetica dell’arte e del pensiero originale del suo autore; è lecito interpretare, anche perché sarebbe impossibile per un esecutore non colorare di sé, sebbene in piccola parte, l’opera che fa rivivere; ma è discutibile stravolgere il concetto di fondo con scelte lontanissime dall’idea di partenza. Anni dopo chiesi al mio insegnante di studiare insieme a lui questo pezzo, ma dovetti aspettare per veder realizzato il mio desiderio; egli, infatti, non riteneva che fosse il caso far deviare il mio percorso didattico dalla traccia che aveva predisposto per me, e l’unica cosa che ottenni fu la promessa di prepararlo con lui qualora egli si fosse deciso a proporre tale brano in un suo concerto. Comunque, alla fine, l’occasione arrivò e anche io ebbi la mia soddisfazione; personalmente non lo considero fra le opere più tecnicamente difficili di Bach, piuttosto una di quelle che danno molte possibilità di scelta, ed è proprio per sottolineare questa sua caratteristica che la propongo qui nella magistrale interpretazione di Ton Koopman. Il grande artista, organista e direttore d’orchestra olandese non ha certo bisogno di presentazioni: è semplicemente una istituzione vivente, apprezzato e stimato in tutto il mondo per la sua cultura ed il suo approccio originale, specie alla musica barocca. Tuttavia, anche la sua arte è spesso al centro di critiche: dal punto di vista strettamente esecutivo ed organistico, io trovo il suo approccio un po’ troppo energico. Essendo un carattere sanguigno, tende alla velocità, e in molti colgono in questo atteggiamento una nota di contraddizione con la natura stessa dell’organo, strumento grave e possente, poco agile ed impacciato nel fraseggio stretto e spezzato; per natura, l’organo è lo strumento del “legato”, delle note lunghe e tenute, delle armonie complesse che si snodano senza soluzione di continuità. D’altro canto, la sensibilità dell’artista si rivela nella bellissima scelta dei registri, originale e veramente, a mio modesto avviso, ispirata dalla conoscenza profonda e sicura della musica di Bach. Vale dunque senz’altro la pena di ascoltare l’interpretazione di Koopman e di farla propria come parte integrante e qualificante del bagaglio culturale che ogni organista, meglio: ogni musicista, dovrebbe sempre portare con sé nei giorni, brevi o lunghi, della sua esperienza di vita artistica. Vorrei ancora rilevare un aspetto non secondario di questa “Wachet auf”, che mi ha dato da pensare già da lungo tempo: il suo carattere ottimista, allegro, gioioso, pregno di un’atmosfera di vita intensa ed umana. Sorprende come Bach associ il senso profondamente drammatico della parabola di Matteo, orientato alla spiegazione delle verità ultime sul destino finale che attende ogni anima creata da Dio, con un impianto melodico e tematico così spensieratamente agile e diretto al cuore dell’ascoltatore. Ci si aspetterebbe, e a ragione, un clima ben più cupo, pesante, quasi tetro; in realtà, dal punto di vista teologico, la spiegazione è semplice: è la gioia della salvezza delle vergini sagge ad essere esaltata, a scapito della severità inappellabile della condanna alla dannazione delle vergini stolte. La musica di Bach canta soltanto le prime, e ignora totalmente, in modo peraltro assolutamente corretto ed ineccepibilmente logico sotto l’aspetto della dottrina, le seconde: non c’è posto per loro, né nella casa dello sposo né nella partitura della “Wachet auf”. Non è un pensiero nuovo, anzi: già nell’Inferno della sua Commedia, Dante a più riprese ribadisce il concetto che per i dannati non ci deve essere pietà, essendo essi stati giudicati tali da Dio, e quindi provare pena o compassione per loro equivarrebbe, sostanzialmente, a contestare, in modo più o meno aperto, la volontà suprema del Creatore; sarebbe, in ultima analisi, un non sottostare a quanto imperiosamente stabilito da Dio stesso, un atto di ribellione vero e proprio, almeno sotto il profilo spirituale. Volendo essere puntigliosi e polemici, si potrebbe ricordare che lo stesso Dante, però, per motivi, per così dire “personali”, prova “pietà” per Paolo e Francesca, in quanto a lui umanamente molto simili; la giustizia divina, tuttavia, non gradisce questo atteggiamento, e priva il sommo poeta dalla sua facoltà razionale, facendolo svenire e ponendolo difronte, una volta riavutosi, ad altri dannati, i golosi: una punizione rotonda ed evidente, che Dante accetta di buon grado. Tutto si ricompone in un quadro unitario, dunque; il filo teologico trasparente e sottile che lega i due grandi artisti, Dante e Bach, resiste sia alla prova del tempo, più di tre secoli, che intercorre tra loro sia alla differente espressione artistica, la poesia per l’uno e la musica per l’altro. Si potrebbe ipotizzare, volendo, una sorta di matrice comune nel pensare degli uomini di grande genialità, che prescinde da ogni contingenza accidentale, considerando che Dante era italiano e Bach tedesco, il primo un poeta medioevale rigidamente cattolico ed il secondo un musicista barocco rigidamente protestante. Ecco, quindi, il portato universale e metafisico di un’opera d’arte autentica: essere fonte inesauribile di riflessione, contemplazione e ricchezza per ogni uomo che voglia averne il desiderio.

    Le coucher du soleil romantique

    Que le Soleil est beau quand tout frais il se lève,
    Comme une explosion nous lançant son bonjour !
    - Bienheureux celui-là qui peut avec amour
    Saluer son coucher plus glorieux qu'un rêve !

    Je me souviens !… J'ai vu tout, fleur, source, sillon,
    Se pâmer sous son œil comme un cœur qui palpite…
    - Courons vers l'horizon, il est tard, courons vite,
    Pour attraper au moins un oblique rayon !

    Mais je poursuis en vain le Dieu qui se retire ;
    L'irrésistible Nuit établit son empire,
    Noire, humide, funeste et pleine de frissons ;

    Une odeur de tombeau dans les ténèbres nage,
    Et mon pied peureux froisse, au bord du marécage,
    Des crapauds imprévus et froids limaçons.

     

    Com'è bello il Sole quando fresco fresco sorge,
    Come un'esplosione lanciandoci il suo buongiorno!
    - Beato è colui che può con amore
    Salutare il suo tramonto più glorioso di un sogno!

    Mi ricordo!… Ho visto tutto, fiore, sorgente, campo,
    Andare in estasi sotto il suo sguardo come un cuore che palpita…
    - Corriamo verso l'orizzonte, è tardi, corriamo in fretta,
    Per afferrare almeno un obliquo raggio!

    Ma inseguo in vano il Dio che si ritira;
    L'irresistibile Notte stabilisce il suo impero,
    Nera, umida, funesta e piena di brividi;

    Un odore di tomba naviga nelle tenebre,
    E il mio pauroso piede schiaccia, ai margini della palude,
    Dei rospi imprevisti e della fredde lumache.

     

    (Charles Baudelaire, da "Les Fleurs du Mal", 1857)

     

    Femminilità

    Femminilità

     

    Aveva un ramo di mirto e gioiva

    e un fiore bello di rosa

    la chioma

    copriva d’ombra gli omeri, le spalle.

     

    (Archiloco, 680-645 a.C.)

     

     

     

    Questo frammento del grande poeta lirico greco Archiloco è nel mio cuore da più di trent’anni, quando lo lessi per la prima volta in lingua originale sui banchi del liceo. Mi colpì immediatamente, e da allora non mi ha più abbandonato, rimanendo impresso nella mia mente con una forza tale che ancora oggi, nonostante il tempo trascorso e i molti altri pensieri ai quali la vita di tutti i giorni mi pone difronte, riesce ad emozionarmi. In effetti, si potrebbe dire che tutte le opere d’arte in qualche modo parlano allo spirito umano, ma alcune fra esse hanno la capacità di penetrare nell’anima e nella mente in maniera del tutto peculiare, poiché si legano ai recettori specifici predisposti appositamente per accoglierle, i quali una volta stimolati creano un legame affettivo con esse, difficile da sciogliere e resistente nel tempo. Se di vera arte si tratta, a mio avviso, ciò è un fatto inevitabile; e del resto, a ben vedere, è anche il fine ultimo per il quale l’artista porta a compimento il suo percorso creativo, a volte naturalissimo e spontaneo, altre volte quanto mai complesso ed elaborato, talora finanche doloroso. Leggendolo in greco, con una certa difficoltà dovuta alla natura stessa dei componimenti poetici, i quali deformano il linguaggio piegandolo alle proprie finalità espressive, mi parve chiaramente di vedere davanti a me la fanciulla evocata dall’autore, come una sorta di apparizione, un materializzarsi improvviso di un’immagine vividamente presente e definita nei suoi contorni fisici, e, come ho già affermato, tuttora la rivedo nella mia fantasia e nel mio pensiero; vicina a me, sorridente, bianca e minuta nelle membra, nella sua struggente e semplice felicità dovuta al fatto di avere un ramo di mirto e una rosa. Una ragazza molto giovane, con i capelli neri, verosimilmente dai tipici lineamenti greci, quindi non bellissima secondo i canoni moderni ed occidentali, ma promanante l’essenza stessa della gioia, infantile ed ingenua ad un tempo; ora, occorre anche considerare l’impatto che questa visione ebbe su di me, giovanissimo studente di liceo, molto facilmente suggestionabile e per natura “sensibile” al fascino femminile. Potrei quasi parlare di una vera e propria infatuazione letteraria, una specie di “cotta” puramente ideale, ed infatti con gli anni il mio modo di vivere questa relazione fantastica è profondamente cambiato; non provo più l’ebbrezza dell’innamoramento come allora, ma non posso fare a meno di commuovermi difronte a ciò che ho imparato ad apprezzare maggiormente nella vita: io oggi credo fermamente che un uomo non possa provare una gioia più grande e più bella di vedere il sorriso della bambina sul volto della donna che ama. Umanamente parlando, questa è per me l’espressione massima della felicità che l’amore può donare; è ovvio che ci sono mille altre sfumature, emozioni, situazioni etc., ma è talmente raro avere un dono come questo, fatto dall’insieme di una moltitudine di elementi diversi fra loro ed uniti in modo inscindibile ed indistinguibile, che chi ne ha fatto esperienza non può tenerlo per sé solo, ed ha quasi il dovere morale di farne partecipe il mondo, poiché si sappia che esso esiste e soprattutto che se ne sviluppi il desiderio. Dopo anni di riflessione, ho maturato un’opinione in proposito, che a ragione, soltanto mia beninteso, ritengo fondata: Archiloco scrisse questi brevissimi versi ispirato dalla felicità di cui ho detto, ed il suo genio poetico, il suo estro, che nella lingua originale si è espresso con forza di gran lunga maggiore di quella resa dalla traduzione italiana, la ha poi fissata in una forma eterna, destinata a oltrepassare la soglia del tempo. Ma c’è anche un altro aspetto che merita di essere rilevato: il frammento ha un titolo: Femminilità. Non casuale, questo è certo. Ora non posso qui entrare nel merito della definizione del termine femminilità, perché sarebbe inopportuno; basti soltanto dire che per Archiloco la ragazza evocata nei suoi versi era ed è ancora oggi la personificazione stessa del concetto, astratto e sfuggente, di femminilità; viene quindi definito un canone estetico-letterario destinato a diventare classico, cioè un riferimento ideale valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi, almeno relativamente al mondo occidentale di derivazione culturale ed umanistica greca, quale è, in ultima analisi, il nostro. Nel corso dei secoli, tale canone subirà delle modificazioni, ed ogni tradizione lo elaborerà secondo il proprio sentire, ma l’impianto di fondo rimarrà sempre ben riconoscibile; ad esempio, nella “donna angelicata” della scuola stilnovista di Guido Guinizzelli e dello stesso Dante Alighieri, dove al canone concettuale già noto si aggiunge una figurazione religiosa di derivazione teologica. A me piace pensare, mosso dalla mia emotività personale, che la femminilità sia quella colta dallo spirito di Archiloco e da esso tanto soavemente tradotta in poesia; è una opinione tra le tante, che non pretende di affermarsi, ma soltanto di aver voce, e se potessi, vorrei accanto a me anche nella realtà quotidiana la ragazza felice e sorridente con il suo ramo di mirto ed il suo fiore di rosa, che tante, infinite volte nei miei sogni di ragazzo e di uomo mi ha donato la più grande felicità che si possa provare.

    Non je n'ai rien oublié

    Je n'aurais jamais cru qu'on se rencontrerait. Le hasard est curieux, il provoque les choses et le destin pressé un instant prend la pause. Non je n'ai rien oublié. Je souris malgré moi, rien qu'à te regarder; si les mois, les années marquent souvent les êtres, toi, tu n'as pas changé, la coiffure peut-être. Non je n'ai rien oublié. Marié, moi? Allons donc, je n'en ai nulle envie. J'aime ma liberté, et puis, de moi à toi, je n'ai pas rencontré la femme de ma vie. Mais allons prendre un verre, et parle-moi de toi. Qu'as-tu fais de tes jours? es-tu riche et comblée? Tu vis seule à Paris? mais alors ce mariage? Entre nous, tes parents ont dû crever de rage. Non je n'ai rien oublié. Qui m'aurait dit qu'un jour sans l'avoir provoqué. Le destin tout à coup nous mettait face à face: je croyais que tout meurt avec le temps qui passe. Non je n'ai rien oublié. Je ne sais trop que dire, ni par oû commencer. Les souvenirs foisonnent, envahissent ma tête et le passé revient du fond de sa défaite. Non je n'ai rien oublié, rien oublié. A l'age où je portais mon amour pour toute arme. Ton père ayant pour toi bien d'autres ambitions. A brisé notre amour et fait jaillir nos larmes pour un mari choisi sur sa situation. J'ai voulu te revoir mais tu étais clôitrée, je t'ai écrit cent fois, mais toujours sans réponse; cela m'a pris longtemps avant que je renonce. Non je n'ai rien oublié. L'heure court et déjà le café va fermer; viens je te raccompagne à travers les rues mortes comme au temps des baisers qu'on volait sous ta porte. Non je n'ai rien oublié. Chaque saison était notre saison d'aimer et nous ne redoutions ni l'hiver ni l'automne, c'est toujours le printemps quand nos vingt ans résonnent. Non je n'ai rien oublié, rien oublié; cela m'a fait du bienn de sentir ta présence. Je me sens différent, comme un peu plus léger on a souvent besoin d'un bain d'adolescence. C'est doux de revenir aux sources du passé: je voudrais, si tu veux, sans vouloir te forcer te revoir à nouveau, enfin ... si c'est possible, si tu en as envie, si tu es disponible, si tu n'as rien oublié comme moi qui n'ai rien oublié.

     

    (Charles Aznavour)

    Des nuages... et que le coeur se serre...

     

     

    Cromatismo poetico

    Vocali

     

    A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,

    Io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti.

    A, nero vello al corpo delle mosche lucenti

    Che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,

     

    Golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,

    Lance di ghiaccio, brividi di umbelle, bianchi re;

    I porpore rigurgito di sangue, labbra belle

    Che ridono di collera, di ebbrezza penitente;

     

    U, cicli, vibrazioni sacre di mari viridi,

    Quiete di bestie al pascolo, quiete dell’ampie rughe

    Che alle fronti studiose imprime l’alchimia.

     

    O, la suprema Tuba piena di stridi strani,

    Silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:

    - O, l’Omega ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

     

    (Arthur Rimbaud, da “Poesie”, 1898)

     

    Partendo dal presupposto che la parola è un aggregato di suoni creato dall’uomo per esprimere convenzionalmente il mondo delle idee, di immagini e di bisogni che costituiscono la vita di ogni giorno, è ovvio che, per chi voglia porre al centro della propria vita la piena autonomia delle scelte e una creatività libera in ogni campo da qualsiasi forma di condizionamento esteriore, anche una simile convenzione è un abuso intollerabile. Ne viene di conseguenza che sarà per costui di fondamentale importanza abolire il valore usuale e comune della parola, assumendo di fronte ad essa un atteggiamento fondato esclusivamente sulla sensibilità, e disponibile alle più varie suggestioni che promanino dal suo suono e dalla sua forma e suggeriscano significati al di fuori di ogni codice. In una simile arbitraria reinvenzione della parola, nessun elemento, neppure il più piccolo, apparirà insignificante. Per fornire un esempio di ciò, il poeta propone, come protagoniste di questo componimento, le vocali, capaci di evocare, con il loro suono e la loro forma, immagini e sensazioni inedite e suggestive. La lirica costituisce una delle migliori applicazioni di quella “tecnica delle corrispondenze”, che, teorizzata da Baudelaire, sarà spesso utilizzata dai poeti delle generazioni successive. Adeguandosi ad essa, infatti, il poeta stabilisce una serie di arbitrari rapporti tra suoni, colori e forme, tali da evocare, per associazione di idee, particolari stati d’animo, tutti giocati sulla calda vividezza delle immagini e la sapienza musicale del verso. Per questa ragione, ricercare in essa una precisa significazione e una rispondenza delle parole con situazioni concrete diventa impresa impossibile, mentre d’altro canto è quanto mai impellente l’esigenza di lasciarsi catturare dal flusso delle immagini, la cui suggestione, tutta fondata sui valori fonici e musicali, le traduzioni si sforzeranno inutilmente di rendere: del sonetto, che è la forma metrica dell’originale, la traduzione conserva soltanto lo schema ma non la misura dei versi.

    Preludio in Do maggiore n.1, BWV 846, dal "Clavicembalo ben temperato"

     

    Il preludio n.1 in do maggiore è un brano famosissimo, oltremodo sfruttato anche dalle pubblicità televisive; la sua trasparente e fresca limpidezza, unita ad una facilità tecnica tale da essere alla portata di qualsiasi pianista in erba, lo rende indimenticabile già al primo ascolto. In effetti è un semplice arpeggio, peraltro nella più abbordabile delle tonalità, sia sotto l’aspetto armonico sia sotto l’aspetto strettamente esecutivo della pratica degli strumenti a tastiera. Concepito per clavicembalo, trova la sua massima espressione e realizzazione artistica se eseguito sul pianoforte, o addirittura su un fortepiano; ed essendo liberissimo nella forma, al punto tale da non sembrare nemmeno un preludio in senso stretto, lascia all’interprete la possibilità di ampliare il proprio orizzonte artistico senza alcun limite o vincolo di sorta. In questo consiste una delle ragioni del suo ininterrotto successo storico: è una materia così bella ed al contempo così facile da trattare che chiunque lo ascolti o lo esegua non può non innamorarsene. Suonando questo brano tutti possono fare bella figura e magari sentirsi chiedere chi ne sia stato l’autore; ecco, l’autore. Il grande Bach, senza ombra di dubbio una delle maggiori personalità musicali della storia in termini di complessità e difficoltà esecutiva, riesce a stupire per la disarmante disinvoltura con cui abbandona le sue consuete tematiche d’arte; il senso ultimo di questo preludio è quello di fungere da introduzione al “Clavicembalo ben temperato” considerato nella sua totalità; un’opera che ha segnato la storia della musica, e direi anche dell’arte mondiale nel suo insieme. Se oggi suoniamo e ascoltiamo la musica che ci piace e ci emoziona, nel bene o nel male lo dobbiamo al lavoro di Bach, che nel “Clavicembalo” ha scavato le fondamenta dell’edificio musicale europeo e di riflesso di quello mondiale. E questo preludio ne è l’inizio; deve essere pensato per quello che è nella sua essenza, ovvero un esercizio di riscaldamento, uno sciogli-dita; ma, potremmo esclamare, “Che musica, maestro!”. A ben guardare, però, ci si accorge che il brano, pur semplice, non ha affatto una struttura banale, come quella che hanno le canzonette della musica leggera contemporanea, tanto per intenderci; l’uso dell’armonia e delle sue concatenazioni in Bach non è mai scontata, anzi è per lo più sorprendentemente originale, proprio come in questo caso. Prima dell’esecuzione di pezzi importanti, lo strumentista antico era solito improvvisare liberamente, lasciando spaziare la sua fantasia e le sue mani, che traducevano in suoni i suoi pensieri del momento, ma senza un disegno prestabilito o un’intenzione specifica; a volte questo modo di suonare veniva indicato con il termine di “toccata”, e come non citare la celeberrima “Toccata e fuga in re minore” dello stesso Bach. Un concetto quasi già romantico, si potrebbe dire: l’interprete che si scioglie dalla rigida osservanza delle forme e delle regole classiche e sviluppa un rapporto diretto, non mediato, con la sua arte; questo però, quasi un secolo prima dell’avvento del Romanticismo. L’esecuzione in questo video è brutta e meccanica, poiché è una sequenza di valori digitalizzati da un computer, priva di ogni espressività e sentimento. E’ però ugualmente apprezzabile perché permette, meglio di altri, di rendere il concetto di “colore musicale”. L’idea di assegnare ad ogni nota un colore, così da rendere visibile la musica almeno nel suo svolgersi temporale non è nuova; già nei primi anni del secolo scorso furono fatti tentativi più o meno riusciti di costruire pianoforti ai quali erano collegati circuiti elettrici azionati dall’esecutore al momento della pressione dei tasti che, collegati a delle lampadine colorate, avrebbero dovuto, nelle intenzioni almeno, scoprire il lato “visibile” dell’arte dei suoni. Ovviamente il fallimento fu immediato e l’idea abbandonata. Soltanto l’avvento dell’informatica ha reso possibile riproporre il progetto, ambizioso al punto tale da non essere ancora definitivamente credibile come proposta artistica; è però valido dal punto di visto didattico. Non si può nascondere che per cogliere fino in fondo il pensiero sottostante alla creazione di opere particolarmente complesse ed articolate, e penso alle avanguardie del Novecento ad esempio, è imprescindibile una preparazione molto accurata; e non si tratta solo di conoscere gli spartiti, la partitura come l’autore l’ha fissata su carta, ma proprio di afferrare l’intero corpo sonoro con il senso dell’udito, e di distinguere in esso almeno una parte, quella più rilevante, del fluire musicale. Bisogna, in pratica, non solo “sentire”, ma sapere, soprattutto, “cosa” sentire; la partitura è solo un canovaccio cartaceo, indica ma non spiega, descrive ma non racconta, parla ma senza voce. Nel caso del preludio in questione si genera una felice combinazione tra i due elementi, vale a dire la struttura armonica e la coloritura cromatica. Per questo è stato possibile proporlo come modello di un futuro sviluppo della comunicazione musicale, per ora soltanto allo stadio di prototipo; io penso che prima o poi arriverà il giorno in cui la musica abbandonerà la sua effimera astrattezza per cristallizzarsi in una forma percepibile anche da parte degli altri sensi; la musica vive solo nel momento in cui la si ascolta, poi evapora velocemente e svanisce per sempre. Anche il pensarla all’interno della propria mente non la cattura nella sua essenza; al massimo, si potrebbe dire, la si “riconosce” con un atto dell’intelletto. Sarebbe bello immaginare un quadro musicante, che al solo guardarlo produca suoni armonici, consonanti o dissonanti, e arricchisca l’esperienza visiva di una “colonna sonora”; impossibile, per ora, alla tecnica ma non alla fantasia, radice ultima e profonda di questo piccolo, breve, elementare preludio. Preludio forse anche di una nuova età artistica, pensato quasi tre secoli fa da un genio universale le cui idee restano ancora oggi il punto di partenza di ogni nuovo cammino musicale.

    La mer a bercé mon cœur pour la vie

     

     

    ... mastodonte sonoro ...

    … e allora lasciamo fare. Giunto alla fine della mia giornata lavorativa, piuttosto pesante, rientro a casa e, dopo una cena svogliata e frettolosa, mi accingo ad uscire di nuovo; la meta è la chiesa cattedrale. Finalmente ho a disposizione, tutto per me, l’organo; solo un’ora e mezza, giusto il tempo della partita di calcio che stanno trasmettendo in televisione. Il responsabile della parrocchia mi ha chiaramente avvisato che, terminato l’incontro, andrà a a dormire, e dunque dovrò sloggiare. Allora meglio non perdere tempo. La consolle è piuttosto bella, con tre manuali, pedaliera completa, gran numero di registri, unione tastiere funzionante, combinatori, tutto in perfetto stato; il suono è notevole, potente, preciso, ricco di colori e sfumature. Se potessi passerei tutta la notte a fare esperimenti; francamente sono sorpreso: nella maggior parte dei casi gli organi sono strumenti trascurati, ai quali solo raramente viene concesso il lusso di una manutenzione approfondita e regolare. Si sa che le spese sono tante e le priorità ben altre, però anche lasciare che il tempo e l’incuria rovinino una parte così importante del patrimonio storico-artistico italiano è sintomo di quel più generale processo di disimpegno culturale che la società odierna sta vivendo, e che è possibile riscontrare sempre più spesso, purtroppo, anche nella piccole realtà di provincia, fino a ieri orgogliose delle proprie tradizioni. La chiesa è buia; c’è soltanto la piccola lampadina del leggio ad aiutarmi e fa piuttosto freddo; suonare con le mani gelate non è piacevole, ma ormai è ora di iniziare. Di solito prendo confidenza con uno strumento che non conosco a fondo suonando pezzi semplici, perché mi interessa sentire come si comporta e come reagisce; stasera ho nella cartella le invenzioni e due e tre voci di Bach, le suite inglesi e altri brani di vari autori, quelli che più amo e sui quali torno a più riprese. Suono a memoria, senza leggere, per capire fin dove posso spingermi con la fantasia. Resto complessivamente soddisfatto; ho a che fare con un organo molto valido, dal quale si possono ottenere buoni risultati e magari tentare anche qualche soluzione ardita, non convenzionale. Dispongo le tredici pagine della passacaglia in do minore sul leggio, e resto in silenzio a leggere per qualche minuto; le note a margine sono in tedesco. Mi viene in mente che la musica è veramente una lingua universale: mette in comunicazione me, un italiano del duemila che non conosce il tedesco, con Bach, un tedesco morto nel 1750 che non conosceva l’italiano. Il pensiero trasfuso nella forma artistica passa ugualmente, arriva, supera ogni impedimento, non può essere chiuso in confini di tempo o di spazio, e si mantiene intatto nella sua formulazione originaria pur permettendo ad ogni interprete di intenderlo a suo piacere, di colorarlo con le tinte che più gli paiono adatte ad abbellirlo ulteriormente. Ciò deriva dalla astrattezza misteriosa del suono musicale, che può essere ad un tempo incomprensibile e capito da tutti, aperto e chiuso, tedesco ed italiano. Manca ancora una cosa, quella davvero importante e imprescindibile: il contatto con l’autore. Lo spirito di Bach è nell’aria, in quella che ho dentro la testa, intendo, già da qualche giorno; non faccio altro che pensarci, mi torna continuamente davanti e mi distrae anche dalle mie mansioni lavorative. Preme, insiste, vuole uscire a tutti i costi e so che fino a quando non gli darò sfogo non potrò avere pace. Quindi cerco di concentrarmi, di spogliarmi di me stesso come se uscissi materialmente dai miei vestiti per lasciare che vi entri Johann Sebastian, sedendomi di fianco a lui sulla panca della consolle, in religioso ascolto. E’ ora. Il mastodonte si muove. Pedaliera, do basso prima nota...

    ...Il personaggio pirandelliano.

    ...una lettura del teatro di Pirandello che tenga conto di questa prospettiva può forse capovolgere molti luoghi comuni della critica pirandelliana, e primo fra tutti quello che, più pressante e insistente, pare inficiare la stessa qualità artistica del teatro di Pirandello con il sospetto di una costituzionale artificiosità di marca intellettualistica. Non si pretende qui di opporre eccesso ad eccesso, e di tentare una inopportuna difesa ad oltranza di tutta la produzione pirandelliana, e meno che mai di affermare solennemente una “materiale” continuità dell’ispirazione, del resto impossibile e in nessun grande poeta verificabile: nel teatro di Pirandello, come in ogni grandiosa strutturazione, esistono certamente le zone d’ombra, le cadute espressive, ed esistono anche i momenti in cui quello strumento di sofferenza, ch’è la ragione, stenta a risolvere la sua funzionalità in una completa figurazione dell’umano dolore. Ma qui si vuol dire che rinnegare pregiudizialmente quella passione ragionativa del personaggio, significa vietarsi di cogliere e di capire tutta la poesia di Pirandello, e significa precludersi ogni possibilità di spiegazione e di critica caratterizzazione. La ragione è dunque l’elemento culmine della disgregazione della persona e insieme il tentativo più disperato della sua finzione unitaria: proprio l’apparente e illusoria unità del molteplice, del diseguale, dell’incoerente. E sua funzione è appunto il linguaggio, il segno della oggettiva incomunicabilità del personaggio e insieme la testimonianza della sua ansia di comunicare. Strumento e velleità d’un dialogo sostanzialmente illusorio, la lingua del teatro di Pirandello, anche e più che nelle novelle, è neutra e convenzionale nel lessico, nell’aspetto istituzionale, cioè convenzione di una società artificiale e provvisoria. Ma della “sintassi” mentale ed etica di quella società ha perduto l’interna dialettica coordinativa, la “durata”, la garanzia psicologica: sicché, priva di motivazioni implicite e di giustificazione unitaria, tende a farsi monologo, esaltazione di puro suono. E in effetti raggiunge una espressività sua e tutta nuova in questo risolversi in puro grido, interrogativo vano, eco asemantica dei sentimenti nudi e delle inconoscibili passioni: anche quando, nell’altrettanto illusoria tensione espressiva della logica vana, sembra articolarsi e organarsi in una inchiesta apparente, in una lucida “sintassi della ragione”, in definitiva in una provvisoria garanzia delle forme, del gioco delle parti.

     

    (A.L. De Castris, “Storia di Pirandello”, 1966)

    Il personaggio pirandelliano...

    Il personaggio pirandelliano è il risultato della scomposizione della persona romantica e borghese, del frantumarsi di quella unità psicologica e morale in un mosaico di apparenze ingannevoli: e il suo dramma è nell’aver perduto per sempre la coerenza e la organicità di quella protezione etica e psicologica. Tuttavia, per vivere, e cioè per rendersi rappresentabile, per eludere la solitudine del suo essere “un personaggio senza autore”, deve accettare l’umoristica realtà di una dimensione apparente, e di questa i gesti, le vicende, le reazioni, il pianto. E il suo strazio è di dover tradire, nella relativa e caotica commedia della sconvolta persona, l’altissima tragedia del personaggio: di dover denunciare il suo vero dramma nell’unico linguaggio che gli è concesso, quello incoerente e centrifugo delle parti, delle forme false della società borghese. […] Ora, una delle forme della scomposizione, che il personaggio deve vivere, è la ragione, la più vana anzi e la più ingannevole delle parti: come borghesemente piange e ride, soffre e si dispera, ama e odia, così il personaggio pirandelliano ragiona. E questa smania razionale è il punto più alto e più inesorabile del suo dolore, proprio perché quella “forma” è la più relativa e falsa delle parti in cui si celebra e si tradisce la sua tragedia, la più tipica e illusoria e borghese delle molecole in cui egli soffre la sua dispersa unità. Non a caso i personaggi più alti del teatro di Pirandello sono i personaggi “ragionatori”, quelli ai quali, lungi dall’offrire la soluzione o la consolazione del loro soffrire, la ragione fornisce – nella misura spietata del paradosso – la coscienza più profonda e disperata del loro dolore, l’impasse più irresolubile della loro umanità: uno strumento di tortura, il più infelice perché il più umano, l’eredità più tragica e la più vana illusione di quella civiltà storica della quale il personaggio pirandelliano rappresenta la stilizzazione simbolica. Non a caso su quei personaggi si condensano i momenti più commossi e puri della pietà e insieme dell’umorismo di Pirandello: e mentre le figure patetiche, i sofferenti senza coscienza, sembrano destinati ad un dimensione tradizionale di sofferenza e di riscatto, di riso e di compianto, sono proprio questi altri, i sofferenti della ragione, a invocare la compassione più alta...

    Mastodonte sonoro...

    La passacaglia in do minore BWV 582 di Johann Sebastian Bach è una delle più alte e sublimi composizioni del grande maestro di Eisenach, e sarebbe inutile, da parte mia, tentare un commento critico o anche soltanto tecnico. L'atteggiamento da tenere nei confronti di questo capolavoro è quello della contemplazione mistica, l'unico in grado di elevare alle vette artistiche raggiunte dall'autore. Altri non sarebbero nemmeno ipotizzabili. Io posso solo descrivere la mia esperienza personale in relazione a quest'opera, maturata in lunghi mesi di studio, quando ancora potevo dedicarmici in maniera assidua, e cercare di esprimere come ho imparato a viverla nel corso del tempo, sia suonandola in prima persona, sia meditandola e rielaborandola nel mio pensiero, avvelendomi dell'ascolto degli interpreti più significativi del nostro tempo, quali Karl Richter o Ton Koopman.

    Certamente, quasi tredici minuti di durata sono un impegno notevole per l'esecutore e per l'ascoltatore, ma anche per lo studioso, che difficilmente riesce a interiorizzare e far proprio il significato artistico che Bach ha inteso comunicare, attraverso una forma così complessa, senza un' intuizione personale in grado di aprire un varco in una struttura astratta di tale portata, concepita da una mente capace di una "potenza di calcolo" con pochi eguali nella storia, e non solo della musica. E' noto che Bach potesse improvvisare all'organo una fuga a cinque voci in qualunque momento intendesse farlo, mentre un organista ordinario si diplomava sostenendo un esame in cui era richiesta la composizione di una fuga a tre voci, da scrivere in due sessioni di quattro ore e in due giorni diversi, se la memoria non mi inganna... Insomma, si tratta di scalare una montagna altissima e occorre trovare la via migliore. Riflettendoci a lungo, ho ritenuto che il percorso più adatto fosse quello, per così dire, "emozionale": essendo la musica un linguaggio, cioè un mezzo di comunicazione, sarebbe bastato permettere allo spirito di liberare istintivamente le sue energie in reazione a quanto percepiva, nella maniera più diretta possibile e senza l'ostacolo della mediazione tecnico-didattica, inevitabile nell'approcciarsi allo studio di composizioni di questo livello. Un semplice by-pass: lasciamo che a suonare sia lo stesso Bach, e limitiamoci a risuonare di lui e della sua musica; ognuno avrà la possibilità, in questo modo, di avere una propria interpretazione personale, un proprio suono specifico, che in musica si chiama "timbro". Questa è la prerogativa dei grandi artisti: ci comunicano la loro vita, filtrata dalla loro sensibilità; a noi basta lasciar fare...

    Mastodonte sonoro

     

    Universe size comparison 3D

     

    Questo bellissimo video tratto da YouTube ha un grande valore didattico, ma anche morale; ci aiuta a ristabilire le esatte proporzioni quando crediamo di essere noi stessi al centro dell'universo. Diceva un tale: "L' universo, ad eccezione di una particella infinitesima, è fatto di altro..." 

    Mozart, Requiem Mass in D minor (K 626) Lacrimosa

     

    Lacrimosa dies illa Qua resurget ex favilla Judicandus homo reus

    Lacrimosa dies illa Qua resurget ex favilla Judicandus homo reus

    Huic ergo parce Deus Pie Jesu, Jesu Domine

    Dona eis requiem Dona eis requiem Amen

    Franz Liszt - La Campanella

     

    ...è più facile perdonare una SS che un revisionista....

    Anni fa, ai tempi del liceo, ebbi modo di conoscere un testimone della Shoah, che venne nel nostro istituto, invitato dal preside, per raccontare la sua drammatica esperienza di deportato nel lager di Auschwitz. Terminato il suo racconto, identico a quello di moltissimi altri che in seguito ascoltai, venne il momento delle domande; ognuno di noi studenti poteva rivolgere un quesito e stimolare un dibattito ed una riflessione comune. Quando toccò a me, chiesi ad Erminio, così si chiamava, che cosa ne pensasse delle tesi revisioniste e di coloro che le sostenevano; anzi, per essere più preciso, gli chiesi che sentimento provasse nei confronti di coloro che davano credito a queste affermazioni negazioniste. Siccome la persona prima di me aveva provato a trattare il tema del perdono, ovvero della possibilità da parte delle vittime di concedere una qualche forma di pietà nei confronti dei loro carnefici, Erminio ritenne di dover combinare le due risposte dovute in un'unica e lapidaria affermazione: "E' più facile perdonare una SS che un revisionista". Già, ora mi dico, a distanza di tanti anni; in effetti non aveva tutti i torti. Mi piace citare un pensiero di Primo Levi, uno degli scrittori più lucidi e profondi in tema di olocausto: ogni volta che un uomo viene privato della sua umanità, ecco che si perpetua il lager. Questo è stato il senso ultimo del lager: togliere all'uomo la sua umanità, ridurlo ad un oggetto privo di ogni valore, svuotarlo di ogni energia, pensiero, storia, identità, perfino dei peli e dei capelli; e quando lo si è spremuto a fondo, eliminarlo con il gas, come si fa con gli insetti dannosi, e bruciare i suoi resti mortali, come fossero rifiuti, negli inceneritori.

    Forse alcune fra le SS potevano avere delle attenuanti, ad esempio la giovanissima età e il condizionamento fanatico e cieco a cui furono sottoposte; ma non certo delle scusanti. Il perdono verso costoro non potrebbe, in ogni caso, essere disgiunto da una severa giustizia. Ma i negazionisti e i revisionisti... Coloro che per spirito di contraddizione o peggio per interesse di parte arrivano ad usare la loro intelligenza per sostenere ciò che non può palesemente essere sostenuto, non sono forse peggio delle SS? Tentano di rendere vivo il lager ancora oggi, di fare in modo che continui la sua opera di morte, sminuendone il significato ed il portato storico. Contro costoro occorre combattere, con le armi della giustizia e della civiltà, così come si è combatutto allora; chi ha ancora il cuore puro e le mani innocenti non si nasconda e dia il suo contributo al progresso morale dell'umanità: è un dovere.

    Mon sentiment suspendu

     

    Mon sentiment suspendu. Je laisse mes pensées être visibles pour toi, mon amour perdu. La mélodie qui était ta chanson emplit mon cœur vide et y résonne toujours d'une musique triste, d'une profonde mélancolie qui envahit mon être. Comme toi, je suis transparent à la vie, et pour moi c'est une ombre de désespoir qui pèse sur mon cœur l'éclipse de bonheur, dans une harmonie désormais dissonante, une voix stridente de douleur qui me trouble. En pensant à toi mes yeux s'embuent, mon cœur est alourdi par le poids d'un destin de solitude et d'abandon.

     

     

    Est-il logique de dédier des mots et des pensées d'amour aux morts ? Pas s'ils sont vraiment morts. Tu n'es pas mort, car ta voix émeut chaque fois mon cœur comme un caillou jeté dans un étang émeut des eaux calmes. Je vis de ta voix, qui me donne l'impulsion de la vie. mais ta voix, je demande, d'où vient-elle ?

    Anacreonte, frammenti

    “La cerbiatta”

     

    Vorrei tenerti tra le braccia come

    pastore una cerbiatta

    giovane, non anche divezzata,

    che s’è smarrita nella selva,

    lontana dalla madre, e piange, e trema.

     

    (Anacreonte, 570-485 a.C. trad. Manara Valmigli)

     

    “La ferita di Eros”

     

    Un’altra volta

    con una grande scure m’ha colpito

    Eros, come uno spaccalegna;

    ed a lavarmi il sangue m’ha buttato

    in un torrente gonfio di tempesta.

     

    (Anacreonte, 570-485 a.C. trad. Manara Valmigli)

     

    Combien de temps s'est écoulé

    Combien de temps s'est écoulé.
    Pensez au temps qui s'est écoulé.
    Combien de temps ai-je vécu sans toi.
    Combien de moments ont passé.
    Combien de larmes versées.
    Combien d'ardeur consommée.
    Combien je respire.
    Combien de musique.
    Combien de douleur a souffert.
    Le mal qui t'a tué
    c'est le même qui me ronge.
    Maintenant mon vol de mouette
    sur les vagues de la mer
    ça n'a pas de sens.

    Dalida - Avant de te connaître

     

    Avant de te connaître Je tombais amoureuse Avant de te connaître Ses bras étaient sa douce chaîne Et son regard me captivait Et mon corps attaché au sien Était l'esclave de ses mains

    Avant de te connaître Je tombais amoureuse Avant de te connaître J'étais enchaînée par ses bras Prise, captive auprès de lui J'étais asservie à sa loi Toujours soumise à mon désir Notre amour était ma prison Avant de te connaître Avant de te connaître

    Mais le jour est venu Le jour où le destin A uni nos chemins

    Par toi, je me lève amoureuse Je grandis amoureuse Je suis libre amoureuse Tu m'as délivré par l'amour L'amour qui donne au lieu de prendre Tes bras sans mon appui Ton regard, ma lumière

    Mon corps par ta grâce devient Auprès de toi transparent à la vie Par toi, je grandis amoureuse Par toi, je me lève amoureuse Mon bonheur sera un nouveau monde Et je découvre un autre amour

    Immense, infini, éternel Plus grand que toi et moi M'emmène à Dieu

     

    Dalida, Que reste-t-il de nos amours

     

    Que reste-t-il de nos amours Que reste-t-il de ces beaux jours Une photo, vieille photo De ma jeunesse

    Que reste-t-il des billets doux Des mois d' avril, des rendez-vous Un souvenir qui me poursuit Sans cesse

     

    Bonheur fané, cheveux au vent Baisers volés, ráªves mouvants Que reste-t-il de tout cela Dites-le-moi

     

    Un petit village, un vieux clocher Un paysage si bien caché Et dans un nuage le cher visage De mon passé

     

    Ce soir le vent qui frappe á ma porte Me parle des amours mortes Devant le feu qui s' éteint Ce soir c'est une chanson d' automne Dans la maison qui frissonne Et je pense aux jours lointains

     

    Que reste-t-il de nos amours Que reste-t-il de ces beaux jours Une photo, vieille photo De ma jeunesse

    Que reste-t-il des billets doux Des mois d' avril, des rendez-vous Un souvenir qui me poursuit Sans cesse

     

    Bonheur fané, cheveux au vent Baisers volés, ráªves mouvants Que reste-t-il de tout cela Dites-le-moi

     

    Un petit village, un vieux clocher Un paysage si bien caché Et dans un nuage le cher visage De mon passé

    Dalida, La mer

     

    La mer

    Qu'on voit danser

    le long des golfes clairs

    A des reflets d'argent

    La mer

    Des reflets changeants

    sous la pluie

    La mer

    Au ciel d'été

    confond

    ses blancs moutons

    Avec les anges si purs

    La mer

    Bergère d'azur infinie

    Voyez

    Prés des étangs

    ces grands

    roseaux mouillés

    Voyez

    Ces oiseaux blancs

    et ces

    maisons rouillées

    La mer

    Les a bercé

    le long des golfes clairs

    Et d'une chanson d'amour

    La mer

    A bercé

    mon cœur

    pour la vie

    {Instrumental}

    Et d'une chanson d'amour

    La mer

    A bercé mon cœur pour la vie

    Dalida, L'amour et moi

     

    C'est un drôle de combat

    Mais pour le gagner tu as le choix des armes

    La musique ou les fleurs

    L'ironie, le rire ou le cœur ou le charme

    Un chemin quotidien, pavé de petits rien

    Qui peut-être mènera jusqu'au refuge de mes bras

    On ne s'est jamais quitter l'amour dis moi

    Et jamais on ne se quittera

    À travers joies et peines

    Moi c'est l'amour que j'aime

    Le soleil des passions

    éclaireras ta maison de ses orages

    Si tu veux autre chose

    dans une couleur un peu plus rose

    Dommage

    Les tendres promenades, les poèmes,

    les ballades L'automne dans les sous bois,

    cela ne m'intéresse pas

    On ne s'est jamais quitter l'amour dis moi

    Et jamais on ne se quittera

    À travers joies et pluies

    Mon amour c'est ma vie

    Te voilà prévenu

    Moi je ne me bas que les mains nues sans armes

    Mais je n'ai peur de rien, mon allié est fidèle

    Te tient sous son charme

    Je ne sais jusqu'à quand vivra notre aventure

    Je voudrais qu'elle dure

    Aujourd'hui je t'ouvre les bras

    On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi

    (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    L'amour dis-moi L'amour dis-moi

    (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi

    (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    L'amour dis-moi L'amour et moi, l'amour et moi

    (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    L'amour et moi (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    L'amour (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    L'amour dis-moi (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    L'amour dis-moi L'amour dis-moi (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    (On ne s'est jamais quitter l'amour dis-moi)

    Disclaimer : patti chiari, amicizia lunga

    Maschio eterosessuale mai stato sposato e senza figli. Del tutto libero da qualsiasi vincolo giuridico e sentimentale. Al momento non ho relazioni in corso di alcun tipo, nemmeno platoniche. Posso disporre di me e della mia vita come voglio senza rendere conto a nessuno e senza agire clandestinamente. L'ho scritto nero su bianco per evitare ogni equivoco, così siamo tutti più tranquilli.

     

    Non ho altri nickname, non ho altre identità. Ho un solo nome e una sola faccia. Non mi nascondo dietro a niente e non ho niente da nascondere.

     

    Non sono un playboy o un seduttore online. Non cerco avventure a sfondo sessuale e se le volessi non le cercherei qui.

     

    Non mi relaziono in modo intenzionale con donne sposate. Chi non dichiara la sua situazione sentimentale o la falsifica, sappia che può trarre in errore la mia buona fede.

     

    Non chiedo numeri di telefono, appuntamenti, indirizzi, fotografie, dati biometrici o personali di nessun tipo né contatti WhatsApp, Telegram e simili. Conosco la discrezione e la metto in pratica. Racconto di me e ascolto le altre persone senza fare pettegolezzi o avere interesse per situazioni o dettagli intimi e personali.

     

    Che cosa voglio? Amicizia, ma soltanto da parte di donne all'incirca mie coetanee o più avanti di me negli anni. Cerco una relazione affettivo-spirituale, un esserci reciproco, un volersi bene, condividersi, raccontarsi, capirsi, viversi a vicenda, per rendere migliore la mia vita e contribuire, per quanto posso e riesco, a rendere migliore quella altrui.

     

    Non mi interessano amicizie maschili, ne ho già a sufficienza.

     

    Non amo il turpiloquio, i toni scurrili e le parolacce. Tratto ogni argomento nel rispetto di tutti e di tutte le opinioni, ma voglio che siano rispettate anche le mie.

     

    Chi è interessata a contattarmi può farlo liberamente; rispondo sempre, se non altro per educazione e cortesia. Per cause non dipendenti dalla mia volontà può accadere che la mia risposta non sia immediata.

    Dalida, 17 janvier 1933 - 3 mai 1987

    17 janvier. Aujourd'hui aurait été ton anniversaire. voix de mon âme, sang de mon cœur, amour de ma vie. Tu as été le son de mon silence, qui n'est toujours pas silencieux aujourd'hui. Le mal nous a réunis et nous a séparés, il vous a condamné à mort et moi à la vie. Chaque jour je compte les minutes qui restent avant que nos mélodies se transforment en harmonie et se libèrent dans le ciel bleu que tu as tant aimé.

    Come ho vissuto l'amore

    Guerra. Come se fossi andato in guerra, a combattere per ciò che amavo e volevo difendere e conquistare allo stesso tempo. Non avevo paura, ma come un sentimento di esaltazione incosciente, una felicità sorda, un’attrazione magnetica che la lotta all’ultimo sangue produceva sul mio spirito, irresistibile. Quasi un’estasi per una morte degna di essere vissuta. Allora partii e non mi volsi indietro. Non scelsi, fui trascinato. Era una vertigine, volli il fronte e la trincea, subito. Non mi importava d’altro che arrivare dove il mio cuore era già, dove la mia anima mi attendeva. E così andai. Uscii dalla trincea sotto il fuoco delle artiglierie nemiche; era impossibile capire, sul campo di battaglia le emozioni rimbombano, esplodono, incendiano. Ma un soffio potente mi spingeva. Attaccai di forza, forza bruta, violenza cieca, dispiegando ogni risorsa. Per molto tempo le sorti furono incerte, e rinunciai ad ogni tentativo di pensare, perché in guerra non si pensa e nel ventre di una battaglia non c'è strategia o tattica. Poi conquistai una posizione, avanzai lentamente e inesorabile. Ma non raggiunsi il confine, e non portai la mia bandiera sulla vetta più alta del territorio nemico.

     

    Il mio alleato non fu fedele; si dileguò, come un ladro nella notte. La mia sconfitta brucia, è sale nelle mie piaghe. Ho su di me i segni, le cicatrici della lotta, sono reduce dall’aver tentato la vita su un campo di battaglia e di morte. E lì lasciai la mia, vivo senza vita, morto senza morte. Ormai tutto è silenzio, quello dei sacrarii, che nel loro urlo muto chiudono mille voci, mille spari, mille tuoni.

     

    Hai rubato ciò che avrei voluto donarti. Solo con il tradimento hai potuto vincere. Hai paventato di essere felice, di conquistare la vittoria; hai scelto di fuggire. Finirà la guerra anche per te; si vedranno gli eroi e i disertori, i disertori e i cani. La mia è valsa la pena, non ho vissuto invano: ti ho amato.

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