Lettere d'amore per principianti /11
perchè a volte innamorarsi fa paura
Domani
Aurora lo guarda infilarsi gli slip, poi alzarsi mollemente e muovere passi incerti per la camera da letto alla ricerca degli altri vestiti, il profilo un po’ appesantito del ventre che cerca di riacquistare una difficile piattezza, e si lascia ricadere sul cuscino socchiudendo gli occhi.
L’eccitazione che ha percorso il suo corpo si sta ora trasferendo nella coscienza, come tra due vasi comunicanti, e tanto più se ne svuota il primo, tanto più se ne riempie la seconda.
Il senso di colpa, se ci sarà, arriverà più tardi, ne avverte le prime unghiate da qualche parte, in fondo al cuore, ma non vuole ancora pensarci, se le aspettava e in un certo senso immagina di difendersene anticipandole. Il palmo aperto della destra si stende sul rilievo ancora caldo che il corpo di lui ha lasciato sulle lenzuola.
Si erano seduti sul bordo del letto, confusi, con lui che le parlava troppo e troppo velocemente, per calmare più la propria emozione che quella di lei, e lei non aveva saputo cosa dire per fermarsi, non era più certa di volerlo fare ma ormai era arrivata fin lì dopo troppe schermaglie, rinvii, rassicurazioni reciproche e aveva capito che non avrebbe più potuto sottrarsi.
Del resto era stata lei, col tempo, a lasciar espandere il desiderio che lui le aveva acceso offrendole quel suo amore impossibile e disperato e se ne era lasciata sommergere, grata di tante parole intense e inaspettate che non aveva mai ricevuto o che aveva smesso di attendersi.
Lui aveva dimostrato una certa grazia puntigliosa nell’aiutarla a prepararsi, le aveva accarezzato a lungo la linea del collo, aveva dimostrato di non considerare un anticipo sufficiente di tenerezza il bacio frettoloso e quasi colpevole che si erano scambiati in strada.
Un languore sconcertato l’aveva presa a quella grande lentezza dei movimenti di lui, la passione dilatata delle mani che la cercavano sopra il vestito e che ogni volta ritornavano come se non l’avessero trovata o cercassero ancora una conferma. Lui doveva averlo intuito, perché le aveva sussurrato più volte, mentre le labbra scivolavano dalla spalla alla punta dell’orecchio:
“Non c’è fretta, non c’è fretta.”
Proprio quella fretta che all’inizio aveva pensato sarebbe stata necessaria, che l’avrebbe aiutata a convincersi di aver fatto un errore, ora le sembrava il più duro degli impedimenti e si lasciava accarezzare inseguendo il respiro di lui, cercandone il ritmo per adeguarlo al proprio, in una indefinita gratitudine di sospiri.
Adesso l’ovale del viso raggiato dei capelli è più disteso. Le tende macchiano la luce del giorno che si sta concludendo di un rosso attenuato. Vorrebbe trovare il coraggio di essere felice, o meglio, di riconoscerlo, di sentirsene in diritto. Ha sempre saputo che non sarebbe stato facile, ma vorrebbe che l’amore scambiato (perché è stato amore, questo ora sente di riconoscerlo fino in fondo) avesse una forza di persuasione decisiva. Adesso, più di prima, teme il pensiero di entrare nella mente di lui, di trovarla sgombra della sua ansia, incapace di angoscia per il domani.
Quando lei aveva accennato a togliersi una scarpa, lui le aveva fermato la mano, era scivolato sulla moquette grigia e gliela aveva sfilata, tenendo il piccolo piede nudo tra le mani, sfiorandolo con le labbra tutt’intorno, fino alle caviglie. E lei aveva sentito un imbarazzo profondo, più ancora che se l’avesse spogliata per intero. Ma forse non era imbarazzo per quella prima vera forma di intimità, quanto per il peso che sentiva per quella forma di sottomissione implicita, che misurava in un certo modo l’importanza che lui aveva deciso di attribuirle.
Ma non l’aveva fermato. Aveva iniziato a sussurrare il suo nome, per dare ordine ad un’eccitazione scomposta, che non voleva più trattenere ma non sapeva come liberare. Sentiva di aver fissato un punto oltrepassato il quale non avrebbe dovuto più farsi domande; però il limite era mobile, non era mai dove si aspettava, sempre un poco più avanti, e aveva deciso di lasciarlo trovare a lui.
Le aveva sfilato anche l’altra scarpa e le stava sorreggendo entrambe le gambe, unite e bianchissime fino a poco sopra la curva delle ginocchia. Con lenta sicurezza vi aveva poggiato il viso, iniziando a risalire, con soste interminabili, sollevando l’orlo del vestito.
Aurora guardava testa assorta farsi strada lungo le cosce che lui teneva unite stringendo i polpacci nelle mani, e sentiva rallentare i pensieri man mano che le labbra completavano la risalita.
Lui raccoglie e si infila i calzoni che aveva lasciato cadere al fondo del letto e la guarda con un sorriso assorto e imbarazzato, sa che adesso viene la parte non meno difficile, riacquistare quel senso di dignità che ha la sensazione di perdere dopo ogni amplesso. Si avvicina e si siede nello spazio che istintivamente lei gli ha lasciato libero, spostandosi un poco dalla posizione distesa.
Aurora si solleva sui gomiti, stringendo il lenzuolo attorno al petto. No, sente di non essersi sbagliata completamente, il cuore nonostante tutto le sussulta ancora quando sente la mano di lui, quando lo sguardo cerca di imprimersi nel suo. Avverte il ritegno di quel contatto e la paura di dire qualcosa di meno adatto del silenzio.
L’uomo ancora non parla, tiene in una mano la camicia appena raccolta da terra come per darsi un contegno, poi si china su di lei, le sfiora il mento con le labbra, scende lungo il collo e si ferma all’attaccatura del seno. Le narici si riempiono della traccia della sua pelle, un desiderio celato di scolpirla anche nella memoria olfattiva lo cattura, rimane a lungo così, a respirarla e a sentirla respirare.
Il turbine di domande non si è arrestato nella mente di Aurora che rimane immobile, con la testa di lui che cerca di affondarle in corpo, e le sue mani che scivolano sui capelli scomposti. Ma le parole di quelle domande non si sono ancora allineate, sono come scritte sulle tessere di un domino che la sua meravigliata eccitazione rimescola incessantemente.
Poi le aveva allargato le gambe e aveva cercato la sua intimità, e Aurora aveva capito che quel punto mobile era ormai alle spalle.
La penombra affossa ancora di più gli occhi scuri di lui, e Aurora deve acuire lo sguardo per cercare quelle iridi notturne, lei che ha negli occhi il colore del cielo. Non lo sa, ma quel suo ispessire le sopracciglia la rende ancora più bella.
“Vuoi che accenda la luce?” le chiede l’uomo, guardandosi attorno per cercare l’interruttore.
“No” risponde, e si accorge che è la prima parola cosciente che dice da quando sono entrati in quella camera.
“Bene” tenta di scherzare lui, “al buio vengo meglio”
Ma lei si sente quasi offesa da quella battuta, vede nello sminuirsi di lui anche la propria svalutazione, perché mai come adesso si vede riflessa, confusamente sì, ma riflessa in quell’uomo e nelle sue premure tenere ma non goffe, in quella mescolanza di fragilità non mascherata e di forza non esibita.
“Non devi dire così. Mai” gli risponde. “Mai più” e lui abbassa lo sguardo sorridendo.
Una domanda inespressa fluttua nella stanza, sfiora le coscienze di quegli amanti e ne fa rabbrividire i corpi. Sembra sempre sul punto di prendere forma, di raggrumarsi in parole, rimane ogni volta sospesa, ma entrambi sentono che non la potranno eludere a lungo.
Aurora vorrebbe riposare ma domani ci sarà tempo per farlo.
Quel tempo sonnolento e caliginoso che già si insinua nella stanza, mentre il sole pallido e sporco lentamente toglie l’assedio alla città.