L'Erinni
Michele la vede sbucare all’improvviso da dietro un albero. Dapprima è una macchia rossa ai margini del campo visivo che si fa largo fra i sambuchi; appena il tempo di percepirla e la macchia prende le fattezze di una ragazzina minuta e nervosa che indossa una maglietta di quel colore e che si ferma a pochi passi da lui, come se si fosse aspettata di non trovare nessuno al laghetto proprio quel pomeriggio e valutasse se tornare indietro per evitare un incontro sgradito.
Lui smette di colpire le canne che stava decimando con un bastone, impegnato in una battaglia immaginaria contro l’avanguardia di un esercito tanto immenso quanto immobile e si ferma davanti a quella apparizione improvvisa. Prova un leggero disagio che è quasi imbarazzo nel vedersi scoperto a giocare in modo così futile e rallenta l’ultimo colpo di bastone deviandolo verso il suolo, iniziando a frugare tra l’erba con delicatezza, come se stesse cercando qualcosa che aveva perso e che si fosse tutt’a un tratto ricordato dove guardare per ritrovarlo.
Pensa che salutarla potrebbe dargli un contegno e magari sviare l’attenzione dai calzoni inzaccherati.
Ciao
Lei lo guarda e ricambia il saluto con una voce che non cerca confidenza. Educata, come quella che ci si aspetta da lui quando papà e mamma invitano a cena qualcuno dei loro amici. Sembra un po’ più grande di lui, non di molto, più o meno l’età di sua sorella, e sa che dovrà prepararsi al suo stesso atteggiamento accondiscendente.
Non l’ha mai vista da quelle parti ma è anche vero che lui ci viene raramente e in questo periodo d’estate ci sono molti villeggianti, potrebbe essere arrivata da poco. Di solito lo portano più a valle, al lago vero, quello grande, a nuotare e a fare i tuffi. Ma oggi i genitori non ci sono e deve accontentarsi di perlustrare le macchie di rovi intorno al torrentello vicino casa che è poco più di un rigagnolo, raccogliere qualche mora e inventarsi tutto quello che manca per far trascorrere il tempo fino ad ora di cena; ogni tanto capitano giornate così, non proprio storte ma sbilenche, fuori asse nonostante le promesse di avventure mai mantenute di papà. E per lui che trascorre la maggior parte del tempo in città, tutte quelle ore vuote da affrontare da solo lo mettono a disagio. In genere gli basta poco per svagarsi: osservare i pesci che si muovono indolenti nell’acqua poco profonda o costruire piccole imbarcazioni incastrando pezzi di corteccia degli alberi e ramoscelli; ma dopo un po’ quel giorno la noia lo aveva assalito e allora aveva raccolto un ramo da terra e iniziato a mulinare colpi fingendo di essere uno di quei moschettieri visti al cinema, ma in realtà solo per scaricare la rabbia di un pomeriggio che non vuole saperne di trascorrere.
Lei non sembra intenzionata a continuare la conoscenza, anzi dopo la sorpresa dell’incontro con lui riprende a camminare costeggiando il ruscello; ma Michele capisce che quella è l’unica speranza di allentare il tedio di una giornata iniziata male.
Si ripete che è solo una ragazzina, però parlarle richiede più coraggio di quanto si sarebbe aspettato. Attende che sia più o meno alla sua altezza e spera che la voce non gli esca troppo intimidita.
Come ti chiami ?
Lei incrocia lo sguardo di lui qualche istante prima di rispondere. Lo sguardo si allunga in un sorriso che sembra malevolo ma forse è solo forzato - Megera – dice in fretta, e poi torna a guardarsi d’intorno, come fosse indecisa su quale direzione prendere.
Michele rimane interdetto. Non aveva mai sentito quel nome. Nessuna delle sue compagne di scuola si chiama in modo così strano. Riflette. Ci sono Carla e Luisella. E poi Patrizia e Francesca e quella smorfiosa di Katia che strilla ogni volta che qualcuno prova toccarle le trecce. Ma Megera mai, non l’aveva ancora sentito. Neanche frugando fra i nomi più strani che portano i grandi, specie gli anziani come le nonne Anastasia e Clelia e quel fenomeno sonoro di zia Imelde, riesce ad incontrare un suono vagamente simile. Deve essere un nome vecchissimo, Megera. Antico, forse.
E poi Megera ha un suono particolare. Michele ha un orecchio tutto suo per il suono delle parole, per questo ne ricorda così tante e anche se le usa più con spavalderia che con proprietà, riesce sempre ad essere preciso a suo modo. Gli sembra che conservino nella loro particolare alternanza di vocali e consonanti una specie di impronta del loro significato e della loro natura. Tanto che acqua gli gorgoglia in gola ogni volta che la pronuncia e il ruscello lì accanto non smette di scrosciargli nella testa persino quando ne scrive la parola sotto la dettatura del maestro, a scuola.
Accade anche con le persone. Elena lo fa pensare ad un movimento pigro e scostante della mano, forse per quell’attacco sulla vocale iniziale subito frenato dalla brevità della parola (l’altezzosità, il termine che più si avvicina a questa sensazione, l’imparerà più tardi e sperimenterà molte volte negli anni che verranno); invece Luisella suona allegro ma insieme ingenuo e indifeso, per quello lei gli è più simpatica di tutte. Solo riguardo al suo proprio nome non riesce ad esprimersi, forse perché trattandosi di se stesso, non ha la necessaria distanza per ascoltarlo con orecchie di estraneo. Michele a forza di sentirlo pronunciare così spesso da altri, ha finito col non dirgli più niente.
Ma Megera gli sfugge. Come fa tutte le volte che incontra una parola nuova socchiude gli occhi e prova a contarne le sillabe, lentamente. Me-gè-ra. Tre sillabe; e il metronomo della sua mente scandisce il tempo.
È un bel nome ma è strano. Non l’avevo mai sentito.
Non è un bel nome. Megera vuol dire cattiva. Brutta e cattiva.
Michele si domanda perché mai due genitori abbiano deciso di chiamare così la figlia. Se fosse stato vero, brutti e cattivi dovrebbero essere loro.
Ma tu non sei brutta, vorrebbe dirle, però non lo dice. Cattiva non può sapere; potrebbe anche darsi, da come sorride, con quel sorriso fisso che sembra voglia prenderlo in giro anche quando non lo guarda; gli è passata accanto agile e noncurante con una sicurezza che lo intimorisce; ma brutta no di certo con quei capelli biondissimi e lisci e gli occhi affusolati così pieni di curiosità che più che fissare le cose sembrano sul punto di agguantarle. Però non può stare zitto, e a dire che non la trova brutta si vergognerebbe: sono solo le ragazzine che ci tengono tanto a quelle cose. Considera i suoi pantaloni macchiati di erba e fango come a cercare conferma del fatto che essere maschi è una cosa seria. Se fossero al lago vero le farebbe vedere come si fa a far rimbalzare i sassi piatti e levigati sul pelo dell’acqua; ma quella è poco più di una pozzanghera, e non ci riuscirebbe.
Raccogliere una pietra da terra e gettarla con indolenza nello stagno è l’unico modo che trova per sciogliere il silenzio e diluirvi il suo imbarazzo.
Plop.
Chissà che parola si potrebbe associare al suono di una pietra che cade nell’acqua.
E perché cattiva?
Lei guarda i cerchi allargarsi sulla superficie dell’acqua; illuminati dal sole radente sembrano anelli di luce liquida.
Aspetta che anche l’ultimo anello si sciolga sulla riva e poi risponde.
Perché mamma dice che sono disobbediente. Faccio sempre quello che voglio – aggiunge con una punta di orgoglio. Prova a sbirciare se Michele la sta osservando, ma lui ha già ripreso a cercare sassi intorno allo stagno. E poi scappo da casa fin da quando ero piccola.
Michele si ferma, un sasso incrostato di fango nella mano.
Scappi? Non ci credo. E per andare dove? E indica tutt’intorno, perché quell’angolo di boscaglia dove spesso inscena i suoi giochi solitari, a forza di rappresentare tutto il mondo, alla fine è come se lo fosse diventato, e gli pare impossibile che ci sia un oltre.
Megera strizza gli occhi per difenderli dai riflessi del sole sull’acqua.
Vado dove posso stare sola. Dove non c’è gente. E poi aggiunge – La gente è noiosa. Sta in silenzio per un attimo e poi lo guarda di scatto, gli occhi obliqui senza ombra di timidezza.
Anche tu sei noioso
Megera si allontana veloce e non si volta più indietro; imbocca uno dei tanti sentieri che si irraggiano dallo spiazzo ed è subito nascosta dagli alberi.
Michele rimane lì, con il sasso ancora in mano. L’ultima frase non resta a galleggiare nell’aria ma penetra dentro lentamente nonostante l’avverta così pesante; gli sprofonda nell’animo come le pietre lanciate nello stagno.
Non capisce il perché di quella pesantezza: era solo una ragazzina smorfiosa come tutte le ragazzine, ma quel saluto sprezzante e immotivato gli fa battere il cuore di un’ansia nuova che è quasi come perdere l’equilibrio.
Raccoglie il bastone da terra e si avventa sulle cime delle canne.