Dio creò prima Mauritius e poi il paradiso
terrestre. Che è la copia di Mauritius” (Mark
Twain
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PECHINO
I primi due giorni, terminate le cinque
ore quotidiane di lezione, finivo sempre per ritrovarmi chiuso
nella mia stanza d’albergo, assediato da un’ostilità ignota e
silenziosa. Pechino mi rifiutava, con le pareti levigate e
refrattarie dei suoi grattacieli, con il freddo lucore delle sue
insegne, con la sua ostentata dismisura. Mi sono sempre sentito
un cartografo di
città, versatile nel mappare interiormente le strade che
percorrevo, costruendo una mia personale geografia di suoni,
odori, emozioni, soliloqui. Non era una questione di dimensioni:
di Pechino mi sfuggiva la forma, la
figura, la legge interiore che fa di ogni città un
organismo vivente e dinamico. Guardando
dalla finestra della mia stanza vedevo, incorniciato e minacciato
dagli angoli taglienti e nitidi di tre grattacieli, un tiglio
sopravvissuto in un’aiuola periferica. Lo guardavo verdeggiare
inconsapevolmente, con la sua statura resa minuscola e risibile
dall’ingegno dell’uomo e mi sentivo fratello in ogni intima
fibra di quell’albero solitario, trapiantato in uno spazio e in
un tempo ostili all’umile ciclicità delle stagioni, tra volumi
impenetrabili e distanti, un Edipo smarrito lungo una via
fiancheggiata da Sfingi bronzee e colossali.