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Su di me

Situazione sentimentale

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Lingue conosciute

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I miei pregi

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I miei difetti

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Amo & Odio

Tre cose che amo

  1. amare
  2. corteggiare
  3. conquistare

Tre cose che odio

  1. gelosia
  2. malinconia
  3. egoismo

Trasimaco scrisse in modo sprezzante: i pastori e i bovari, certo, si preoccupano che il loro bestiame sia grasso, ma per il loro utile e non certo per quello degli animali. E così fanno anche i governanti nei confronti dei sudditi.

Pechino

Oggi, sotto una pioggia battente, ho visitato la Città Proibita. Ho camminato ininterrottamente per sette ore per coprire i suoi 720.000 metri quadrati e scrutare dalle grate di legno nell’interno di alcuni dei suoi 890 palazzi. È un’esperienza difficile da descrivere e del resto credo che l’intenzione di coloro che nel tempo costruirono e ampliarono questa città fosse proprio quello di sottrarla al dominio della parola. Indicibile per vastità o per complessità?
Nei primi due giorni che ho trascorso a Pechino ho sperimentato un disagio che non avevo mai conosciuto durante i miei viaggi precedenti. Io amo soggiornare nelle metropoli: mi sono sentito abbracciato da Parigi, nelle strade di Toronto ho trovato familiarità e calore, come se le città fossero diapason che risuonano appena
sfiorate, consonanti al mio più intimo sentire. Ritenevo perciò che anche Pechino, nel rispetto delle proporzioni, e con un più lento ritmo di adattamento, avrebbe risposto al mio sguardo con un volto riconoscibile. Invece, Pechino mi ha sopraffatto.

Dio creò prima Mauritius e poi il paradiso terrestre. Che è la copia di Mauritius” (Mark Twain

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PECHINO

I primi due giorni, terminate le cinque ore quotidiane di lezione, finivo sempre per ritrovarmi chiuso nella mia stanza d’albergo, assediato da un’ostilità ignota e silenziosa. Pechino mi rifiutava, con le pareti levigate e refrattarie dei suoi grattacieli, con il freddo lucore delle sue insegne, con la sua ostentata dismisura. Mi sono sempre sentito un cartografo di città, versatile nel mappare interiormente le strade che percorrevo, costruendo una mia personale geografia di suoni, odori, emozioni, soliloqui. Non era una questione di dimensioni: di Pechino mi sfuggiva la forma, la figura, la legge interiore che fa di ogni città un organismo vivente e dinamico. Guardando dalla finestra della mia stanza vedevo, incorniciato e minacciato dagli angoli taglienti e nitidi di tre grattacieli, un tiglio sopravvissuto in un’aiuola periferica. Lo guardavo verdeggiare inconsapevolmente, con la sua statura resa minuscola e risibile dall’ingegno dell’uomo e mi sentivo fratello in ogni intima fibra di quell’albero solitario, trapiantato in uno spazio e in un tempo ostili all’umile ciclicità delle stagioni, tra volumi impenetrabili e distanti, un Edipo smarrito lungo una via fiancheggiata da Sfingi bronzee e colossali.

 

Poi ho finalmente deciso di iniziare la mia opera di esplorazione e mi sono avventurato oltre le rumorose quattro corsie della Chaoyangmen Dajie, lasciandomi guidare dall’istinto, non esitando a deviare verso vie più raccolte, quartieri non segnati nella mappa. E sono entrato in un mondo dentro il mondo, fatto di case di cemento con le finestre chiuse da inferriate sporgenti simili a gabbiette per grilli, di vicoli contorti, di ristoranti improvvisati con i tavolini che dilagano disordinatamente oltre il marciapiede, di fili di lanterne e risate che sfidano il buio di vie senza lampioni, di baracche di lamiera coperte di vecchie ramazze di saggina dove uomini riparano i telai di scalcinate biciclette, di assorti filosofi viandanti che seduti a terra, con una scacchiera precariamente disegnata su un foglio di cartone da imballaggio, riflettono, la mano sotto il mento, osservando le pedine, meditando e scartando strategie per loro certo non più futili di quelle dell’Arte della guerra di Sun Tzu

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