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Mi descrivo

L'illusione di un legame univoco tra Amore e Morte è tramontato. Rimane un senso di finitudine, la spina sulla penna, il mio strumento oracolare.

Su di me

Situazione sentimentale

-

Lingue conosciute

Russo, Tedesco, Francese

I miei pregi

-

I miei difetti

-

Amo & Odio

Tre cose che amo

  1. Vivere
  2. Lottare
  3. Vincere

Tre cose che odio

  1. Invidia
  2. Superficialità
  3. Villania

I miei interessi

Passioni

  • Arte
  • Fotografia

Sport

  • Bike
  • Surf
  • Sub

I MIEI BLOG:

LUMEGGI IN ORO LUCE E OMBRA"


© SCATTI D'AUTORE "La città delle Donne"


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LA LADRA DI BIGODINI

 

La ladra di bigodini

La natura gioca a belle statuine con gli alberi disseminati lungo il viale; le balde speranze planate e poi scappate.
 
Analizzo il mio spinoso scontento cercando di stabilire se questo è il debutto di qualcosa o il suo confine.
Un cespo di ricordi antidiluviani mi sfila accanto verso l’infinito.
Rotola in qualche meandro nascosto del mio cervello, sotto calore.
Mi rimorchio dietro queste vischiose ragnatele impaniate nei bigodini vivaci, senza scrutare i recessi evolutivi che le ricamano.

Nella luce della lampada a collo d’oca concludo che la storia, stasera, deve finire.
Senza seme; quella minuscola frazione di te medesimo risucchiato nel turbine del mio sifone.
Diluito in un circuito nuovo, ma ancora forte abbastanza da negare la propria sorgente.

Giornata maniaca.
Un colpo d’ala e una ventola di progetti e di pensieri.
Ho dieci minuti di tempo per prepararmi.
Devo fare in fretta la piega e domare i lunghi capelli.
Mi guardo riflessa nella sfera di vetro, ciocche vermiglie da tutte le parti; il viso è nascosto, nemmeno uno spazio per qualche planata.

Specchio delle mie Brame, raccontami di una piumosa canaglia a posa d’albero, su di un’ara d’antistatico linoleum! Una scarmigliata gazza ben svestita, per l’ultimo grido regale.

Tu sei già arrivato, in anticipo. Rimani concavo ad aspettare in auto, con le ginocchia aperte e le dita nervose a torturare il cruscotto.
Riservato, presuntuoso; l’incarnazione di tutti i rampolli d’autorità che presiedono i freddi laici e clericali vertici della contrada, abbindolati nei loro imbiancati giudizi.
Stasera con me siederai al margine della liberazione, l’espressione radunata come un monumento a tutto o a nulla.

Nella fronda d’edera avvinta che contraddistingue il mio capo, il nodo della follia.
La pianta di Dioniso.
Ti guardo dalla finestra oscurata.
Hai la testa china posata sul lato del finestrino, la fronte aggrottata in un deliberato cipiglio.
Un circuito d’intelletto raccolto, che io ho circonciso con il mio nerbo dolce: lo staffile intricato all’aroma di zuccherosa liquirizia.
Sei lanciato alla conquista dell’ultima Dama barocca.
Io.

Davanti allo specchio al quadrato, la mia lingua gocciola come una vongola nervosa.
Lo smalto delle unghie è ridotto a rossa astrazione.
Già mi compiaccio attraverso la cornice bianca, quando i vermicelli attorcigliati sembrano ad un tratto germogliare in testa, spostando i follicoli ingegnosi.


… Tutto è iniziato con la caduta di un bigodino, magnetico.
Una dominata premonizione.
Nel protendermi a raccoglierlo, lui ha iniziato a stringere e serrare; lucido e rapido come luce boreale, mi ha propinato un’elettrolisi gaudente.
Costringendomi a ricalcolare l’acconciatura.

Così l’ho fatto, a modo mio.
Non con una pacchiana alchimia che anela a trasmutare i vili metalli in oro.

Bollata dalla croce instabile a cinque punte, ho srotolato ogni groviglio nel panteismo primitivo, aborrendo tutte le mere pratiche idolatriche.
Quelle mefistofeliche, che abbracciano l’albero e baciano la pietra.
Aggiogata dal torbido preludio, ho braccato l’angolo doppio oltre le colline tonde, denudate.
Aggrappata al tuo rigido compasso, di colore morello, mi sono posta ovunque, senza bisogno di piazzarmi dove tutte agognano, nel centro.

E’ tardi, devo fare in fretta.
Poso il mucchio di diavolini che tengo in mano.
Già pregusto la montagna di rocce sedimentarie e scisti filladici neri che mi aspettano.
L’ottuso gigante permeabile dalle spalle larghe, acquattato nel suo nascondiglio di Mesquites alla ricerca bramosa, attraverso moine e pantomime, di suscitare una soap opera senza puntata.

Per strategia beffarda ti accordo lo spartito, ma rimango a togliere rulli rossi e gialli, per buttarli nel gran contenitore.
Anche stavolta, con un’enorme spirale bicolore, digiunerò fino a quando l’ultimo morso spingerà la forza del fiato.
Per adempiere allo sforzo della caduta, nel suo cessare d’essere.

So già che la cena sarà sempre la solita.
Stesa con sintassi corretta ed esibita nel monogramma di un tovagliolo senza una piega.
Zuppa con panna montata a galla, e fettona di carne rossa.
Per dessert: mousse di gelatina molle vischiosa glacé, servita sulla solita foglia di adamitico fico.
Tutto bagnato da cerchi concentrici di vino nero, d’origine controllata e certa; garantita.

Ma nonostante la lacca delle congetture, i miei capelli non ne vogliono sapere.
Per fortuna il mio esistere ultimo-stile inizia a cantare, con la perla patinata nella gola che modella un tuono.
La mia tiroide sboccia, i boccoli ricadono a zampilli, come una fontana.
La chioma si ristabilisce.

Esco sulla strada.
La coda dell’occhio scorge in un lampo la rotazione.
Le nubi montate a neve, l’acquamarina della bassa marea in lontananza, le macchinine giocattolo, le miniature intinte a tirarsi le biglie invisibili, stolidamente attaccate le une alle altre ai paletti mediatici di recinzione.

Fa caldo.
La mia temperatura fisica vibrante è satura e piano si condensa.
Alzo gli occhi. Le stelle algide sono buttate a casaccio nel pavimento capovolto; sono scintille di un’altra vita.
Accovacciate e distese come stille di borace, tengono la scacchiera in equilibrio sulle mie aspirazioni.
Quel soldino tondo di luce piena è la pedina mancante.
Non la trovo da tempo.
Il desiderio ristretto s’incastra nella scatola dei cilindri cinesi.

Salgo in auto attenta a non scompigliarmi la chioma.
Mi scruti con i tuoi occhioni sbucciati d’uva di Malaga; come un gigantesco doccione di raccolta, un demone ansioso.
Tendo la mano all’ovale argenteo dello specchietto retrovisore, tardando a mostrare i denti puntellati a difesa contro la tua singolare trivialità.
Un punto focale zuppo di sudore irruvidito dalla foia dell’attesa.
Rapinoso esperanto di un altro emisfero che ci ha avvicinato.
Il buffet del Bene e del Male guarnito dalla tua coda di plastica gommata, in pergamena per noi, stasera.

Come si può dire addio alla stessa immortalità interpretata da questo azzardato e fornito menu?
La curva della pancia rintocca sonoramente.
Aggiunge lacci alle scarpe, gemelli ai polsi della camicia, fazzoletto nel taschino; ossia una falena in energica copulazione con un pipistrello.
Nel segno di una malinconia involutiva assicuro il rifugio antiatomico che preserva le farfalle, gli scroti e un marasma d’organi sconosciuti e ruscellanti.
Mi guardi sempre allo stesso modo, sciolto e liquido.
Brodo.

Il tuo rubinetto di mezzo perde gocce a non finire; una fontanella macchiata di parabole scure di ruggine.
Lo rovescio un mare di volte fino a che un residuo gassoso e pletorico non si omogeneizza.
Il membro rosa pallido fa capolino tra le pieghe del pensiero, listando con tracce di muco di lumaca tutto il sedile.

Che succede?
Non credi più al Paradiso?
Il verme racconta dell’eventualità della mela rossa cagionata dal fiore.
Che t’importa della vivisezione del nocciolo?

La tua raffica dialettica ricade subito floscia sul cruscotto, mentre appallottolo l’involucro di caramella alla menta e mi lecco il pollice.
Nella crocchiante carta cerata sfido il guscetto di plastica vuoto, a virgolette aperte, e sfodero con un sorriso a due piani le mie acuminate schegge di tigre.
La mia mano sfiora strisciando tra le pieghe labiali del portafoglio, e tocca lievemente con la schiena il volante.
Il clacson suona nella notte muggente.
Creature emerse a fatica dal caos del sonno s’affacciano alle finestre.
Sparisce il mio mazzo di fili di liquirizia e nello specchietto retrovisore mi rimiro.

Specchio delle mie Brame, ho ritrovato il bigodino!
Il mio tondino di luce di riserva. Il ricco bolo di gomma sofisticato, in forma fetale incolta.

Scendo dall’auto con il bocciolo in testa, avvinto nel groviglio di reticolato rosso.
M’inerpico con le mani, schermandomi gli occhi per tenerli in vista nella foresta di ceppi contorti e tolgo infine il cromatico congegno vintage, ripescato nell’intricato trofeo miscellaneo.
Rientro in casa a pettinare i filamenti strani, come spronati ossiuri, fomentati da uno spesso strato di cera.
Li aggiusto uno ad uno con il dito sergente, per seguirne la piega.
La coiffeuse che accudisce gli innominati e fronteggia i nemici oscuri.

La notte sta per finire.
Indosso una veste bianca e fluida, ornata da melograni rossi.

Eludendo tutti i sistemi, so bene che domani sarò introdotta pazza.
E chiamata in giudizio dalla Corte Suprema.

Come una marciatrice statica, imbastisco un certificato di sanità mentale, ossia l’antidoto capace a neutralizzare ogni falsa autorità in materia di opinione.
Per togliere il mordente, e il germe.

Si proceda con deliberata prontezza!
Io governo sotto il segno della rampicante edera, legittima seguace di Dionisio.
Il grano della Follia.

Io sono l’imputata a boccoli, l’ultima Dama barocca.
La ladra di bigodini!



© Greta Rossogeranio

 

   


 

 

   

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L'AMORE COSI'



L'AMORE COSI'  "LES FEUILLES  MORTES"



Ad ogni passo gli Amanti rischiano il vuoto.
Ondeggiano come acrobati su di un cavo sottile, senza avere la certezza della terra sotto i piedi.

Lei, negli inciampi in diacronia, ha smarrito l’equilibrio e vituperato la fatale consacrazione del fallimento.
La svestizione dell’Amore Primario nel cerimoniale disfatto e dormiente della Solitudine.

L’Autunno rimane nascosto dietro le fioriture d’eriche e crisantemi, le false primavere di glicini e rose a surrogare i passiti colori.
La terra giace sventrata dagli aratri e spogliata della sua chioma più bella.

L’Amore così.
In questo giorno d’ottobre avanzato, con le more riarse che ciondolano dai roveti avvizziti, come ombre di fantasmi ostinati di ciò che era ed ora non è più.
In fila i gerani stecchiti ostentano un aspetto anoressico; la materia cromatica rosseggia sulle spesse coltri d’aralie, svettando tra i mucchi di lamine spazzati dai buffi di tramontana.
Color del miele, ocra, brace e fango.

Les feuilles mortes.

Si respira l’aria tremula in una veduta obnubilata; le glabre propaggini richiamano la sindrome morbosa di una fine abrasiva imminente.
La scarmigliata bellezza della lontananza ideale, mi retrocede innanzi.

Mi fermo davanti alla sua casa, quella trasparenza imperfetta e prigioniera di colonne di luce al bagliore d’ambra, che infilza gloriosa gli interstizi sulfurei di un cielo ingombro di nuvole.
Il tormento raccapricciato nei rovi arruffati della memoria, è una solenne rappresentazione d’attesa.

Il posto è vetusto e fatiscente, un oracolo cieco di finestre occluse da viticci spogli e cuscini di viburno abbarbicati alle pareti.
Una breve rampa di scale diroccate conduce all’ingresso principale, esposto alle intemperie.
Comprendo che non sono più all’aria aperta ma ingoiata di dentro.

Ho ancora la chiave, apro la porta.
Un labirinto di polvere danza sull’unico raggio di sole infiltrato dall’uscio; ogni angolo è smussato e costretto da una trina di ragnatele cascanti, a guarnire una suppellettile e l’altra.
Un merletto geometrico che s’insinua dietro angoli, slarghi, lungo tramezzi oscuri di muri screpolati e conosciuti.
Lo spazio inglobato levita dentro di me; un travaglio subdolo che scombina in un disordine pericoloso.
La quiete spogliata dal silenzio.

Scivolo mimetizzata dentro passi ticchettanti di Donna, attraverso buchi guardiani che corrompono e mi fermano il respiro.
Non è l’assenza dei rumori che m’inquieta, che sfugge al mio controllo.
Eccola.
E’ Lei.

La figurina mediocre, rattrappita sul sofà di vimini di foggia antiquata.
Pupille chiare, fori galleggianti; una sensibile Creatura dagli occhi subacquei, sommersi e infelici.
Le mani bianche terminano con dita lunghe e affusolate, reggenti delle corde flebili, indistinte.

Dal suo sguardo il segreto non può essere svelato, né descritto.
L’intimo rimane nascosto sottopelle; chiuso, straordinariamente poco appariscente come la sua persona, come il volto.
Tiene tutto dentro, in questa camera vuota di confidenze e desideri schiacciati, ma non ammansiti.

E’ impazzita, da quando lui se n’è andato.
Bevendo, rubando, elemosinando attenzioni sempre troppo fugaci.


…Lo conobbe poco più che bambina, pubere, integra, come la madre l’aveva concepita.
Indossava una mutandina di colore rosa rannicchiata fra le natiche, ed esibiva il piccolo busto gracile in una fodera in scampoli di pizzo.
Lui la vide in un vespero velato come questo.
Ubriaco e fomentato da una fregola di carnale sevizia, la caricò sul mezzo.
Trine e prime mestruazioni insieme; tracce in rilievo per la mappa isometrica di un luogo vergine e sconosciuto.
Conficcò la propria virilità nell’innocenza e una volta che la ferita fu rimarginata, se la custodì in casa, insegnandole ad ubbidire ed a chiamarlo Padrone.

Apparentemente era gentile, le sue espressioni racchiudevano la malinconia di chi era stato addestrato e ordinato a prendere i sacramenti.
La testa rotonda e leccata, sembrava attorniata da una di quelle aureole assegnate ai famosi peccatori dei libri illustrati di catechismo.
Vegetariano di devozione, precettava ovunque: la carne, mai.

Fu così che iniziò il massacro e per sostegno, Lei si aggrappò a me…

“Sei venuta”.
Mi pare di udire piano nella muta terribile d’altra veste, la sedizione accoppiata ad un paio d’occhi vaghi, stagnanti e non lucenti.
Le barbe filanti di bagliori stanchi, ci spiano attraverso le persiane dei vetri.

Lei sprofonda sempre più nella poltrona, con il mozzicone spento al lato della bocca.
Le sue dita giocherellano con i lembi di corde molli, intricandoli incessantemente. Alcuni fili roridi sulle tempie accentuano quell’aria da inferma bastarda che permane nella piega morta delle labbra.

Mi guarda con un sorriso opaco e muove le spalle per farsi scivolare addosso il negligé eburneo in seta e d’impeccabile pizzo.
I seni rimangono scoperti.
Sono morbidi e pallidi; i capezzoli di un tenue rosa profondo con merlature verticillate di lampone.
Ha scostato un poco i reni e divaricato le cosce, per mostrare le insegne galliche della sua intimità, in un riposo tacito, mesto e contratto.

“Eccomi” si ode nel contempo.
Il mio corredo sensorio inizia a fluire in una torsione meditativa.

Lei continua a fare e disfare nodi.
I lacci in apparenza strettissimi, si sciolgono in un colpo tirandone il margine.
Una parodia di sicurezza; come le Parche, che intrecciavano i fili per riannodare e slegare i destini.

La cenere della sigaretta è sparsa sul tappeto.
Assolta nel contemplativo realizzo che la piccola fune leghi tutt’altro che aria vuota.
Il barlume dei pertugi la rende luccicante, come un intreccio di lega metallica a comandare l’approssimarsi dell’evento.

La Storia inizia qui, in questa stanza spoglia e disadorna.
Allungo il braccio e tocco le sue dita, portandomele alla bocca.
Io le ho calde.

Per quanto mi riguarda, tutto ha avuto inizio da una stretta e da quello che allora prendevo per mano.
E’ da quell’incavo che Lei è esistita, da lì il mondo l’ha creata e assecondata nel suo onnivoro fondamento.
Le falangi carezzevoli guidate verso i vestiboli acquosi che celano i miei bulbi umidi e stanchi.
Orbite sprofondate in profonde pozze di preghiera.

L’Amore così.
Resistito in tutti questi anni au pas de valse, in un’infatuazione arcadica, con le mani congiunte a recidere fiori.
Giravolte all’aria sulle sciabiche note di pungoli audaci, nella pascolante fluidità di qualche nota canzone.

Se dovessi chiedermi perché l’ha fatto, non saprei rispondere.
Forse, riesco a spiegarlo in un solo modo.
Io che ho tenuto le Sue carni strette alle mie e vi ho sentito le vene picchiare selvaggiamente, non sono potuta penetrare con abiti sterili solo per il piacere di avere vinto ed esserle resistita.

Il cerchio intorno ai nostri cuori non è mai stato stretto più di quanto avrei potuto sopportare.
Nessun cappio intorno ai colli, niente catene a vincolare i nostri polsi.
Così quel cavo si è allentato, lasciando corda a sufficienza per non ripararsi.

Corro fuori, rapita dalla spettrale alterità di un groppo impalato dentro il petto.
La prodigiosa coscienza che per serbare un Amore, occorre ogni volta saperlo perdere.

M’incammino verso il Mare, in uno di quei crepuscoli spugnosi dove va a sradicarsi la frusta del vento.
Una dopo l’altra, le falci delle siepi accartocciano milioni d’occhi e s’inchinano verso la terra.
Il mare allarga e si richiude su di me.
Rivoli d’acqua sbuffano a riva come gomitoli slegati e sciolti.
Il grande bacino liquido invita all’introspezione di un Autunno malato.

Lo stormire degli uccelli pare il fruscio di sottane in taffettà di donne in fuga, scappate per sempre.

L’anno si ripiega su se stesso, inzuppato d’umidore che sale lento dalle suole delle scarpe.
Ogni cosa sta per fermarsi, stupita.
Il freddo oramai si addensa in una promessa di ghiaccio.

La conserverò per sempre.
Intatta.

L’Amore così.
Reclina il capo e sposa l’Inverno.


© Greta Rossogeranio

      

PERCHE' UNA DONNA...

 

 

SCRIVERE

Scrivere tutto e in fretta, al punto di finire prima di cominciare. Non c’è il tempo di spiegare, di chiarire; non c’è spazio per la previsione ma solo per l’anticipazione del pensiero o dell’evento. Scrivere per effetto della folgorazione e del rinculo, come quello di un’arma.
Istantanea di un processo in via d’estinzione, perché è di quello che io scrivo.
Altrimenti non avrei nessuna ragione per farlo. 
Greta RG


“Desidero RINGRAZIARE chi mi ha invitato a far parte del proprio “Spazio Amici”.
Ho respinto gli agganci non per sgarberia, ma perché attribuisco all’AMICIZIA un valore esclusivo ed assoluto. Non ritengo giusto liquidarne il pregio con un semplice clik sulla tastiera, per finire tra le migliaia di faccine brulicanti come flora intestinale della rete.
L’esilio offre sempre una certa distanza, patetica e a volte drammatica,
ma propizia sempre il discernimento;
una serenità orfana del mondo.”
Greta RG

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RossoGeranio

 

Siamo pieni fino al collo di biberon dogmatici, di scolastica, di politica, alla ricerca di prove dell’esistenza di Dio, nostro organismo interiore e le sue confutazioni.
Hanno costruito ed eretto un sistema crudele e convenzionale sul simbolismo della Croce.
La religione che vive e vegeta nella seduta masochistica dove probabilmente,fatalmente, un giorno qualcuno avrà ragione. L’organizzazione militaristica dell’Impero mediatico e popolare ha avuto modo di diffondersi, nello strano miscuglio d’idolatria pagana e di buone intenzioni.
L’espansionismo dell’occidente e il colonialismo hanno assicurato nessuna Stella per i figli che sempre meno abbiamo.
E la Chiesa, appellata Madre Cappella, ha piu’ frequentemente agito come assassina, con cappio alle mani congiunte, in ogni parte del Mondo, in rituale preghiera.
L’emozione nella Ragione e il Delirio del misticismo sono le uniche rare possibilità per non perderci.
Sono facoltà dell’Anima, non di un sistema perfetto.
Pietre Piante Crateri minacciosi, sussistono nell’inconsistenza del Nulla. Da qui il presupposto che il metro umano misura l’intervallo a prescindere. Quel modo isolato e irriverente al quale sopravvive solo un insignificante Geranio Rosso.
Sì, l’Universo resisterà più a lungo di lui, ma la differenza non sarà tale da renderlo meno Unico.
RG

ANGELO O DEMONIO

Tra ellissi acrobatiche e suture evidenti, io scrivo l’intimo diario. Raccolgo qualsiasi filo possa servirmi a legare a me un corpo, adorato o agonizzante ed in movimento io agisco: inchiostro balsamico per armonizzare i miei principali avversari di sempre.
Il Sentimento e il Senso.
Perché qualsiasi debolezza abbia la mia ala nell’enigma del sogno, il dominio sull’energia rimane impresso nell’incarnato della materia e dello spirito, con un prisma di parole. Angelo o Demonio? Non lo so ancora; ogni aspetto che assumo è l’antro recondito del mio scrigno segreto.
Scelgo sempre io chi essere e non voglio restare là, fuori nel Mondo.
L’essenza primaria è non avere paura.
Nemmeno quando manderò il mio Protetto a prepararmi la strada ed avvertire le pietre fredde dell’arrivo, affinché sgretolino ogni incomprensione.
La via sarà questa: umanità o misericordia.
Adoratrice di un pezzo di ferro o di vetro, perché io ne sarò la semente.
Aborrendo il germe della materia che governa l’Angelo con il suo nitore ipocrita e asessuato, e il gemello Demonio, mera fiammata tentacolare di fatue inibizioni e miraggi di plastilina. Reduce da battaglie immense, ho significativamente mutato la percezione del mondo.
La mia conoscenza mi è necessaria perché io salga fino a trovare il punto su cui cadere.
La realtà precede la voce che la cerca, come l’universo precede l’umanità e come la materia precede il corpo.
Ogni linguaggio scritto è uno sforzo umano e per destino tutti torniamo a mani vuote.
Ma non io.
L’indicibile arriverà attraverso uno sguardo infiammato di desiderio e seguirà la mia sottana come una vittima destinata a desistere.
Ignorerà la mia caduta e mi abbraccerà con un sorriso aperto sul mondo.
Nell’atto massimo di eroismo e santità.
Nell’atto infimo di creatura diseroizzata.

Nessun Angelo
nessun Demonio.
Mi consegnerò con fiducia all’ignoto e potrò amare solo l’evidenza sconosciuta.
Estendendomi oltre la sensibilità,
 in un affresco di vita in lontananza.



Rossogeranio


Contatori visite gratuiti

 

I racconti pubblicati fanno parte della mia produzione letteraria e intellettuale e, ai sensi e per gli effetti dell'art.2575 e legge n. 633/1941 c.c., sono di PROPRIETA' RISERVATA –VIETATO L'UTILIZZO SENZA IL CONSENSO, L’USURPAZIONE DELLA PATERNITA’ DEI TESTI E' PERSEGUIBILE A NORMA DI LEGGE. GRETA ROSSOGERANIO

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Altre foto sono di mia proprietà, pertanto 
secondo l'art. 6 della legge 633/41  è vietato copiarle e riprodurle senza il mio consenso.  
RG


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