
Quante
volte abbiamo scritto su quel perimetro deliberatamente dimenticato
qual è il carcere, infinite volte ai silenzi assordanti sono
seguiti sofismi e editti che sono rimasti lettera morta. Grosse
fette della Società, delle Istituzioni, dei Governi, hanno speso
parole e intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere
rapporti di morti sopravvenute e di utopie tutte a venire:
nonostante le dimensioni di una disumanità ormai divenuta regola,
di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di
miserie umane così profondamente deliranti, senza più una
professione di fede, neppure quella della strada.
Il popolo della galera non ha più generazioni da consegnare alla
storia, quelle che in essa si sono imbattute, sono ormai annientate
e hanno portato con sé la rabbia, il furore, la follia.
Dell’utilità della pena, del ruolo sociale del carcere si parla per
scatti, per ripicche, se ne parla per non parlarne più, per levarci
dalle scatole un fastidio, non per rendere giustizia a chi è stato
offeso né a chi l'offesa l'ha recata. Se ne parla per rendere
nebulosa e poco chiara ogni analisi, se ne parla per nascondere
l'ingiustizia di una giustizia che tocca tutti.
Il detenuto non è un numero, né un oggetto ingombrante... Lo dice
il messaggio cristiano, dapprima, e quello di umanità ritrovata
poi, e invece la realtà che deborda da una prigione è riconducibile
all'umiliazione che produce il delitto, ogni delitto nella sua
inaccettabilità.
E' proprio questa irrazionalità che genera pericolose
disattenzioni, a tal punto da ritenere il recluso qualcosa di
lontano, estraneo, pericoloso per sempre, qualcosa di non ben
definito. Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di
noi stessi scivolati all'indietro.