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Mi descrivo

La incontrò e non la guardò un solo istante in volto, neppure l'aspetto od il vestito. Si persero gli occhi dentro a quelli di lei e volarono giù, nel profondo dell'anima. Lei si sentì invasa da quello sguardo caldo come un sorriso. D'istinto gli chiese: "Raccontami una storia...". Lui la prese per mano ed iniziò a narrare:-"C'era una volta un gatto, un coccodrillo e un gufo..." Lei gli si sedette accanto e il cuore e il tempo iniziarono a viaggiare....

Su di me

Situazione sentimentale

-

Lingue conosciute

-

I miei pregi

-

I miei difetti

-

Amo & Odio

Tre cose che amo

  1. C'era
  2. una
  3. Volta

Tre cose che odio

  1. Ora
  2. non c'è
  3. Più

Un Passo

"Forse tutto sta cambiando". Glielo sentì dire dentro il montare di un discorso che aveva colto solo a tratti, magari pure i meno essenziali. Ma quella frase, buttata lì come uno che dice "non ci sono più le mezze stagioni" o "una volta i treni si erano in orario", gliela accolse  nell'alveolo della sua attenzione.

"Forse tutto stava cambiando" se lo sentì colare dentro, aderire alla sua anima come una seconda pelle. Lei stava cambiando. come un serpente che fa la muta, usciva da quel torpore, da quella sensazione scomoda, fuori tempo. Da quel tempo. Come una farfalla diventa tale dopo esser stata pupa.

 

Le lancette dell’orologio si muovevano a velocità costante lungo il percorso d’una circonferenza, sempre quella, sempre la stessa, segnando tuttavia, attimo dopo attimo, che ogni istante era differente da quello successivo così come da quanto lo aveva preceduto.

 

Strano gioco quello del tempo, ad essere coerenti l’orologio avrebbe dovuto misurarlo il tempo su una linea continua da e verso l’infinito. Invece eccolo racchiuso dentro ad un cerchio, muoversi da lato a lato come l’aggirarsi di un leone dentro ad una gabbia. L’animale libero, braccato, in cerca di una via di fuga.

 

Potendolo forse il tempo sarebbe fuggito da quell’involucro e dal suo cinturino.

Perché il tempo è aquila, o forse germano, il tempo è animale rapace, è il falco, e tu sei la sua preda migliore.

 

Com’era Prato della Valle in quel momento, in quel giorno? Non lo sapeva, lo poteva immaginare pensando a quella Piazza in un attimo avulso dal tempo. Non in quell’ora e in quell’istante. Non poteva sapere chi la percorreva, chi ci sostava, chi, fra le statue o sopra un ponticello di quella roggia che la circondava, si stesse baciando.

 

La ricordò la prima volta che l’aveva vista diversa da ogni volta successiva. Diverse le persone, gli occhi, le emozioni, i baci raccolti e dati. Diverso l’angolo e la prospettiva, come quel giorno che si decise a guardar le statue con gli occhi  d’una bambina e allora via, attaccata la camera ad un cavalletto alzato un metro e venti, l’ottica normale, l’angolo della testa alzato sui 35  gradi ( o erano 40?) e via a coglier spazi e prospettive e sogni, e poi pensò, guardando quelle foto, che il fondo dello sguardo di un bambino, con quell’angolo di 35° (o forse 40, a ricordarlo non lo sapeva dire bene), lo sfondo non era un muro, o una strada o un albero, come avrebbe visto un “grande”. Lo sfondo era soltanto il cielo, l’occhio rivolto all’insù lo coglieva nitido, e forse era per questo che i bambini vedevano molto più lontano di ogni adulto e avevano gli occhi pieni di sogni, quegli stesso che poi da grandi cadono, ad uno ad uno, come lo sfondo di cielo che si trasforma in muri, in alberi, in case. Un linea d’orizzonte rasoterra.

 

Così le parve d’improvviso tutto il paesaggio attorno, le pareti, i mobili. Una linea continua rasoterra. Anche lui che da una sedia le parlava pareva d’improvviso esser diventato un punto invisibile sparso sopra il pavimento.

 

Tutto in quella casa sembrò d’improvviso insopportabilmente basso,  un universo melmoso, di sabbie mobili, invisibili capaci d’inghiottir tutto nell’arco del battere di ciglia.

 

Si sentì soffocare in quell’aria diventata spessa, stagnante.

 

“Forse tutto stava cambiando” colava sulla sua anima quel drappo di parole, invischiava ogni parte intima di lei come un limo. Tutto in un istante s’era fatto polveroso attorno. L’aria rovente come mischiata al Fohn.

Era tempo di cambiare. Davvero.

 

Si alzò che ancora lui parlava. Posò quel bicchiere che per tutto quel monologo aveva tenuto fra le mani, giocherellandoci e, senza un filo apparentemente logico, e senza avanzare alcuna ragione, lasciò la stanza, lasciò la casa. Semplicemente se ne andò. lasciando come scia, il suo umore di prima, la sua apatia. Dentro la macchina accese il motore, e subito dopo, il tergicristallo. Pioveva forte sulla strada, i fari illuminavano la pioggia. Accese la radio, una canzone di molti anni prima invase l'abitacolo. Non sapeva perchè ma quella solitudine improvvisa, cercata e quindi trovata dentro la sua automobile, su quella strada, quel crogiolarsi fra se e sè, le metteva allegria. Svuotò la mente, resettò la memoria di tutte quelle parole andate, come la pioggia sopra la carrozzeria e, a squarcia gola, incominciò a cantare, seguendo la musica che ancora l'accompagnava.

 

 

Una Strada

L’aria calda ed umida del pomeriggio afoso l’avvolgeva rendendola irrequieta.

Il ronzio del condizionatore affollava la stanza e lei in quella stanza chiusa con il cielo azzurro fuori dalla finestra ad urlare il pieno di quell’estate, si sentiva come una mosca curiosa dentro ad un barattolo di vetro.

-“No, se morte mi deve cogliere che sia d’afa piuttosto che d’asfissia in queste quattro mura”-.

Così decise risoluta ch’era tempo d’uscire.

In breve, in brevissimo tempo era seduta al volante della propria auto ed inserita la chiave nel quadro, aveva acceso il motore.

Una breve manovra servì a disbrigliarsi dall’angusto parcheggio. Il caldo non dava tregua ed una piccola goccia di sudore le imperlò il viso incuneandosi in quella ruga che s’era scoperta da qualche tempo –“d’espressione…”- s’era detta, quasi a cercar consolazione, quasi a limitarne l’impatto, a volerla contenere. Ma una ruga restava.

Ben presto fu sulla statale. Il poco traffico che incrociava non la disturbava. Scelse la sua andatura. Calma. Lo spettacolo del mare poco sotto, e della scogliera che ne limitava il margine, meritavano la sua attenzione.

Pochi bagnanti in quel tratto davvero scosceso. Sparuti gruppetti, radi, che avevano sfidato ogni legge di gravità discendendo lungo ripidi pendii, per ritrovarsi un piccolo slargo di pietra arroventata, isolata. Lì avevano disteso le proprie cose, poche quanto il piccolo spazio consentiva. Sembravano nidi di rapaci su rocce inespugnabili.

Come rapaci, ogni tanto, qualcuno sarebbe planato verso l’onda del mare, se non per cercare una preda almeno per ricavarne refrigerio nell’abbraccio dell’onda.

S’accorse solo in quel momento di cosa avesse preso dall’armadio per vestirsi. Nella foga dell’agire, in quella di uscire, l’aveva fatto quasi meccanicamente.

Osservò il lavoro svolto dal suo subconscio. Quel pantalone di lino le piaceva. Era comodo e fresco. Anche il sandalo non era male, le slanciava la caviglia. Ma quel che la colpì maggiormente fu la camicetta aderente portata direttamente sulla pelle.

il seno si sosteneva ancora benissimo da solo e di questo ne era intimamente orgogliosa. Felice. Benedisse quei suoi seni piccoli che da ragazzina tante volte avrebbe voluto cambiare, invidiando a certe amiche un decolté da quarta piena o da terza abbondante.

Sua madre non avrebbe mai approvato quella camicetta così maliziosa, pensò. Ma era da molto tempo che aveva smesso di ascoltare sua madre. Da quando un dottore un giorno le aveva estratto dal corpo  il suo potere di essere madre.

–“Una madre parla da madre, essere come lei vorrebbe dire assomigliare ad una madre, ed io madre non lo sarò mai….”- Che senso aveva ascoltare una madre per diventare come lei quando madre non lo sarebbe mai diventata ?

Erano pensieri che non la facevano più soffrire. Guardò la strada e poi, di sfuggita, ancora il suo seno che si disegnava sotto la stoffa leggera.

Portò lo sguardo al cielo, era d’un azzurro intenso che si fondeva col mare. Poi ancora la strada.

Meccanicamente slaccio un bottone della camicetta. Ora era davvero maliziosa. Guardò il suo seno fare capolino di sbieco. Lì avanti c’è una curva da fare. E dopo quella curva, di certo, ancora strada.

 Era l’ultima domenica di quell’agosto.

Pensò -“domani sarà settembre”- ma dentro di lei era ancora piena estate.

 

Parentesi in Volo

La mano di Giorgio premurosa aprì la porta del Bar, entrò dando uno sguardo fugace attorno e subito dietro lei, Elena, bellissima come un mattino d’estate, con un sorriso acceso in volto che illuminò d’un bagliore l’intera sala.

Se ne accorse persino il cameriere, il solito, che conosceva bene  Giorgio e per questo gli lanciò un cenno d’intesa, muto, uno strizzar d’occhio ed un breve ammiccamento verso di lei che voleva dire un tutto misto di ammirazione, compiacimento e approvazione.

Sono discorsi brevi, fra uomini, quelli sulle donne. Spesso quello che si vuol dire e ci si aspetta di sapere  si condensa tutto in uno sguardo, in un muover delle sopracciglia, in  uno schioccar di lingua.

Sono di poche parole gli uomini sulle donne. Forse perche non sanno cosa dire di loro, forse perché davvero non ne arrivano a cogliere il mistero o la natura, e si limitano a descriverle partendo dal contorno, dalla buccia, e non riescono mai  a penetrarne la polpa.

Ma son discorsi questi d’altrove, e non di questa storia dove gli sguardi fra Giorgio ed il cameriere di quel solito Bar avevano esaurito lo scambio del dare e del sapere.

Era la prima volta che Giorgio portava Elena nel “suo” locale, dove “il solito” era “il solito” e non aveva bisogno d’altre spiegazioni, anzi, a dirla tutta, a volte nemmeno d’esser detto, ordinato, chè il cameriere ormai abituato, lo precedeva con un gesto sicuro.

Era “solito” il tavolo, o tuttalpiù il bancone quando si trattava d’aspettare che il tavolo “solito” si liberasse di qualche avventore.

Giorgio l’aveva portata lì perché lì si sentiva al sicuro.

Strano modo di fare quello degli uomini con le donne. Anche quando queste li lasciano padroni del campo hanno bisogno di proteggersi, e Giorgio si proteggeva, da uomo, in quelle mura che lo conoscevano bene, dalle quali non poteva attendersi sorprese, verso le quali non doveva prestare alcuna attenzione. Solo così si sentiva certo di potersi dedicare interamente a lei, ad Elena, e non per una cortesia o il desiderio di potersi donare per intero, no, principalmente per il bisogno di capire quanto e come doversi difendere da lei, o dove e quando poterla colpire.

E’ una guerra alle volte, per un uomo, la conquista di una donna, fatta di agguati e di attese. No, a pensarci bene non è una guerra, piuttosto è una guerriglia.

Quella delle donne invece è una battaglia in campo aperto. Loro quando vogliono un uomo lo affrontano guardandolo in  viso , con un largo sorriso. Ed è proprio lì, sul campo aperto che l’uomo perde ogni suo potere, perde la capacità di reagire. E soccombe, spesso, persuaso d’esser lui il vincitore.

Il cameriere si avvicinò sorridendo e con fare amichevole si rivolse a Giorgio con un saluto, come se fosse quello  l’inizio della loro conversazione, come se quello scambio muto d’occhi e sorrisi e ammiccamenti, non fosse mai avvenuto. Gli uomini fingono, a volte, ma sono goffi li scopri al primo sguardo mentre lo fanno. Le donne quando fingono sono invisibili.

Elena finse di non vedere, di non avere visto, infondo era un bugia benevola ed anzi sorrise compiaciuta dentro di sé prendendo tutto quello che era avvenuto come un muto ma esplicito complimento. Si concentrò invece sul foglio che il Cameriere le aveva gentilmente offerto. Era la lista dei drink che lesse con molta attenzione per intero e che poi ripose sul tavolo guadando Giorgio con un sorriso. Era quello il segno del suo lasciare a lui la decisione, per alcuni il modo di adeguarsi ai gusti di lui, per altri invece la sfida a cogliere anche in quella piccola scelta, i suoi desideri. La prova con la quale lei lo avrebbe giudicato capace o meno di interpretare e soddisfare le sue attese, la sua capacità di coglierla dentro, di leggerla, di saperla compenetrare.

Giorgio la guardò in quel gesto e, rapido, decise che non era il caso di sfidare il destino allora, non con quella scelta, in quel momento.  Rispose al sorriso con un sorriso e poi, con tono calmo e sicuro, si rivolse al cameriere lanciando uno sguardo di soppiatto ad Elena:-“stasera lascio al tuo genio – disse al cameriere con tono confidenziale – l’arte di stupirci ed interpretare al meglio i nostri desideri”-

Elena sorrise di quella terza via che, con apparente tranquillità, Giorgio aveva deciso di intraprendere, schivando lo scontro aperto. Era una via di fuga elegante ed Elena, benché non amasse i pavidi, ammirava l’eleganza.  Restò in bilico se giudicare quella scelta più vigliacca o più elegante. Si risolse per la seconda opzione, e lo comunicò muta a Giorgio con uno sguardo di soppiatto misto fra il divertito ed il compiaciuto.

Giorgio si sentì sollevato, anzi si sentì un Campione. Pensò alle forme, a quante forme, il linguaggio fra due corpi assume e come può cambiare di forma in un solo attimo: la voce, i gesti, lo sguardo ed infine l’empatia, quello stato miracoloso del tempo e delle cose che tocca le persone, le sfiora e poi le invade. Nell’empatia Giorgio riusciva a compenetrare l’altra persona senza sfiorarla nemmeno. Riusciva ad essere l’altro, e dentro l’altro a vedere il mondo coni suoi occhi.

Così succedeva a volte per attimi.

Sorrise Giorgio pensando fra se all’empatia e si accorse proprio in quell’istante che anche quello che stava e stavano vivendo altro non era se non un attimo di quelli, dove tutto era perfetto, l’aria attorno immobile, nessuna voce, nessuna domanda solo un frusciare d’occhi  ed un loro fitto parlare.

Se lo domandò  Giorgio, ancora una volta, come sempre,:-“ qual è la durata di un attimo?”-

Forse la risposta, o una risposta delle possibili, era racchiusa in quello scambio d’occhi,  nel guardare Elena mentre lo  guardava.

L’attimo era forse il punto in cui la gioia si confondeva con il cielo e l’occhio s’allargava fino a contenere tutto il creato. L’attimo era il punto, che durava un attimo, in cui il prima ed il dopo sembrano raccolti fra parentesi invisibili. L’attimo era l’attimo in sé. Unico, solitario. Un istante, un fotogramma che a guardarlo in un continuo lo potevi staccare dalla restante parte del racconto e farlo diventare un racconto a sé.

E durava un attimo appena, o un’ora o un mese o un tempo indefinito. L’attimo era la discontinuità nel percorso della vita, quel non si sa cose che ti fa distogliere dal cammino abituale. L’attimo era la nascita, la morte, il primo bacio, un dolore grave. L’attimo era l’istante unico, senza il quale il prima ed il dopo potrebbero tranquillamente esistere ma senza il quale l’emozione non avrebbe potuto sperimentare in suo discontinuo.

L’attimo era il sonno della ragione, il suo momentaneo abbandono. L’attimo era l’immagine che il ricordo avrebbe mantenuto vivida nel tempo, appiccicata nel proprio album della memoria.

L’attimo allora, era la luce che illuminava Elena e quel sorriso che apertosi sul suo volto, illuminava la stanza. E non importava allora del prima o del dopo, del quanto o del dove, di quella storia che forse si sarebbe aperta, e magari col tempo (ma quanto? ma quando?) poi richiusa. L’attimo era quell’attimo di perfezione quando anche i pori della pelle si allargano ed il sangue pulsa dentro le tempie e attorno pare ci sia un caldo insopportabile e poi un quasi niente. E si sta bene e poi in ansia e poi ancora bene.

Frugò nella memoria alla ricerca di altri attimi e li trovò lì pronti ad aspettarlo. Non ne voleva fare un paragone. Gli attimi non si misurano in qualità ma in numero. Ogni attimo è importante anche se poi tutti sono differenti.

Vide la mano di Elena poggiata sopra il tavolo, la vide morbida, accogliente. La immaginò come di nuvola e lui per questo allungo la sua tenendo lo sguardo immerso negli occhi di lei.

Quando le dita sfiorarono la pelle colse quel timido calar di ciglia subito scalzato da un nuovo sorriso che voleva dire:-“avanti”-

Così, chiedendo un permesso muto, e ricevendone accesso allo stesso modo, Giorgio strinse un poco la mano di lei nella sua. E si sentì leggero, come se quella di Elena non fosse mano ma davvero nuvola, e lui con lei stesse volando

E forse la ragione del volo era proprio tutta in quell’attimo, a volerla vedere, a saperla cogliere. Si vola solo col cuore terso, e tutti gli uomini nascono per poter volare ma poi le zavorre del cuore tengono i piedi piantati a terra, ed è per questo, forse, che negli stati magici dell’amore, quando il cuore perde tutto il suo peso, si torna a sentirsi in alto, si torna ad essere capaci di volare.

 

Mad World

Senti la sveglia suonare, forte, un trillo acuto, fuori luogo in quel silenzio del primo mattino. Disturbante. Eppure lei lo riteneva necessario temendo per un qualche motivo di non svegliarsi mai a tempo anche se non le capitava mai. Spesso, per non dire sempre, si svegliava anzi prima del tempo. Avrebbe avuto anzi modo di staccarla ma la lasciava sempre suonare. Pensava che ogni cosa avesse il proprio ruolo da svolgere e che forse, anzi no, certamente, la sveglia che non avesse compiere il proprio dovere si sarebbe sentita inutile. Rifiutata. Non la voleva turbare ed aspettava quindi quel trillo lancinante dentro al buio per smorzarlo subito dopo. Anche oggi la sveglia si sarebbe sentita utile e lei poteva alzarsi.

Inforcò gli occhiali che l’attendevano sul comodino. Con la vestaglia semiaperta si recò verso il bagno. L’attendeva come ogni mattina la stesa sequenza, le stesse cose nello stesso preciso, metodico ordine. Un fluire ordinato che le faceva sembrare scontato ogni gesto, il precedente legato al successivo.

Nemmeno il gusto del collutorio e quello del dentifricio cambiavano ormai da anni. I soliti.

Le sue scelte erano così. Definitive ma non casuali, anzi. Amava provare e riprovare prima di decidersi poi, dopo aver deciso la migliore ci si affezionava. Era così la salsa del pomodoro, l’acqua minerale, la scatola di tonno e quindi anche dentifricio e collutorio. Così era per il sapone, lo yogurt o il latte. Il risultato di una selezione a volte lunga altre più rapida.

L’emisfero destro del suo cervello analizzava, elaborava ogni dato e possibile informazione. Caratteristiche, composizione, prezzo e poi tracciata una solida riga, via a sommare tutti gli addendi fino a produrre un risultato.

Versò l’orzo nella tazza del latte fumante. Un cucchiaio esatto ed iniziò a mescolare. Seguire un ordine prestabilito e schematizzato nelle cose le permetteva di lasciar libera la mente di vagare.

Nulla più di una rigida ed ordinata successione senza alcuna richiesta di attenzione le garantiva la possibilità di fuga con i propri pensieri. A volte sceglieva una direzione che poteva essere un fatto accaduto il giorno prima o solo sentito raccontare altre una libera fuga, un lanciar di dadi per trovare una direzione. A volte era un possibile viaggio, una meta a lungo desiderata, altre una persona conosciuta, o una canzone. O qualsiasi cosa la sua mente avrebbe mai potuto architettare per svolgersi dentro ad un pensiero e vagare.

Il contrasto fa quello svolgimento metodico delle cose e la libertà ampia lasciare ai suoi pensieri era solo apparente. In realtà quelle cose piccole, quei rituali del mattino come il lavarsi, il pettinarsi il vestirsi, non la interessavano. Non erano quelli lo scopo di quel nuovo giorno che si rinnovava continuamente.

Si domandava spesso  anzi, quali fosse lo scopo di quella sua vita scandita dal trillo acuto della sveglia ogni mattina e dal succedersi quasi meccanico di una serie infinita di piccole azioni che si distaccavano sempre più da quella che sapeva essere la sua essenza totalmente diversa.

La ricercava in quelle fughe del pensiero la sua vita come veramente avrebbe voluto viverla. Fantasticava in uno scontro perenne fra fantasia e la realtà. Lei si sentiva l’anima vagante in una mare di possibilità mentre la concretezza della sua giornata era il susseguirsi sempre uguale, monotono, di una serie di azioni che aveva sempre più meccanizzato per renderle automatiche e lasciarla sempre più libera nel suo pensiero.. Aumentando sempre più la distanza con il suo sé.

Si ricordava talvolta di una sua lontana insegnate che portava uno spesso paio di occhiali, tanto spesso da allontanare moltissimo i suoi occhi che parevano lontani lontani dietro quello spesso strato di vetro . Se gli occhi davvero erano la porta dell’anima allora voleva dire che quelle lenti allontanavano molto quell’ingresso.  Rimaneva il volto quasi per intero. Un volto senza occhi, no, con gli occhi disassati rispetto alle gote, alla bocca, al naso. A qualsiasi parte di quel viso che non fosse posto dietro alle lenti. E lei stessa talvolta si sentiva così, presente in tutto ma con la sua anima messa in un altro piano.

A quel pensiero, quando le sovveniva, sgorgava a volte una lacrima. Solitudine qualcuno l’avrebbe chiamata. Fame di tempo avrebbe detto lei. Sentiva che il suo stava avanzando verso l’inevitabile finale, quello che coglie ciascuno al terminare del proprio ciclo vitale. Qual era stato il suo scopo? Quale il suo compimento?. Inzuppò senza voglia, senza desiderio, una fetta biscottata dentro la tazza e la portò poi alla bocca. Il sapore, il solito, le si sciolse in bocca senza alcun piacere. Senza nessun desiderio.

Nessuna curiosità destava il prossimo morso certa che non l’avrebbe accolta nessuna sorpresa.

Cos’aveva dunque sbagliato in quella sua vita? Erano stati gli amori sfioriti dentro a pagine ormai consunte e lasciate a rinsecchire come rose dentro ai libri della sua libreria? Poteva essere che qualcuna fra quelle storie andate avrebbe potuto avere uno svolgimento differente ed un diverso finale? Avrebbe potuto mai essere che lei, proprio lei, capace di calcolare ogni minuto comportamento, di valutare le azioni e le loro reazioni s’era dunque sbagliata nel tirare una qualche somma o nel leggere un possibile risultato?

Poteva davvero essere che il suo fiuto considerato infallibile fosse stato una volta almeno fallace, che avesse mancato il centro facendole cambiare il corso di una intera esistenza? Esitò di fronte a quella possibilità. Sliding dooors. Tutto sarebbe stato scritto in un modo differente allora se solo avesse calcolato in un differente giudizio l’esito di una possibile relazione di quel suo passato che ora considerava remoto?

Cosa sarebbe successo se avesse trasformato in virgola uno di quei suoi punto e a capo?

Pensò alle sue storie come ad una pagina di un libro. Tutte le parole necessarie stese sopra un foglio ed alla fine di ogni periodo il punto e via, un nuovo capitolo.

Su quale riga avrebbe potuto o forse dovuto mettere quella virgola? Sorrise. Il suo passato era dietro le spalle ed il profumo di rimpianto non riusciva mai ad inebriarla.

Quello che è andato era stato. Tutto ben piantato dietro alle sue spalle. Aveva già ripensato in altri tempi a tutti quei nomi scandagliando una per una le ragioni di ogni inizio ed ancor di più di ogni fine. Quell’alito di dubbio era un venticello fattosi ormai brezza. Un gioco della mente quando voleva divagare tentando di farla inciampare in un tentennamento. Ma non sarebbe riuscita a farla vacillare.

Si ricordò di un prato, un grande prato che aveva attraversato in un giorno di primavera molti, molti anni prima. Dapprima le sembrò strano immergersi nell’erba alta. Ebbe quasi paura immaginando tutti quegli insetti che avrebbe potuto incontrare o magari anche qualche biscia che nella verzura si fosse avventurata a godersi quel sole improvviso. Ma tutto lì attorno era pace. Il vento carezzava leggero la sua pelle e le corolle dei fiori che ondeggiavano lievemente. Nemmeno loro vacillarono allora ma danzarono col vento assecondandone il ritmo e la direzione.

Anche lei si sentì corolla che giocava col vento dei suoi pensieri ondeggiando secondo il suo verso.

Pazza vita e pazzo mondo. Pazze quelle vie naturali di fuga in cui si rifugiava con la mente.

Guardò la tazza che ancora aveva fra le mani. Guardò il suo riflesso sulla superficie della latte ed orzo. Pareva un’ombra  indistinta dove solo il contorno era netto. Si pensò così se vista dagli altri. Invisibile se non nella forma apparente. I suoi tratti minuti, tutto quelle che era dentro di sé, era invece celato agli occhi di tutti. “Forse della maggioranza” – si concedette una possibilità. Forse lì fuori dietro ad un’immagine che sarebbe apparsa ombra, un semplice contorno, alla maggioranza di persone c’era davvero qualcuno che avrebbe saputo vedere il suo contenuto mostrandosi a lei allo stesso modo.

Anche quello a suo modo era un fantasticare. Ma col cuore. Anche quello infondo era vento leggero che la cullava come una corolla.

Si sorrise col pensiero e sottovoce intonò l’esclamazione che l’aveva avvinta in quel mattino: “Pazza vita. Pazzo mondo”.

Trattenne il respiro come accade prima di un tuffo anticipando il freddo dell’acqua su tutta la pelle. Com’era quella sensazione? Toglieva il fiato e rimandava tutto l’organismo in una condizione di apnea profonda dove tutte le cellule smettevano per un istante di respirare chiudendosi per cercar di trattenere un poco di quel calore che la sferzata dell’onda voleva portarsi via.

Fu tutto un attimo, un instante infinitesimale. Poi, come accade nel mare, il corpo ritrovò il suo pieno equilibrio.

Lei era lì, la sua tazza pure. Ma di fronte aveva una nuova opportunità. Ripartire da lei per quella giornata e per ogni giorno a venire. Prese la tazza e con un sorriso gettò tutto il contenuto dentro al lavandino. Aprì il frigo con intenzione lasciando alle proprie spalle ogni meccanica successione, prese due uova dal contenitore e canticchiando le ruppe cuocendosele dentro ad una padella.  -”Colazione all’americana”- si disse. Era la prima volta che la provava ma non sarebbe stata l’ultima. O forse no. Chissà. Vide per la prima volta davanti a sé un mare di opportunità e, trattenendo il respiro per un attimo, ci si buttò piena di entusiasmo.

Fotografie

Aprì quel vecchio album di fotografie che s’era ritrovata come per caso, se qualcuno avesse mai voluto credere che esistesse per davvero un caso, dentro ad un armadio, nell’angolo in fondo, quell’angolo buio dietro ad infinite cose che sono sempre più urgenti, necessarie e che si accavallano proprio di fronte alla porta quando si apre.

Sono gli angoli bui, a volte, quelli che nella vita ci ritagliamo dove abbandoniamo, se mai davvero si riesce ad abbandonare qualcosa, che ci riservano le sorprese ei ricordi.

Aprì la copertina spessa in finta pelle losangata marroncina. “Un gusto improponibile”, pensò. E già in quella scelta di allora misurò la distanza fra quella che era diventata e quella che era stata.

Dieci stampe, tutte di fila, di quelle che si facevano allora col rullino da dodici pose che si prendeva quando c’era urgenza di stampare il risultato impresso sulla pellicola o semplicemente, quando c’erano pochi soldi o poche cose che si pensava si dovessero fotografare.

Dieci stampe. Chissà dov’erano le ultime due? Pensò. Forse riuscite male o forse nemmeno mai scattate. Immagini buie o mosse, o troppo chiare. Immagini sbagliate come infondo era sbagliata quella storia che le altre dieci le riportavano alla memoria.

Sbagliata in modo differente.

Con la mente a metà fra il gusto del paradosso e quello dell’introspezione si scoprì a riflettere che forse proprio quelle due  mancanti avevano davvero capito il senso di quel che avrebbero dovuto riprendere, rifiutandosi di immortalarlo. “Forse, pensò, forse…fra dieci immagini di una storia sbagliata e due sbagliate che non hanno voluto ricordarla, le uniche giuste erano proprio quelle due che avevan capito fin da subito di doverla nascondere, cancellare”.

Si concentrò sul suo viso. La pelle più liscia, quel taglio di capelli abbandonato da non ricordava più nemmeno  quanto. La luce degli occhi la colpì turbandola un poco e poi facendo sciogliere quella sensazione in un sorriso. Erano i suoi occhi di allora, brillanti e pieni di speranza per il futuro, quel futuro tutta da scrivere ancora e che soltanto oggi, con tante pagine ormai passate, le aveva narrato una storia che in quel momento poteva solo immaginare, anzi romanzare.

Perché le storie prima di scriverle o di farsele raccontare o finanche prima di leggerle nel loro svolgimento, ce le immaginiamo. Ecco, quelli erano gli occhi pieni di immaginazione, di quei toni chiari, azzurri e d’oro, che regalano le fiabe. Solo il tempo trasforma la fiaba in un romanzo ed incupisce i colori e sfuma le attese.

I suoi occhi non avevano mai saputo mascherare la sua anima e nemmeno i suoi pensieri. E nemmeno poi, e nemmeno in quel momento. Bastava guardarla con un minimo di attenzione e subito attraverso la pupilla e l’iride, si scopriva la via maestra che conduceva alla sua anima, ai suoi pensieri reconditi.

“Maledetta trasparenza!! – pensò. Ma intanto ne sorrideva. Alla fine se pure i suoi occhi erano trasparenti e conducevano senza indugio o velo alla sua anima, contava sulla distrazione degli astanti, di chi la vedeva, che solo raramente aveva varcato la soglia fra il vedere ed il guardare. Che solo in pochissime occasioni s’era davvero accorto  del cammino sgombro che quel suo sguardo lasciava verso la sua anima.

In un mondo così disattento, distratto, in un mondo affollato di sguardi che vagavano nel vuoto, senza un punto veramente da indagare, in un mondo cieco alle pieghe dell’anima, un’anima in mostra era un’anima trasparente, quindi invisibile. Nessuno si curava veramente del suo esistere del suo essere manifesta.

Il quel mondo in cui tutto sembrava essere scoperto, indagato da infiniti strumenti, dalla camera del cellulare alle videocamere di sorveglianza che riprendevano chiunque un po’ dovunque, quella somma di immagini appariva un fondo melmoso, impenetrabile. Una continua successione di gente che mai, o quasi,  diventavano persone. Contorni incerti, figure che si sovrapponevano o apparivano in gruppi. Nessuno di loro pareva voler ritagliare il proprio profilo per distaccarsi dal gruppo o, per meglio dire, tutti si sforzavano di apparire unici conformandosi però ora a questo ora a quel modello. A volte era un vestito, altre un paio di occhiali, di scarpe, il telefono cellulare. Tutti assomigliavano a qualcosa di già visto. Tutti, o quasi, affaccendati nel progettare il proprio individuale progredire, il prossimo passo,  prendendo ispirazione da qualcun altro. Il viaggio già fatto dall’amica, il ristorante di cui tanti parlavano bene, il vestito preso dall’articolo di moda. Un susseguirsi di ritagli che si ammassavano costruendo persone apparentemente differenti che nascevano dalla combinazione incessante di pochi, soliti, elementi base.

Vista da quel punto di vista che avrebbe potuto chiamare “buco”, quel che si vedeva di fuori era come il risultato che si poteva comporre dentro ad un caleidoscopio dove la quantità di immagini percepite dipendeva principalmente dal numero di specchi inseriti dentro alla sua struttura.

“Dieci foto – pensò - quante le dita delle mani”. Se le guardò poi strinse i pugni. Quello era il ricordo di quella storia, il suo peso. Nulla. Aprì le mani e vide scivolare via quel niente.  Almeno così le parve.

 

Toccò la carta. Quella si aveva un peso ed una sua consistenza. Aveva una forma, occupava una superficie. Avesse staccato quelle dieci immagini dall’album avvicinandole sopra al tavolo ne avrebbe coperto una bella porzione. Dieci foto stampate nel formato dieci per quindici centimetri. Avrebbero occupato un metro  per quindici centimetri. Millecinquecento centimetri quadrati. “Non poco” si scoprì a pensare

Se tutta l’area del mondo, della vita, fosse stata come quella del suo tavolo ne avrebbero coperto una grande porzione.

 

Ma la sua vita era oltre, la immaginava grande come tutta la stanza e poi forse anche come il caseggiato ed il quartiere. Grande come l’intera città. Tutta la provincia forse. La regione, lo Stato, il continente. Tutta l’area del globo terrestre.

 

L’area di quelle dieci foto era una misura relativa. Il loro spazio dipendeva dalla quantità di vita vissuta.

 

Ripensò ai giorni ormai trascorsi, almeno a quelli più significativi. Erano stati tanti. Non avrebbero coperto certo il mondo intero ma una buona porzione di quella città sicuramente. Dieci foto erano allora un piccolo spazio. Magari non trascurabile ma dimenticabile. Una storia sbagliata da accatastare assieme ad altre che si erano succedute anche senza nessuna pellicola ad impressionarla per renderla un ricordo più tangibile.    

 

Guardò di nuovo la copertina dell’album passando l’indice nelle intersezioni della finta pelle stampata che formavano le losanghe di quel decoro. “Quelle erano strade” pensò. Parallele l’una all’altra, incapaci di incontrarsi se viste tutte nella stessa direzione, eppure tutte in collegamento l’una con l’altra nel momento in cui in qualche angolo, si impara a svoltare a destra oppure a sinistra.  La vita se presa come fosse una retta, passando da un bordo ad un altro, era un percorso brevissimo. Solo le svolte lo potevano prolungare. E quelle svolte erano stati i suoi cambi repentini, a volte erano stati errori, altre opportunità. Il suo percorso dietro alle spalle era stato un muoversi continuo per tratti retti ed altri perpendicolari. A volte era stato un avanzare altro un tornare indietro ma in ogni modo era stato un allungamento continuo del suo cammino.  La superficie di quella copertina misurava forse trenta per quaranta centimetri ma nelle continue svolte, nell’intersecarsi delle linee si potevano percorrere decine e decine di metri. Quella era stata lei. Un groviglio di strade che a misurarle sarebbero diventate chilometri tutte raggomitolate in quel pugno di anni che era il suo tempo trascorso. La sua Vita. La ringraziò mentalmente con un sorriso, si, anche di tutti i suoi sbagli, delle occasioni capitate e perse, di quelle che era riuscita invece ad afferrare. La ringraziò di quel suo girovagare a volte confuso altre più determinato. Il suo percorso non era stato una retta, l’area su cui aveva vissuto era abbastanza grande. Quella storia sbagliata era solo una frazione quasi trascurabile, come infondo, molti dei suoi errori. Respirò profondamente. Era passata da tutto quello ed era ancora viva. Guardò un punto lontano di quelli che, uniti, disegnano l’orizzonte. Era quella la sua nuova svolta., la sua direzione. Domani verso quel punto,  avrebbe fatto il prossimo passo.

La Gatta

Correvano le dita sopra la tastiera del computer in quella luminosa mattina di tarda primavera. Ad ogni tocco si staccava una lettera dall’albero delle sue storie nuove, o forse dallo stesso da cui ne aveva già colte parecchie. Le sue storie, la sua stessa vita. La gatta in un angolo della casa, sorniona, poltriva sul suo cuscino preferito.

La guardò con un moto d’invidia mista ad amore. Avrebbe voluto esser “quella” gatta in quello stesso momento. Staccare con la testa e via, a dormire i sonni attesi, quelli pieni di sogni di ragazza o forse di bambina. Quelli in cui tutto è ancora puro, cristallino, intatto. Il tempo invece l’aveva trasformata in gatta quello si, ma solo per la sua naturale diffidenza o ritrosia nel concedersi pienamente. Uno strusciar di gamba e via, lungo la linea della sua vita, quella stessa linea che a volte le pareva più che altro un cornicione o la balaustra di qualche balcone quelle che, come i gatti, percorreva sempre al limite del burrone.

La lavatrice, poco lontana, scandiva il tempo del suo lavaggio. Ancora un centrifuga ed avrebbe potuto stenderlo. Ancora il tempo di un periodo allora, una manciata di parole.

Scrivere l’annoiava quasi era come un gesto consumato dove si consumava, appunto, il suo rincorrersi di attimi, frazioni di istanti. Momenti lunghi quanto il batter d’ali d’una farfalla.

Un tempo era stata farfalla anche lei, si, magari con le ali di lana. Poi, il tempo, l’aveva trasformata in falena, sempre alla ricerca di una luce che la potesse illuminare per un istante, ed in ogni istante dopo s’era schiantata, da falena, su una lampada o in cero o un lume, scoprendo quanto sia vuoto il vuoto dentro ad ogni luce apparente.

Ancora le dita a scorrere sui tasti, ancora un altro morso della sua anima buttato su quel foglio che appariva dentro al monitor. Un altro attimo di lei a cristallizzare, come un coriandolo che si sarebbe sparso nell’aria di lì a poco, cadendo quasi senza far rumore a costruire un angolo del suo passato.

Si sentì strana in quel pensiero. Mentre tutto procedeva verso il tempo a venire lei, in ogni momento, si sentiva come quella che costruiva, in divenire, solo attimi che avrebbe trascorso solo per ricordare.

“Io sono stata”-pensò di sé. Si la vita le scorreva addosso in ogni istante, il suo presente era lì, tangibile, come la sua gatta, come il suo bucato, come il morso che avrebbe dato alla sua pizza seduta al tavolo con i suoi amici, o quelli che chiamava tali. Lei sarebbe stata lì in ogni fotogramma di quel filmato. Lei o una sua parte, una delle mille e mille che ben riconosceva e che chiamava, ognuna con il suo nome diverso.

“Io sono stata” se lo sentì forte spandersi sul palato quel frusciar di lettere che non aveva scritto ma che pure sentiva emergere da dentro di sé come la più impellente delle verità.

Lai, il suo presente immobile fatto di aria lattiginosa e aghi, a volte, graffi sopra la pelle. Passò l’indice destro sopra le vene dei suoi polsi. Ruscelli azzurrini. Ne immaginò il sangue scorrere copioso dentro. Ne carezzò il percorso immaginando, ‘un tratto, di poterne deviare il flusso e di coglierne lo spettacolo della sua emorragia. Era lì la vita? L’avrebbe davvero vista, per una volta, in faccia la sua vita? A quel modo? A quel prezzo?

“Io sono stata”. Rovistò mentalmente nei sussulti e fremiti che aveva provato e generato. Io sono stata”. Era tutto diverso, ogni volta un passo, o sembrava soltanto un passo- “Io sono stata”. Che non si vive poi, che una volta soltanto. E non seppe se questa frase fosse più minaccia o liberazione.

“Che peso è la vita quando non si sa dove condurla?”. Il cestello della lavatrice roteava vorticoso. Guardò dentro l’oblò i panni multicolore mescolarsi in un vortice sempre più rapido. Abbracciati, mescolati. Promiscui.

Quella era lei, il suo passato, i suoi pensieri. Una brace, un cespuglio di rovi, una fiumana informe, policroma, eppur nettata di ogni lordura. Quella era lei. Lei la gatta sopra il cornicione o la grondaia e la sua vita li di sotto come le auto assordanti che sfuggivano sul nastro asfaltato secondo i ritmi d’un semaforo che, alla fine, era regolato solo dalla sua attenzione, dal battito del suo cuore, a volte, dalla sua noia. Dalla semplice paura di perdersi o di perdere il simulacro di quella libertà.

Quella era lei, il suo bucato steso e la voglia di quel profumo di nuovo.

Quella era lei, mescolata dentro a quel pugno di parole sparse che la tingevano a volte santa a volte troia, con i colori che si mescolavano e lasciavano nette solo le ombre nella luce abbagliante del mezzogiorno.

Quella era lei, o almeno una sua parte, anch’essa con sopra il suo nome, un nome che le aveva già dato ma che, a pensarci bene, forse poteva cambiare ancora.

 

 

 

Niente Più è Come Prima

Capitò.

Capitò in quella notte in cui il vento chiamato Scirocco alitava ansante tutt'attorno, avvolgendo ogni cosa come una coperta di lana calda in piena estate, ansimando umido, come il fiato d'un amante all'apice dei suoi giochi amorosi.

Capitò in quella notte che la luna forse stanca, s'era decisa di non risvegliarsi mostrando nell'alto del cielo infinito, sottile come un filo interdentale,solamente il limitare estremo del suo periplo sinistro.

Capitò in quel mentre che migliaia di stelle impazzite, non ritrovando più la luna compagna e madre, eran scese tutte per strada e vagavano in sciami senza meta apparente. Alcune correvano fra loro, altre passeggiavano, talune, infine, sostavano parlandosi alla ricerca d'un mutuo conforto.

In quella notte in cui il caos sembrava regnare e l'afa prendere il sopravvento, in quella notte indicibile e strana, capitò. Capitò che il limitare estremo, la linea d'orizzonte del Mar d'Oriente, riuscisse, in quel cosmico mutare di spazio e d'occasione, a fondersi col più lontano limite del cielo d'Occidente.

Voi lo capite bene che un simile abbraccio non è di tutti i giorno, anzi, a rigor della logica che quella notte comunque dormiva al pari della luna, è solo dell'ultimo dei giorni.

Capitò così un po' caso e un po' per desiderio di quegli opposti che pur sfuggendosi, al limite s'attraggono.
Capitò così il più strano degli abbracci dal primo dì che fu creato.

Capitò.

Fu lo sciabordio dell'onda che per prima s'innalzò verso il limitar del cielo che un po' per timor del mare, un po' per vezzo, sembrò ritrarsi appena.

Mare d'Oriente e d'alba, abituato a veder il principiar d'ogni giorno e quindi delle cose.

Cielo d'Occidente. Rosso di tramonti infuocati come le gote d'una femmina nel mezzo della sua passione.

Quieto il primo che sa diventar tempesta, limpida linea d'orizzonte la seconda, che può turbarsi di nubi e velarsi fin quasi a sparire.

Con timida onda il mare offrì le braccia al cielo che, a poco a poco, le accolse. Lì nell'oscurità più totale splendeva la luce dell'abbraccio dei due limiti opposti.

-"Più su, più su !"- chiedeva il cielo ed agitava con zefiri gentili la crosta di quel mar che s'increspava in cavalloni sempre più alti ad insidiar quell'azzurro fattosi rosso fuoco.

-"più su, più su"- invocava il mare spingendo oltre il limite le sue onde. E fu così che finalmente, con quella più alta, mar d'Oriente riuscì ad arrivare al cielo sfiorandone gli occhi di tutto il creato. Fu così che l'avvolse e come una carezza di fronte al volto le impedì la vista, per un attimo. Per un istante anche il cielo fu senza volto e senza occhi. Per un istante solamente.

Ricadde l'onda e la carezza si spense nel più profondo del mare.

-"Niente più è come prima"- disse l'immensità marina alla volta che la sovrastava.

Ed anche la volta comprese tanto da richiamar due nubi a mascherarla appena, turbata da quella carezza tanto profonda ed audace.

Ma fu il rossore d'un istante. Volta si distese a ricoprire il mare col suo manto ormai fattosi scuro.

E fu in quell'istante, in quel preciso istante che un pezzetto di Lei si sciolse in quella sconfinata distesa d'acqua diventata d'improvviso pianura.

Fu in quell'istante che un pezzetto di cielo si sciolse in mare. E fu il mare a turbarsi assaggiandone il sapore. Come di sale. E lì pensò, per la prima volta pensò, che per quanto distanti, due opposti finiscono magicamente per assomigliarsi.

 

 

Per Nome ebbe il Suo Tempo

Si domandò in quale posto lo avesse imparato, su quale libro letto o soltanto in quale storia trovata la  traccia. “I nomi cambiano a seconda  di come le cose venivano guardate”.

Era quello il succo di una filosofia che per quanto assurda e paradossale, l’aveva colpito , dapprima distrattamente, come quando si passa davanti ad un qualche cosa e quella stessa cosa, per un indecifrabile motivo, che la logica non coglie, ti attrae strappandoti un sorriso.

Poi s’accorse che col passare del tempo, quell’idea si stava impadronendo di lui e lui di quelle parole. Era il periodo della compenetrazione. Come quando due corpi s’attraggono magicamente e poi finiscono col fondersi.

 

Si mostrò un esempio, se lo costruì per bene. “E’ come – disse – quando incontri una sconosciuta e a quel punto, in quel primo punto, la puoi chiamare solamente “donna” o “essere umano”, mentre lei ha invece tutta una sua esistenza già ben delineata. I suoi contorni sono netti, così come il suoi passato già costruito e i desideri e i sogni, quel suo essere individuo, anzi, forma individuale.

 

Basta un attimo, la presentazione nella frazione di secondo, e “quell’essere umano” o “quella donna” svela il suo nome proprio avuto in dono e forse anche il suo cognome.

Allora quell’entità fata e formata assume un uovo segno. Era “quella donna” o un “essere umano” e diventa “Paola, Assunta, Deborah, Cristina….”

 

Ora provate ad immaginarvi un minimo di confidenza in più e questa vi svelerà magari il suo diminutivo o vezzeggiativo, o come la chiamano gli amici.

 

Se poi a tutto questo s’aggiungesse lo sbocciar della confidenza ed il lambir’una passione o forse dell’amore, allora scoprireste che quella medesima “donna” assumerebbe infinite varianti di nominazione e sarebbe diventata santa, puttana, moglie, amante, amore e avrebbe assunto l’infinita varianza di nomi a seconda dell’attimo.

 

Infine, se l’amore v’avesse abbandonato eccola diventar di nuovo altro nell’affogar lento dei ricordi, a volte del rancore, altre del rimpianto.

 

Era come se guardando uno stesso diamante da diverse angolazioni ogni faccia possedesse incisa una propria denominazione, lo stesso diamante cambiava il nome a seconda del lato, o della luce, o della situazione.

 

 

Si scoprì un giorno mentalmente ad estendere questo suo pensiero. Tutto attorno aveva un nome che cambiava se lo si guardava a lungo e sotto angoli diversi. Un cane, che era un cane, ne assumeva uno diverso quando diventava il “proprio” cane e via via che la confidenza aumentava era un montar di nuovi nomi, vezzeggiativi per dimostrare affetto o apprezzamento, altri più duri per sottolineare un rimprovero o un’arrabbiatura.

 

Ogni nome cambiava nel corso di una esistenza ed erano gli occhi del momento, ed il momento stesso che ne determinavano di volta in volta, la sua definizione.

 

E lo stesso accadeva alle cose, ed era per quello che, ad esempio, alcuni davano un nome alle proprie macchine o alle cose. “Villa Rita” ad esempio, al posto di un semplice “casa”, che poi comunque sarebbe potuta benissimo diventar “casetta” o magione” o “reggia” o “dimora” e via, via, lungo il percorso infinito di attributi.

 

I nomi cambiavano continuamente per definire pur sempre una identica cosa.

 

E cambiavano per il momento, o l’affetto dell’attimo o l’occasione.

 

Ne aveva parlato con lei di questo suo pensiero strampalato e lei aveva accolto quella sua “teoria” con un sorriso e un bacio.

 

Amava quando usava quel suo tono serio, o meglio “serioso” come di chi non sa davvero se credersi o canzonarsi, nel declamare il frutto d’un arzigogolato pensiero.

 

Amava quel suo guardarsi attorno come a cercare in ogni dove un modo per organizzar differentemente le cose, o concatenare i fatti in modo desueto.

 

Non la colpì allora quando, con voce intinta nel profondo del tramonto che già filtrava dentro la stanza, le chiese,–“Qual è il mio nome, adesso?”-

 

Lei gli rispose col filo di un sorriso. La voce intrisa da quel poco di Maestrale che spirava sulla terrazza deserta da cui ogni notte s’immaginava il mare. Lei gli sorrise nei colori di un tramonto giunto improvviso e che la illuminava già. Lei gli rispose guardandolo nel viso  -“Tu sei  di nome, la mia serenità”-

 

Rubò dal cielo che tramontava una manciata di parole e le impastò con l’aria del creatore. Soffiò leggera fra le mani come fosse carezza, e lui da lei raccolse il nome.

 

Guardò l’impasto e il dono e la sua luce e il suo significato e poi rapido, immediato, guardò nel fondo dello sguardo di lei. Sorrise sciogliendo il filo di quello di lei intrecciandolo al suo.

 

Prese le lettere ad una ad una, attento le guardò in controluce, come una filigrana. Poi le girò con le dita mutandone il verso. Anche il segno cambiava.

 

Era sereno il cielo in quel momento sopra le loro teste e i loro cuori, e lui s’accorse in quel preciso istante, della bellezza delle parole. Era sereno il cielo e lui lo era egualmente in quello stesso istante. S’accordavano il nome ed il tempo sia quello metereologico che grammaticale.

 

Nulla era più instabile del tempo. Sarebbe passata una nuvola di lì a poco e chissà quando e il tempo sarebbe cambiato e così, col tempo anche il suo nome nella bocce di lei. E i cumuli e i nembi avrebbero invaso quello spicchio di cuore e le parole allora, come stormi di rondini, avrebbero smesso di volare alte in attesa di un prossimo acquazzone.

 

Così andavano i sentimenti, come i cieli della vita. Si alternavano d’immense luci e temporali. E c’erano quindi i giorni di sole pieno ed altri in cui pareva che nulla avrebbe potuto bucare le coltri e l’acqua e il gelo e finanche la neve, parevano assediare il cuore e ricoprirlo fino a farlo quasi soffocare.

 

Quello era il regalo del vento in quel pomeriggio che andava a tramontare. Il cuore e l’amore seguono i ritmi del tempo, come tutto nella natura, e quando è bello non è mai bello per sempre, così come le nubi non avvolgono mai il paesaggio per l’eternità.

 

Lasciò i pensieri poggiarsi sopra il comodino, accanto al letto, in quella stanza. Guardò la donna accanto che in quel momento amava certo di esserne riamato, e non pensò alle nubi che sarebbero venute un giorno e sciolse l’ultima luce di quel giorno in un abbraccio forte, intenso, che dovesse sembrare per davvero, che non potesse finire mai.

 

 

 

 

L'apparenza della Realtà

Ricordava esattamente il rumore che la porta metallica aveva fatto alle sue spalle chiudendosi, lo “stonk” secco, cupo, era arrivato preciso alle sue orecchie. Da lì l’onda sonora propagatasi nell’aria era penetrata nel padiglione auricolare. La meccanica del suo sistema uditivo aveva trasformato quel segnale in impulso e trasferito al cervello che operando nell’infinitesimo di un secondo, gli aveva fatto percepire il suono.

La porta era chiusa. Glielo confermò anche la vista restituendo al suo sguardo l’immagine d’una superficie liscia, compatta, scura che ne  interrompeva un’altra, chiara, quella che l’esperienza gli faceva intendere come “muro”. Nessuno spazio aperto, nessun interstizio. La porta era evidentemente chiusa.

I sensi non lo ingannavano due dei sette a sua disposizione concordavano col fatto. La realtà percepita e quella reale, l’evidenza, si sovrapponevano senza sbavature.

Anche il rumore che fece la chiusura centralizzata dell’auto, sbloccandosi, concordava col fatto. Avvertito il “clack” la porta subito dopo si aprì. Via via nei momenti successivi tutto dell’apparente percepito manifestava senz’ombra di dubbio la realtà come si stava svolgendo.

Avvertì il rumore del motore dell’auto. Dentro al cofano i cilindri s’inerpicavano e discendevano nelle  loro camere di scoppio a ritmo alternato. Premendo l’acceleratore rilasciando il freno, l’auto iniziò a muoversi.

I suoi sensi non lo ingannavano. Lo spettacolo fluiva rapido come sopra ad uno schermo ma era uno spettacolo vivo. L’aria sarebbe entrata vorticosa dal finestrino se solo avesse premuto il tasto per abbassare il vetro e assieme all’aria l’abitacolo sarebbe stato invaso dai profumo o dagli odori di quel mondo variegato, variopinto che si stendeva attorno. Tutti i sensi avrebbero concordato col fatto. Il mondo offriva loro stimoli per interpretare e leggere con esattezza, attimo dopo attimo. L’apparente e il percepito, il vicino ed il sotteso erano un tutto concorde.

Spinse l’auto sulla statale, il paesaggio noto s’avvicendava senza grosse sorprese, al più un esercizio commerciale nuovo rispetto alla precedente volta in cui c’era passato. Quando era stata quella volta? Sei mesi? Un anno prima? Pensò al destino delle famiglie di chi lavorava in quell’attività finita, sostituita da un’altra. Pensò di contrappasso al destino di quelle che in quella nuova avevano trovato il lavoro. La legge dei grandi numeri si compensa sempre. Il destino dei singoli no. Perché fra il vecchio ed il nuovo, probabilmente, qualcuno era sfuggito fra le maglie ed ora vagava incerto, in qualche parte di quello stesso mondo, alla ricerca di un nuovo impiego.

Il singolo, l’unità, non è un dato statistico significativo se rimane percentualmente trascurabile.

Così la pensavano gli indici statistici e gli statistici appresso, quelli che gli indici misurano ed interpretano.

Chissà cosa ne pensavano le singole unità, le trascurabili percentuali in cerca di nuova occupazione?

Guidando quasi meccanicamente arrivò sul ponte che attraversa il Ticino, lo spettacolo del complesso del Monte Rosa dominava l’orizzonte lontano. Lì in quel punto s’oltrepassa il confine fra due provincie, fra due regioni,e poco più sotto un fiume che in quel punto preciso nasceva dal lago. “No – pensò correggendosi- sembra nascere dal lago”-.

A guardarlo dall’alto, da molto più in alto, quel lago lo si sarebbe visto nella sua interezza, in quella sua forma allungata partir da Nord oltre il territorio italiano e lì ricevere affluente un fiume, quel fiume che lo avrebbe alimentato e percorso per tutta la sua lunghezza, diventando poi emissario a valle. “-La vena cava del lago “- Lì in quel punto che unisce e divide due provincie e due regioni, lì in quel punto che divide un lago dal fiume, i suoi sensi l’avrebbero ingannato.

Lì finiva il lago ed iniziava un fiume, la vista avrebbe colto la sorgente di quello scorrer d’acqua, la conoscenza, si badi bene, “quella” e non la ragione o l’esperienza, avrebbe ricondotto il fatto ad un altro molto più lontano nello spazio, invisibile agli occhi ed ogni altro senso, e mutava l’apparente in un’altra realtà.

Ma a pensarci bene non erano i sensi che lì s’ingannavano. La realtà così come si mostrava, celava nell’apparente il vero, lo mascherava. Lì in quel punto d’unione e di divisione anche, il vero nascondeva la verità delle cose. I sensi allertati ed adusi a cogliere l’istante, in quell’istante avrebbero dovuto percepire un attimo adiacente molto, molto spazio più in là, dall’altra parte del lago. e nessun senso, in nessun modo, poteva arrivare così tanto lontano.

Ed allora un dubbio lo colse, forse in modo pretestuoso ma, di certo, lo colpì forte al ventre salendo poi fino alla nuca, alla base dell’organo cosciente. E una domanda sgorgò allora dirompente come se dal colpo una sorgente fosse uscita dalle rocce vive di quella sponda:-“quando la realtà è davvero tale e non solo apparente? Ogni quando succede che i nostri sensi percepiscano un punto e quel punto sia davvero tale e non, invece, rappresenti solo la sua sembianza? I nostri sensi, ricettori di questa realtà scandagliano il tutt’attorno costruendoci il mondo come appare. Ma la sua sembianza, per quanto reale, nasconde la  natura autentica delle cose, o delle persone. I sensi sono fallaci, possono in buona fede, non sapere di un altro punto a monte che cambierebbe il discorso, il significato dell’osservato, e la coscienza allora cambierebbe anche la sua opinione, e il tutt’attorno sarebbe altro allora, come la sorgente che  diventa un semplice sbocco a valle”-

Guardò il paesaggio dal finestrino dell’auto. Un senso di sgomento lo colse. Tutto quello che appariva, che percepiva, poteva essere altro, sempre che avesse potuto cogliere un punto altrove che ne completasse o svelasse il significato. Solo che quell’altrove non era un punto sopra una carta geografica, come quello in cui il Ticino affluisce nel lago, ma un punto nascosto ai sensi, ai ricettori, in un qualsiasi punto, in un altro dove.

Così potevano essere, anzi certamente lo erano, le parole di un altro. Effetti acustici percepiti, tronchi del vero significato comprensibile solamente nel momento in cui, in altro modo, si sarebbe percepito anche il punto d’altrove dove quelle parole ed ogni gesto era nato. Qual’era il punto d’affluenza d’una emozione o della ragione, nell’altro? Dove avrebbe trovato il punto d’origine del discorso, il disvelarsi di quel defluire, la sua vera intenzione?

Guardò un albero e, mentalmente, cercò la sue radici nascoste dentro al terreno. Lì risiedeva lo stato della cosa, la sua salute, conoscerle, guardarle, sarebbe stato di grande aiuto nello svelare malattie altrimenti immerse che si sarebbero appalesate sol col tempo, magari in ritardo, quando l’albero muore.

Tutto d’un tratto gli parve relativo, o meglio, superficiale, la parte emersa delle cose, l’attimo della percezione, non spiegava il vero anzi a volte distraeva e significava l’opposto della vera realtà.

Il paesaggio attorno mutò d’incanto popolandosi di mostri, immagini apparenti lontane dal reale. Tutto mutava nella forma ed i suoi sensi ricettori precisi eppure fallaci lo avrebbero indotto in errore, attimo dopo attimo, momento dopo momento. La strada si confuse nella sua mente con gli alberi attorno, e questi con le case. Un senso di capogiro lo colse, s’affrettò ad accostare l’auto al ciglio della strada. Fermò il motore ed appoggiò la testa al volante, poi, in cerca d’aria, scese e camminò un poco lungo il limitare dell’asfalto, sul tratto d’erba che lì confinava.

Il verde del manto era di quando in quando interrotto da piccoli fiori gialli e margheritine.

Una farfalla s’alternava su ciascuna delle corolle in un volo senza direzione apparentemente decisa.

-“Un volo a caso – pensò – dove ogni tappa è meta e punto di ripartenza per la successiva ma decisa solo all’ultimo istante”-

Guardò per lunghi istanti la farfalla e pensando al lepidottero associò nella sua mente quel paradosso letto tempo prima, a proposito della Teoria del Caos: “se oggi una farfalla sbatte le ali a Pechino domani si scatenerà un uragano nei Caraibi”. Con quell’esempio si voleva dimostrare che un sistema complesso come quello atmosferico pur retto da regole ed equazioni matematiche esatte, era destinato, a fronte di micro  variazioni imprevedibili, a diventar esso stesso imprevedibile nel medio e lungo periodo.

E cos’era la vita se non il più complesso fra i sistemi conosciuti?

Ripensò allora al lago ed al fiume. Il punto in cui il Ticino entrava dentro al Lago e quello in cui ne usciva erano poi, alla fine, soltanto due punti, importanti ma non gli unici determinanti.

Determinante era il rimescolarsi dell’acqua con l’altra acqua, il decidere, molecola dopo molecola, quale avrebbe stagnato e quale sarebbe corsa via.

Determinante era, per un punto successivo non quello d’origina ma quello immediatamente precedente e poi quello  che a lui si sarebbe legato subito dopo.

Così sarebbe stato davvero anche delle persone e dei loro sentimenti? Un variar minimo dello stato, o della condizione o dei fatti, o di qualunque altra possibile variabile presa dentro il contesto del discorso di un’esistenza avrebbe potuto far cambiare il corso a tutta la vita intera?

Il paradosso della farfalla e la teoria del caos tutto erano lì a volergli dare una risposta, una certezza, un punto di svolta oltre il quale poter guardare.

Ripensò alla sua amica, alla telefonata di qualche giorno prima. Ripercorse quelle parole da lei dette e da lui ascoltate, una ad una.

Si, quell’amore che lei raccontava era stato tutto uno sbaglio, qualcosa che era possibile prevedere fin dal primo momento. Le tessere concatenate avevano portato all’immagine finale che tutto lasciava intravvedere. Eppure…

-“Eppure – pensò – ogni storia, anche in quella che ci appare la più insensata, quella destinata a fallire, in un attimo potrebbe esser attraversata da un battito d’ali di farfalla in Cina od in chissà dove, e per la logica che pervade  la sua legge, il caos potrebbe prendere il predominio e cambiarne il corso. Non c’è logica, amica mia – concluse – per cui una storia d’amore non vada vissuta, fosse pure la più strana, non c’è storia che la ragione possa pre-valutare, perché laddove c’è palpito ed amore, una farfalla è sempre in attesa di poter, volgere il corso delle cose verso un lieto fine inaspettato”-.

 

 

 

 

 

 

Il Racconto Perfetto

Per quale stranissimo motivo quell’ora, quel preciso momento che si ripeteva ogni giorno, anche quando pioveva, poco più su, dietro alle nuvole, per quale motivo quel tramonto, quel perdersi di rossi, di blu, di sfumature di luce che s’avanzavano verso l’ocra e  poi la notte, la tenevano costantemente incollata con lo sguardo a perdersi in un orizzonte che le sembrava a volte davvero sconfinato?

Se lo domandò con un briciolo di rabbia per il sentirsi impotente, per quel non riuscire a volgere lo sguardo altrove a lasciare quello spettacolo che l’avvolgeva e le risucchiava, come sempre, l’anima e pure il cuore che si tingeva di quelle ombre e si svestiva delle mille sfumature di un giorno che volgeva al suo finire.

No, non poteva essere solamente un fatto di colori, no, che di colori ne è pieno il mondo e basta voltarsi da ogni parte, in ogni angolo, in qualsiasi via ed i colori allora ti vengono incontro e li devi soltanto accogliere o schivare.

E nemmeno la luce perché quella è quasi sempre presente e cambia come cambiano gli argomenti ed i pensieri ed è quella del sole a volte, o dei neon, o quella gialla dei lampioni in centro, o degli alberi di Natale o dei supermercati, o dei fari delle automobili che s’incrociano la notte. La luce cambia nell’attimo, nell’occasione ed hai voglia a dire che quando s’infiochisce allora anche l’atmosfera cambia che non  è la luce ma il suo contesto o l’emozione attorno o, al limite, la compagnia quella che cambia di significato all’attimo perché la luce di una candela sa esser differente se accesa nel mezzo di un temporale mentre l’energia elettrica è venuta a mancare e ti senti sola in mezzo ad una stanza oppure te la ritrovi  sopra un tavolo di una terrazza in una notte d’estate mentre dall’altra parte di quel tavolo, rigorosamente apparecchiato per due, s’incontrano gli occhi di un colui che avresti voluto incontrare da sempre per un attimo, un giorno, un mese, o forse per una vita.

La luce della candela resta uguale a volerla misurare in lumen o in qualche altra unità di misura, come nella sua temperatura, ma gli occhi in quella luce vedono in modo assai differente.

No, no, no…non era un fatto di luce. Sentiva che i pensieri divagavano, fluttuavano senza un percorso e senza nemmeno una meta, erano lì nell’aria attorno e lei li guardava senza cercar di darne un senso.

Che senso avrebbe avuto ordinarli in linee sottili o in spazi circoscritti, ordinarli come libri divisi per genere o per ordine d’alfabeto.

No. Liberi. Andassero dove pure pareva a loro (o ad essi?) di andare, lei restava lì, di fronte a quella luce che si spegneva e al tutto attorno che si mutava in quella cappa di silenzio montante, in quel fiorire di mille lucine in cielo e di promesse e di respiri, a quell’ora in cui anche la città sempre più lontana almeno nel suo sentire, cambiava genere e pelle come un serpente. Uscivano le persone dai loculi del loro lavoro e s’immergevano in quel tempo di dopo dove dovevano lasciar da qualche parte le loro convenzioni e provare a vivere le proprie vite e le loro contraddizioni.

Ecco, in quel punto in cui tutto e niente combaciano, in quel finir del giorno, tutto finiva, o meglio cambiava anche nelle persone.

Anche lei stava cambiando e non da quel minuto e non soltanto in quel preciso istante. Lei stava cambiando da un tempo indefinito che non ci si accorge mai che tutto muta da un preciso istante, piuttosto lo si avverte dopo quando le cose hanno assunto un altro significato, perché il senso del cambiar non è mostrarsi semplicemente in un diverso modo  o prendere un vestito nuovo o una macchina o una moto, no, cambiare voleva dir guardare il mondo così com’era prima e scoprirlo differente.

Cambiare era l’accendere la luce in un angolo da sempre buio e con quella nuova luce esplorare angoli o spazi che non s’erano mai visti così a quel modo.

Cambiare voleva dire allora cambiar di prospettiva, alzarsi o abbassarsi dal punto di solita visione e guardare le stesse cose di prima ma secondo linee di sguardi differenti

E così ‘immaginava il sole al suo calare, in quella traiettoria sempre uguale eppur sempre diversa che per l’incidenza del tempo, per il cambiar impercettibile (almeno così parrebbe) dei giorni, fa cadere in una stessa ora, in un preciso identico minuto, la luce sempre in un punto differente.

Cambiare era allora cambiar di visione

E tutto attorno cambiava, quotidianamente.

Cambiava la visione dei monti che vedevano la natura agghindarsi oppure spogliarsi attorno a seconda della stagione, cambiava l’aria che si cambiava continuamente portata dal vento, cambiavano le nubi che si mescolavano in quei contorni incerti e volubili.

Cambiare pareva essere una legge di natura, un’insopprimibile moto del creato.

In quello sciabordio d’immagini e pensieri lei era lì, come la boa d’ormeggio della barca in mare a godersi il va e vieni della corrente ed il sormontar dell’onda che innalza e poi s’adagia ancora.

Lei era lì, immersa in quello sfavillare di segni che indicavano la rotta intera del creato e quel suo muoversi continuo verso un dove che una meta allora ci doveva essere veramente.

Lei era lì, in quella luce e nei suoi colori cangianti ad ammirare il senso intimo delle cose che era il loro attimo, momento singolo e per questo assoluto, così diverso da quello dopo in un incedere costante seppur mutevole

Lei era lì ad assorbire energia da quel cambiamento consapevole d’esser lei stessa a cambiare, come le cose, come tutto.

Lei immersa nella natura coglieva la natura e la sua essenza: vivere di ogni attimo come fosse ognuno il solo attimo di tutta una vita che ogni istante per quanto concatenato e contiguo al suo precedente e al conseguente che verrà dopo, ha  l’infinita unicità del racconto perfetto.

 

 

 

Il Giorno Verrà

E poi d’incanto fu cometa, passò la coda come lingua in cielo ad assaggiare il manto nero della notte. Accese Volta mille e dopo mille stelle come efelidi della sua pelle ad est nel periplo del monte Tramonto illuminò ancora rosse gote a nuvole ed aria .

Così passava amore sopra a quegli occhi che increduli restavano ammirati.

Ritrovando quelle parole sopra un foglio, quasi ammucchiate, gettate lì in un attimo di un chissà quando, riprovò per un istante il brivido della penna fra le dita e la riprese così, come per guardarla appena, senza accorgersi, attimo dopo attimo, che ancora  parole, a piccoli getti, sgorgavano da quella sua punta.

Se l’era trovate lì  quelle parole figlie di chissà quale tempo, eppure un tempo che lo seguiva costantemente. Quel suo essere ramingo, vagante, zingaro, nomade  senza fissa dimora, quel suo arrampicarsi su quella vita, inventandosela giorno dopo giorno, era così inciso.

Se l’era trovata lì davanti  l’immagine di quei suoi giorni, poche ore prima, dentro al batuffolo fioccoso di una nube. Uno sbuffo di bianco morbido, dentro un azzurro che invadeva il cielo. Eccola lì, piccola di fronte all’infinito e dalle forme incerte. Capace di destar attenzione solo in chi desidera giocare ancora con i suoi margini dilatati ed immaginarne similitudini dando un nome alle cose e volendo, dopo il gioco, dopo ogni gioco, scompigliare le carte e poi ricominciare.

E la guardò nei toni di bianco che danno la sua terza dimensione. In quel gioco di ombre e luci accese. Se la trovò così davanti, la sua vita, Un qualcosa a cui dar forma e che cambia la stessa dopo ogni sbuffo di vento. Una cosa a cui dare ogni momento un nome differente.

Poco più avanti lo stesso cielo d’azzurro vivo, scompariva a tratti dentro imponenti alberi dalle infinite sfumature di verde. Chi lo dice che il verde è monotono o sempre lo stesso?

 Lì le foglie andavano dal tono tenue a quello cupo, fino al luccicar degli oleandri con quel loro specchiar la luce che sembrano specchi a volte, o pesci. Ecco, un branco di pesci appeso ai rami, a nuotar verso un celeste che non è l’infinito fondo ma piuttosto volta che sostiene il sole, quando è giorno, o miliardi di stelle, e la luna intera, per il durare di ogni notte.

E poco più in alto, oltre la volta ed il celeste, Dio, e la Sua casa. E sarà lì un giorno, o quando sarà, che con un brivido d’infinito, risuonerò una sola domanda:-“Ne è valsa la pena?”- e questa vita, tutta la vita, come un dono, scorrerà davanti ai nostri occhi che saranno Anima allora.

Rivedrà in quel momento questi toni di verde, e l’azzurro gridare in cielo. Rivedrà quel mazzo di sorrisi attraversati o quelle braccia che lo avevano stretto a volte, altre allontanato salutandolo con un fazzoletto o un breve gesto delle dita.

Rivedrà quegli occhi ridenti ed altri velati e tutto il tempo trascorso in quel a volte calmo altre caotico e confuso.

Perché tutto sarà lì in quel momento, in un unico gesto rivedrà quella sua  vita in un solo istante e le sue scelte di bene e di male.

Era lì, tutto oltre quella nuvola sottile, in uno spazio che non sapeva dire dove, ma oltre si, lo immaginava così, in uno spazio poco lontano come quel filo d’orizzonte  a cui a volte tendi la mano e par che lo si possa toccare.

Era lì, in un altrove poco oltre che sapeva poter immaginare senza vedere o toccare. E la sua vita dietro, un poco sulle spalle altre accatastata in cassetti ed archivi. Una fila di pacchi alcuni o ordinati altri accatastati in attesa di essere definitivamente sistemati.

Così erano le sue parole, come un vento sopra un foglio e l’aria che lo arruffava e svolazzava allora come una foglia strappata al ramo in autunno. Ed ogni lettera era una porta aperta verso una tangente, un mondo che si spalancava un poco oltre.

E quanti mondi era stato? E quanti mondi aveva poi raccontato? Girò lo sguardo verso un punto d’orizzonte qualsiasi. In quella distanza che solo lo sguardo sa coprire immaginò migliaia di volti, milioni di anime mai incontrate, mai sfiorate e poi pensò alle storie che avrebbero potuto raccontare. Le contò ma poi giunto che fu quasi all’ultima s’ingarbugliò e ricominciò a contare.

Forse le stelle in cielo, quando il cielo si fa notte e scura, sanno dar l’immagine reale di quel che il mondo ci potrebbe regalare, con quelle luci accese che par che volino, dove tutto sta sospeso come ogni vita colta in un suo attimo.

Come lo folgorò il poeta in quel suo verso che lo raccontava.

Pensò a chi gli aveva detto un tempo prima, che la felicità è un attimo, il vertice di un momento.

In verità la vita gli aveva poi insegnato che ogni attimo è un vertice a sé stante ed era sempre lo stesso sia che fosse di gioia, di noia o di dolore.

“Siamo come punte fitte dentro ad un pettine”, pensò. Ogni momento intenso ed egualmente irripetibile. Siamo attimi che si rincorrono lungo il percorso tutto della nostra esistenza. Attimi come luci perse dentro al cielo, ed è per questo, forse, che questi attimi  li raccontiamo, per tenerli accesi dentro la memoria di una notte che par che duri per un eterno momento mentre invece il giorno, paziente, già l’attende al limitar del suo tempo, per abbracciarla, luminoso e cangiante, in un mar di sfumature d’azzurro e rosa. Perché il giorno verrà.

Da tempo ti aspettavo

Disse –“si va di mare”- e dal quel punto tracciò la rotta, scelse la strada, percorse la via. Unì quei punti invisibili che pur conosceva bene. Avrebbe potuto anticipar l’attimo successivo di paesaggio, volendo l’avrebbe percorso anche ad occhi chiusi quel tratto, il solito, che lo divideva dalla riva, da quello scoglio, anch’esso solito, dove portava a volte i sogni, o le domande e andava  a sentire il vento raccontare le storie d’oltre onda.

 

Conosceva ogni minuto anfratto del selciato eppure sapeva che il conoscere davvero delle cose non si celava nel semplice anticipare. Quello era il destino del viaggiatore distratto, il mescolar nelle parole il senso: conoscere allora sarebbe stato al massimo prevedere l’attimo che sarebbe venuto.

 

Se fosse bastato sapere il dopo di ogni istante allora per conoscere il vento sarebbe stato sufficiente saperne del suo spirare, leggere il verso del suo provenire ed il moto del suo andare. Predire al più l’ora in cui avrebbe mutato il suo corso. E così dicevano di alcuni che mostrando questo sapere, sembrava conoscessero il vento.

O altri che divagavano sul mare misurandone l’onda e il ciclo delle maree.

 

Tutta la conoscenza  condensata dentro una misura esatta, un qualcosa da scrivere su un foglio da leggere poi col petto gonfio di malcelato orgoglio.

 

Per lui conoscere il vento era fermarsi a respirarne l’alito e immaginar nelle parole portate appese, dentro infiniti fili, attaccate ad ogni atomo che dentro all’aria si muoveva, un vorticar di storie e d’impressioni. Era ascoltar il flusso delle voci e grida di madri e di bambini, di storie, dolori e pianti, ed altre invece di  lucide risa, era il ritrovar dei baci e sogni degli amanti dove l’aria impastata del sapor di labbra rese umide dalla passione s’arroventava come al passar sopra la sabbia arida d’un Sahara.

 

E così per lui era il saper del mare dove l’onda non misurava un’altezza di marea, piuttosto sussurrava, o a volte gridava. le parole raccolte, disciolte in mezzo al sale, che di sale talune sapevano, altre, meravigliosa alchimia, capaci di mutarne persino il gusto amaro tramutandolo in zucchero di purissima intenzione.

 

Per lui il sapere era sapere dentro l’attimo. E colse così in un attimo, l’abbraccio conosciuto, amico, del vento giunto lungo la riva, e dell’onda infranta su quello scoglio.

 

E fu da lì che guardò giù in fondo, perchè aveva domanda da fare al mare e al vento e voleva coglierne il dono della risposta.

 

Guardò la schiuma bianca avvolgere il sasso, possederlo con forza, sommergerlo per poi farlo apparire nuovamente, bagnato, lucido, levigato, eppur capace d’attendere col soffio del vento, il sole caldo che l’avrebbe asciugato e nuovamente offerto al gioco del mare.

 

-“Così – pensò – è l’amor di passione”-. Forte, impetuoso, violento. Con una carezza capace di schiacciarti al sasso. In un lampo viene, ti coglie, ti fa incapace d’opporre una qualsiasi resistenza e poi ti lascia, attonito, sfinito, che puoi soltanto respirare prima che giunga il vento o il sole che ti sappiano nuovamente asciugare.

 

Com’è fugace quell’abbraccio così intenso.

 

Spostò lo sguardo un passo oltre lo scoglio. Lì l’acqua era profonda e cheta apparentemente. S’immaginò un corpo immerso il quell’anfratto.

Nel profondo, appoggiato alla sabbia, tutta l’acqua attorno pareva immobile, sembrava  non accadesse nulla eppure l’acqua cheta avrebbe avvolto e stretto ovunque. Lì  non arriva sole, o vento  ad asciugare qualcosa che vi si fosse ritrova immerso.

 

Lì pensò, in quel punto, c’è l’amor profondo che accade, quando viene, come se nulla fosse mutato, o lo potesse, attorno. Non sconvolge, non schiaccia, non sbatte. Semplicemente avvolge e copre, e invade ogni poro, ogni parte asciutta allaga.

 

Stette in silenzio, anche il pensiero tacque. Muto ringraziò il cielo, e l’aria e l’acqua di quel dono. E ascoltò il suo cuore inondato, battere per la prima volta immerso in quel fondo d’azzurro mare.

Addio

Il giorno che finì disse:-“Questa è l’ultima”- e lo fece senza dolore. Gli parve strano nel non sentire amarezza fra la lingua ed il palato, nel non sentire un buco dentro cuore o il respiro trattenuto o mancare. No. Quella era stata l’ultima volta che aveva lasciato scorrere l’amore dentro di sé. Non ne era pentito., non era rassegnato.

 

Guardò passare uno dopo l’altro tutti i giorni passati e passò oltre poi, andando ancora più lontano dentro i trascorsi addii. Li accarezzò mentalmente uno ad uno sorridendo, nessuno di loro produceva più alcuna sofferenza o alcun rancore.

 

Si avvicinò allo scaffale dei dischi ne cercò fra le copertine più consunte una che la sua memoria avrebbe riconosciuto.

 

Lo ritrovò fra i tanti dei tanti anni prima e s’emozionò nel risentirlo ancora con la stessa passione di allora.

 

S’era sentito solo quella mattina, per la prima volta da quando l’aveva incontrata. S’era sentito incompreso, non capito e così, certamente, s’era sentita anche lei.

 

Ci sono bivi a volte nella vita in cui due corpi che diresti nati per trascorre assieme il resto dei propri giorni, si dividono.

 

I primi passi pensi che sia per gioco, ancora odi le voci dell’altro e i suoi richiami, ancora ti par di scorgere fra i rami le sue dita che ti cercano, poi, a poco a poco, quando la vegetazione s’innalza e s’infittisce,  le parole dell’altro si perdono e non ne capisci più il senso né il significato. Avverti la sua mancanza eppure la strada avanti ti chiama e la percorri mentre sai perfettamente che gli altri passi si susseguono su un altro percorso.

 

Così si arriva al punto in cui il verde attorno ti pare smisurato e il bosco sembra fattosi una foresta. Arrivi al punto in cui ascolti solo il battito del tuo cuore,  resosi ormai solo. E pensi che quel cuore, quello stesso organo, fino a poco tempo prima, attimi ,secondi, tempo, sembrava dover battere in eterno accordato all’uno dell’altra.

 

Sono tristi gli addii ma ancor di più lo è il sentirsi soli quando accanto ci si ritrova chi vorresti amare.

 

Pensò a lei che se ne andava ed alla sua vela gonfia di qualche vento fra ricordo, rammarico e temporale.

 

 

Pensò a lei con amore, lo stesso che lo aveva animato quella mattina presto, o il giorno prima e tutti i giorni ch’erano passati assieme. La pensò con quello stesso amore, immenso infinito che ti fa immaginare che nulla dopo potrebbe più assomigliargli. La pensò con quell’amore immenso e proprio per questo la lascò andare, passare come sabbia fra le dita, affascinato da quelle sue movenze, persuaso dell’ineluttabile bisogno d’esser per lei sabbia e lui mano, d’essere lei libera di plasmarsi e ricoprire col suo velo leggero e caldo le forme dove il vento l’avrebbe condotta. Libera e non costretta.

 

Alzò il palmo verso il cielo un filo di sole filtrava fra i rami alti. Frappose il palmo a quei raggi invadenti e poi iniziò a giocare al vedo e non ti vedo con quel filo di luce.

-“Così viviamo – pesò – alternando luce e buio in sequenze che appaiono casuali”-  Sentì il silenzio attorno, era di nuovo solo, ma aveva vissuto. Lei lontana da lui avrebbe col tempo trovato nuova pace. Lui lontano da lei avrebbe trascorso il tempo ad immaginarla ricordandone il sorriso.

 

Così vanno le storie lungo i sentieri che s’incontrano per il cammino, così le racconta il vento quando ti fermi e lo resti ad ascoltare.

 

Ad un tiro di rete

Era passato di lì ma era come se fosse fermo, allora. Come gli alberi, come un cestino della spazzatura, attaccato al suo palo era lì, come sul ciglio di una strada.

Come passa il tempo, alle volte, a poterlo solamente guardare e non dico a vivere, no, ma certe volte nemmeno a respirare. Come passa il tempo a volte, come passa la banda nel giorno della festa, con tutti i tamburi e gli ottoni lucidi in vista. E lui era lì fermo, nell’attesa di un passaggio, o semplicemente di una mano o di una rete, o di una penna in vista, ed un pezzo di carta per poterla scrivere, o solamente ricordare.

Era lì, in attesa di un passo che fosse solamente il primo, che accompagnasse qualcosa che lo potesse seguire.

Era solo sopra il ciglio di passaggio, attaccato all’asfalto come una nuvola al cielo. Come un sorriso sopra la bocca di un bambino, come un pipistrello che si dondola dalla grondaia nella sera. Come il niente che si attacca al cuore quando il vento tace e scivola via l’amore come una barca di carta che hai chiamato nostalgia e che hai varato dentro ad un mattino di un milione di secoli fa.

Come quella storia e poi quella che forse è stata dopo e l’una e l’altra si assomigliavano anche se erano diverse. Come i mille baci che si erano staccati dalle labbra come foglie che si lanciano nel turbinio d’autunno.

Come tutte quelle promesse infrante e come tutte quelle cancellate che era come quando la voce dall’altoparlante lo diceva: “- l’aeroporto chiude”- ed ogni volo rimaneva un desiderio.

Che lo diceva la pioggia e quel giorno quanta ne era caduta, tanta da aver inzuppato anche gli occhi che non volevano darsi per vinti al pianto ed allora quel rigar di guance era solo una nuvola e via…via lungo una corrente che diventa poi cascata, lungo un girar di anse che a volte sono spigoli contro cui inciampare con tutta una vita addosso.

Dentro a quel rombar di grandine e lo scrosciar di un motore che par che passi accanto o forse solo poco lontano. Che par che passi e sgretoli col suo stridir di gomme ed un claxon molesto che forse abbaia come un cane dentro ad un fondo di notte. Come una cane che abbaia al cielo e dentro al cielo alle voci degli amanti, anime galeotte.

Dentro a quel frastuono di mondo tutto dentro a quell’istante, scartò quell’attimo, come fosse una caramella, e lo portò alla bocca. Lo fermò fra i denti e poi lo lasciò scivolare sulla lingua e sotto il palato. Era quello il sapore del silenzio. Un sapore aspro, come di delusione, amaro di assenza e di rimpianto.

Perché vanno via così i desideri ed i sogni, come quando ti ci provi e scopri che nonostante ogni tuo sforzo, la meta resta un’illusione.

Forse davvero, a volte, occorrerebbe non avere mete o sogni.

Forse nell’incertezza del risultato sarebbe meglio si restasse immobili.

E tu che “come ti chiami?” Tu che mi scivoli accanto e forse vorresti soltanto un solo un soffio di questa locomotiva ed un fischio perso in fondo al treno, forse vorresti solo le mie mani, o un ticchettio di parole vuote che si confondono dentro ad un tramonto, che si perdano sopra la strada come un po’ di pioggia, o come una nevicata.

In quell’attimo preciso di silenzio sentì dal cuore riaffiorargli tracce di un vecchio discorso, relitti di parole che si lasciò portare dal vento di quell’istante

“E tu, dimmi tu come ti chiami, tu con il tuo cuore di gomma e quell’altra con il suo ma di cartone, con l’anima diseguale che par che debordi ma è soltanto un margine sbagliato.

Tu, tu come ti chiami? Qual è davvero il tuo nome ed il suo sfondo? Quello dove si raccoglie il sempre di tutto il tuo discorso, perché un discorso dovresti avercelo almeno, un discorso lungo più delle due solite parole che riecheggiano come un rantolo dentro le labbra di un moribondo, come l’eco che si sta smorzando, come qualcosa a cui non credi nemmeno tu mentre invece c’è chi ci crede da sempre. Tu che sai dir “ti amo” come fosse lo stampo che un bambino pigia senza sosta e senza un fine, sopra i fogli d’un blocco di appunti. Tu che non conservi nemmeno la copia dei tuoi sbagli e che il giorno dopo sono tutti passati, come dentro a un sogno, come una parentesi che non sai nemmeno se c’è stata e che sono soltanto attimi quelli che sono stati giorni, mesi e persino gli anni.”

Questione di prospettive, a volte, o di battiti asincroni in quegli amori attraversati come voli di rondini in cielo nei giorni del primo migrare o di aironi che planano su quel velo d’acqua ferma.

Giochi di prospettiva dove i giochi non tornano mai, come i giorni o il tempo che non conta se sia d’autunno o di primavera. Giochi, che si son fatti d’aria e poi di carne e d’anima spalmata contro un pezzo di muro, con la luce che s’è fatta fioca e la messa a fuoco incerta dell’obiettivo, come fossero una diapositiva od un filmato, ma in pellicola o in super8, con quelle righe sopra che san di tutto già vissuto e visto. Cose che san di tempo, come quello andato, come quello prossimo, il divenire che verrà, senza alcun rimpianto, senza un filo di rimorso. Con lo stupore solito di un bimbo che guarda il cielo e l’angolo, poco dietro, dove dietro c’è ancora una strada ed una vita da trovare.

 

 

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