Platone ci aveva avvertito: la parola va maneggiata con cura perché può salvare e comunicare ma può anche isolare e uccidere. Oggi la parola è usata come arma impropria: “zecche rosse”, “camicie nere”...L’escalation verbale della contrapposizione politica avvelena la comunità che dovrebbe trovare nel dialogo il mezzo per spegnere guerre esterne e liti interne. Con una aggravante: la politica parla male ad una generazione di giovani estremamente fragili, provata dal Covid e dalle nuove guerre dove la violenza tocca eccessi che spaventano ed esacerbano gli animi. Ascoltare i timori, le proteste ed il dissenso dei giovani significa evitare di manipolare le loro paure per fini politici. Chi alza la tensione nei modi più diversi è irresponsabile. I giovani non sono il pubblico di un talk show, ascoltano maggioranza ed opposizione con l’attenzione e l’immaginario di una generazione estremamente sensibile. Una generazione che rischia di essere spinta verso scelte estreme se non trova interlocutori responsabili. Servirebbe sicuramente un attenzione linguistica bipartisan che abbassi i toni e non cerchi di strumentalizzare o amplificare le paure nelle piazze. Far credere che il dissenso possa esprimersi con la violenza o nello scontro fisico, è la peggiore ferita che possiamo provocare ai giovani e al loro futuro.La parola è potente nel bene se diventa dialogo e non benzina gettata sul fuoco...