La prima neve
Osservo la neve che cade. Nel silenzio ovattato i candidi fiocchi scendono lenti nell’aria. Un sentimento di meraviglia s’insinua in me per questa inattesa novità. Sto godendo attimi di gioia incontenibile. Sono testimone di questo magico momento mentre, attraverso i vetri della sala, guardo i balconi dei palazzi già ricoperti dalla bianca coltre così come il marciapiede di fronte ancora privo di impronte.
Al di là dei palazzi inizia la montagna con il suo piccolo paese a mezza costa e poi subito la foresta, interrotta da piccole radure, e ancora su, più su fino al limitare del bosco, il confine al di sopra del quale si estende il regno delle cime che dominano la valle.
Credo che la natura mi stia facendo uno tra i più bei regali e il suo richiamo è irresistibile. Non so attendere oltre.
Indosso con cura i calzettoni per proteggere dal freddo i piedi e le ginocchia e, per essere più libero nei movimenti, un pantalone alla zuava con i cinturini sotto al ginocchio. Un maglione non troppo pesante sopra la camicia di flanella, una giacca di piumino d’oca leggerissima munita di cappuccio e gli scarponi, modellati apposta per le mie esigenze, con i quali posso andare dappertutto, soprattutto in arrampicata libera.
Infilo nello zaino l’occorrente standard di sopravvivenza, corda, viveri d’emergenza, documenti e soldi, prendo con me la piccozza, infilo il berretto di lana e i guanti ed esco di casa. Il cellulare non serve perché dove ho intenzione di andare non c’è campo.
La mia compagna è ancora profondamente addormentata e non la voglio disturbare, quindi, le scrivo due righe per informarla sul percorso che intendo seguire.
Ho un chilometro circa da percorrere attraverso la città prima di iniziare la salita.
Il cielo è carico di nubi e la visibilità incerta. La neve continua a cadere a larghe falde. Percorro pochi metri e sono già ricoperto di neve. E’ una sensazione indescrivibile!
Sento il profumo e la magia del momento mentre continuo con passo spedito sino a superare il ponte, oltre il quale, inizia il sentiero. Rallento il passo per adeguarlo al battito del cuore e alla respirazione e guardo l’ora: sono le otto e venti del mattino. Lo zaino è leggero. Lo porto perché contiene degli elementi che, all’occorrenza, possono servire a steccare un arto fratturato oltre alla dotazione standard.
Con passo regolare, calpesto la neve che diventa sempre più spessa man mano che salgo. Noto delle tracce appena visibili di qualcuno che mi precede. Sono già completamente ricoperte dalla neve che ora cade con maggiore intensità ma ancora percettibili.
Ho oltrepassato di parecchio il paese che osservavo da casa e, da quando sono entrato nel bosco, le tracce sono più marcate.
Chi sta davanti a me pare abbia improvvisamente rallentato il passo. Continuo col mio passo regolare anche se la curiosità di incontrare qualcuno in questa contingenza mi incuriosisce.
Il sentiero si è ristretto e si è fatto impervio, curva dopo curva salgo di quota.
La neve, nei tratti non protetti dai pini, è talmente profonda da impedirmi la marcia regolare e le orme della persona che mi precede sono sempre più chiare.
La voce della coscienza mi rammenta che ho dimenticato di portare le ciaspole … pazienza, arriverò solo al limite del bosco, penso, mentre mi scrollo la neve di dosso.
Le orme, adesso, sono nitide. Le osservo attentamente mentre la neve si sta ancora intensificando. Chi le ha lasciate deve trovarsi poco davanti a me e tra un momento lo raggiungerò.
Percorro un lungo tratto al riparo della foresta e, dopo una stretta curva a gradoni di roccia, sono costretto ad affrontare una neve ancora più profonda.
Se non fossi stato così curioso probabilmente sarei tornato indietro, invece ho proseguito imperterrito.
A metà della zona scoperta che mi si apre davanti, riversa sotto l’unico pino nella zona, giace la figura indistinta di una persona. E’ coricata su un fianco e non dista più di trenta metri. Posso vederla bene nonostante la neve incessante che vien giù e, a tratti, la nasconde. Finalmente la raggiungo, mi accovaccio accanto e poi, carponi, le sollevo la testa. Ripulisco il suo cappello di lana finito poco più avanti e glielo infilo poi, la sollevo per quanto posso, le sfilo lo zaino dalle spalle e la appoggio seduta a ridosso del pino. Lo zaino ... chiamarlo così mi è parso un ridicolo eufemismo ... è talmente pesante e grosso che a stento riesco a spostarlo!
Intanto dalla persona sconosciuta provengono dei lamenti indistinti.
Le risistemo il cappuccio allentando il bavero della giacca militare, una di quelle vecchie della seconda guerra mondiale. Finalmente posso scorgerne il viso. Con mio grande stupore è quello di una ragazzina di non più di diciotto o vent’anni. Si lamenta biascicando parole incomprensibili, in patois, e non pare rendersi conto del suo stato.
Non indossa guanti. Le prendo le mani quasi congelate e gliele strofino con la neve poi, con l’unico fazzoletto che ho, gliele asciugo.
Mi tolgo i guanti, dentro sono caldi, e glieli infilo. Porta degli scarponcini e i suoi piedi sono ben protetti da spesse calze di lana e i pantaloni ben pesanti. Tutta la sua figura è minuta e non s’accorda con il peso che trasporta.
Parlandole con calma le dò qualche piccolo buffetto sulle guance, poi le chiedo come si sente.
Non osservo alcuna reazione tranne il respiro affannoso. Le sollevo le palpebre. Gli occhi di un azzurro profondo paiono normali come solo possono apparire ad un elettronico che non sa quasi nulla di primo soccorso. Raddoppio l’intensità dei buffetti … finché socchiude appena le palpebre. Capisco a stento che mormora delle scuse nel suo dialetto.
Le afferro le mani tenendogliele ben strette fra le mie e, avvicinandomi le dico:” ne t'inquiète pas, je resterai près de toi, je t'aiderai ”. La neve continua a cadere. Spalanca gli occhi ansimando, accenna un sorriso.
Poche parole, pronunciate a stento, mi fanno capire che si sta riprendendo. Le lascio libere le mani e la sistemo più comoda sotto il pino. Ancora inquieto per l’accaduto, tiro fuori dal mio zaino l’occorrente per preparare un buon tè caldo. Le tolgo un guanto, le metto in mano il cucchiaio reggendole il pentolino e la invito a bere.
Con movimenti dapprima incerti e poi sempre più sicuri si beve tutta la bevanda calda. L’aiuto ad alzarsi, non speravo altro che questo momento!
Da una tasca estrae i suoi guanti e mi restitisce i miei accompagnando il gesto con un sorriso. Ormai le forze le stanno tornando, evviva!
Intorno al nostro pino è rimasta una piccola area circolare quasi sgombra dalla neve che, nel frattempo è continuata a cadere e ha già raggiunto uno spessore di circa mezzo metro. E’ arrivato il momento di presentarci.
Stringendoci la mano ci siamo scambiati i nostri nomi, ed ora, sta per dirmi qualcosa. Si chiama Eliane. Ha il volto di una ragazza sbarazzina, due occhi vivi di un azzurro intenso tendente al verde, una capigliatura moderna fatta di riccioli d’oro e mi osserva con attenzione mentre mi racconta le sue vicende
Sta portando i rifornimenti alla madre che, al momento, non si può muovere essendo infortunata e l’attende nella loro baita non molto distante.
Facciamo il punto sulla situazione. So che ci troviamo a circa un chilometro e mezzo dal “ café national “ come ho sempre chiamato il ruscello, alimentato da una sorgente naturale, che attraversa questo sentiero e dove, nella bella stagione, tutti coloro che si trovano a passare fanno sosta per abbeverarsi. Diverse volte, nelle immediate vicinanze, ho ascoltato l’ululato dei lupi ...
La baita da raggiungere si trova ad appena un centinaio di metri dopo il ruscello.
Senza dare ascolto alle sue proteste mi sfilo lo zaino e glielo metto sulle spalle, poi mi carico il suo.
Solo chi ha dormito in montagna nel sacco a pelo, di notte, al riparo di un roccione, può capire forse come si sente la mia schiena. Altro che appoggio ergonomico … le scatole e le scatolette tonde, quadrate, ecc. in quel sacco stipato sino all’inverosimile sono una tortura indescrivibile per non parlare del peso.
A stento, un passo dopo l’altro, nella neve profonda con Eliane, dietro, che mi aiuta a mantenere l’equilibrio giungiamo nei pressi del “café national”.
Proseguire è diventato quasi impossibile, la neve è talmente alta in certi punti che mi arriva al petto e devo comprimerla col peso del mio corpo per aprirci un varco. Le cinghie del sacco mi torturano con tutti i bitorzoli a contatto del mio dorso. Mi fermo. Eliane, con un filo di voce, mi dice che la sua baita è sulla nostra destra. Intorno a noi c’è una distesa di neve immacolata, soffice come la bambagia, che nasconde le asperità del terreno. Il silenzio è talmente profondo che provo una sensazione d’irrealtà ...
Adagio mi apro il passo attraverso la neve cercando di non sprofondare in qualche dirupo. Eliane, dietro, aiuta a sostenere il sacco. Ho un pensiero fugace per Colui che salì al Golgota … Finalmente, dopo un tempo che mi è parso infinito, ecco che un filo di fumo appare da dietro un monticello. Eliane mi esorta a resistere ancora un poco perché siamo quasi arrivati. Ancora un ultimo sforzo ed ecco la baita, finalmente siamo giunti a destinazione!
Eliane chiama la madre a gran voce, io mi sfilo il suo sacco dei rifornimenti e lo appoggio sulla panca accanto alla porta d’ingresso, riparata da una tettoia, e, subito, mi sembra di galleggiare nell’aria.
La madre, imbacuccata oltre ogni immaginazione, apre la porta e si affaccia sulla soglia visibilmente emozionata. Era in pensiero per la figlia. Eliane, le racconta rapidamente la nostra avventura.
Vogliono farmi entrare in casa ma declino cortesemente il loro invito. Sono passate le undici e ritengo prudente tornare subito anche se la neve, ora, cade con minore intensità.
Cercano ancora parole per ringraziarmi. Eliane mi chiede di attenderla un istante, poi riappare porgendomi un bigliettino. Lo leggo. C’è il suo numero di cellulare col prefisso svizzero. Riprendo il mio zaino, lo allaccio completamente e le saluto, sorridendo, senza indugiare oltre.
Ora inizia il mio divertimento. Mi lancio nella neve come un delfino tra le onde lungo la traccia ancora aperta. Rotolo, compio rocambolesche capriole, sento di essere nel mio elemento …
Di balzo in balzo attraverso la foresta, sono di già in vista del paese. Si aprono le nubi e spunta il sole. La natura si ammanta di una luce dorata. Mi ricompongo, ormai la neve ha uno spessore che mi permette un passo veloce. In un battibaleno giungo alla fine del sentiero, percorro il ponte oltre il quale vivo con la mia compagna. Percorro l’ultimo chilometro quasi di corsa. E’ appena rintoccata l’una e sono a casa … dolce casa!
Apro la porta d’ingresso e saluto la mia “ragazza”: ” bonjour mon chou, me voilà ! Comment vas-tu? “ e lei di rimando: “ fais attention à ne pas salir ma maison ! Met les chaussons ! Ne le laisse pas mouillé… “ Che delicata essenza femminile! Non so proprio come faccia a sopportarmi ancora …
Forse vuol dirmi semplicemente e con grazia di toglierle l’incomodo? Inizio a credere che la mia esistenza vivrà, presto, nuove esperienze! Forse la storia non è finita e dovrò scrivere ancora …
Itaca, orsù, dove sei?
The Hatter