Questa Bacheca è ancora vuota. Invita borderlinealways a scrivere un Post!
Mi descrivo
DISONESTO QUANTO BASTA PER RESTARE ONESTO. NON CERCO SESSO NE AVVENTURE. SOLO AMICIZIA.
Su di me
Situazione sentimentale
separato/a
Lingue conosciute
Finlandese, ,
I miei pregi
-
I miei difetti
-
Amo & Odio
Tre cose che amo
NON LO SO
NON LO SO
NON LO SO
Tre cose che odio
GUERRA
INDIFFERENZA
GENOCIDI IMPUNITI
I miei interessi
Vacanze Ok!
Montagna
Vacanze Ko!
Crociera
Passioni
Trekking
Viaggi
Musica
Rock
Cucina
Piatti italiani
Libri
Narrativa
Sport
Trekking
Film
Azione
Documentario
Libro preferito
il giocatore
Meta dei sogni
Film preferito
quel pomeriggio di un giorno da cani
A DUE PASSI DA CASA NOSTRA
In televisione si parla per
mesidi un omicidio, solo
perché avviene nel nostro paese e molto spesso si tralasciano
omicidi di massa solo perché invece avvengono in paesi molto
lontani da noi .Finché ci sarà la totale indifferenza dei mass
media nei confronti di queste stragi, non si potrà mai portare il
mondo a ragionare, a riflettere perché si eviti che queste cose
accadano di nuovo». << Marco Tomasin
>>
GENOCIDI DEL XX SECOLO
1. GENOCIDIO
DEL POPOLO ARMENO
I "Giovani Turchi" (ufficiali
nazionalisti dell'Impero ottomano) ordinarono tra il 1915 e il
1923 vasti massacri contro la popolazione armena cristiana. Le
successive deportazioni di massa porteranno il numero delle
vittime a un milione e mezzo circa.
2. GENOCIDIO DEI POPOLI DELLA
CINA
Nell'anno 1900, la rivolta dei "Boxer"
causò oltre 30 mila morti, in gran parte cristiani. E sono almeno
48 milioni i cinesi caduti sotto il regime di Mao tra il "Grande
salto in avanti", le purghe, la rivoluzione culturale e i campi
di lavoro forzato, dal 1949 al 1975
3. GENOCIDIO DEI POPOLI DELLA
RUSSIA
Non meno di 20 milioni i russi eliminati
durante gli anni del terrore comunista di Stalin (1924/1953).
Esecuzioni di controrivoluzionari e di prigionieri, vittime del
gulag o della fame.
4. GENOCIDIO DEL POPOLO
EBRAICO
Con l'avvento del nazismo di Hitler in
Germania (1933/1945) viene avviato lo sterminio del popolo
ebraico in Europa; le vittime di questo immane olocausto sono
calcolate in oltre 6 milioni di persone, la gran parte di loro
morta nei campi di sterminio.
5. GENOCIDIO
DEI POPOLI DELL'INDONESIA
Nel periodo 1965/67, quasi un milione di
comunisti indonesiani sono stati deliberatamente eliminati dalle
forze governative indonesiane, mentre tra il 1974 e il 1999 sono
stati eliminate da gruppi paramilitari filo-indonesiani 250 mila
persone della popolazione di Timor-Est.
6. GENOCIDIO DEL POPOLO
CAMBOGIANO
Un milione di cambogiani sono morti in
soli quattro anni, tra il 1975 e il 1979, sotto il regime di
terrore instaurato dai Khmer rossi di Pol Pot.
7. GENOCIDIO DEL POPOLO
SUDANESE
Si stima che un milione e novecentomila
cristiani e animisti siano morti a causa del blocco imposto dal
governo di Khartum all'arrivo degli aiuti umanitari destinati al
Sudan meridionale.
8. GENOCIDIO
DEI POPOLI DEL RWANDA E DEL
BURUNDI
Dal 94 ad oggi, 800 mila civili ruandesi
sono stati massacrati nel conflitto scoppiato tra hutu e tutsi;
un'analoga cifra è stimata per le vittime del vicino
Burundi.
9. GENOCIDIO DEI POPOLI DELL'AMERICA
LATINA
Dalla Rivoluzione messicana, ai
"desaparecidos" delle dittature militari degli ultimi decenni del
XX secolo, sono oltre un milione le vittime innocenti della
violenza di Stato dei regimi sudamericani.
Inoltre solo in Amazzonia si calcola che
quasi 800 mila indios sono morti in un secolo, per le angherie e
i soprusi subiti.
10. GENOCIDIO DEL POPOLO
IRACHENO
Un organismo dell'ONU ha stimato nel
1998 in un milione di morti, tra cui 560 mila bambini, gli
iracheni morti a causa dell'embargo internazionale e della
politica di Saddam Hussein , in collaborazione con gli Stati
Uniti d'America e l'ONU!
Non si hanno a tutt'oggi cifre sicure
sulle vittime dei genocidi e delle "pulizie etniche" compiute
nella ex-Yugoslavia, in Liberia, Sierra Leone, Angola, Congo,
Libano, Corea del Nord, Sri Lanka, Haiti, Tibet ... e l'elenco
purtroppo si allunga ogni anno di più!
Era il 6 aprile 1994 quando il Presidente
del Ruanda, Juvenal Habyarimana e del Burundi Cyprien Ntaryamira,
venivano uccisi in un attentato aereo, mentre stavano atterrando
all’aeroporto di Kigali. Da lì è partito il genocidio tutsi che ha
portato a centinaia di migliaia di morti e negli anni a seguire al
rientro di almeno 500’000 profughi dall’ex Zaire e dalla Tanzania.
Prima, durante e dopo questi fatti la responsabilità del Nord,
dell’ONU e della comunità tutta è stata grande. Ci si rendeva conto
di quanto succedeva, di massacri tra persone della stessa terra,
fomentati da mezzi di comunicazione, ma senza una precisa idea su
come intervenire o forse senza la volontà di farlo. Addirittura
sono state richiamate le forze ONU presenti durante i fatti
stessi.
Nel 1994, in Rwanda, non si è consumato
solo il terzo genocidio del XX secolo. Dietro ai corpi di uomini,
donne e bambini dilaniati dai colpi di machete, accatastati lungo
le strade rosse e polverose, sparsi sui pavimenti di chiese e
scuole, galleggianti nelle acque dei fiumi e dei laghi del ‘paese
delle Mille Colline’, c’è molto di più. Un messaggio, un grido di
sdegno sale dalle foto e dai filmati che documentano (a dire la
verità solo in minima parte) l’ennesimo orrore africano, le
indescrivibili sofferenze patite da oltre un milione di vittime
ignorate prima e dimenticate poi dal compassionevole mondo
“civilizzato”, se così si può definire un Occidente da sempre più
attento ai propri interessi economici che alle conseguenze delle
proprie dissennate scelte politiche.
Testimoniare l’IndicibileIntervista
a Isabella Sandri.Spinta dal disinteresse
e dall’ignoranza dei media occidentali sulla questione ruandese,
Isabella Sandri ha deciso di documentare la vicenda dei rifugiati –
soprattutto donne – e dei sopravvissuti di uno dei più orribili
genocidi della storia umana. Una testimonianza che ci tiene a
qualificare come ‘genuina’, senza alcun intento storiografico o
propriamente documentaristico o addirittura
politico.
In un fazzoletto di terra
grande quanto la Toscana, in qualche anno, era sgorgato il sangue
di milioni di morti. Da qui comincia il viaggio della Sandri e la
sua testimonianza su ciò che è accaduto in Rwanda, nella regione
dei Grandi Laghi e nel Burundi.
Jura Gentium – Parlare di «due genocidi»
significa tentare di rendere più complessa la lettura di quella
storia, di uscire da un’interpretazione unilineare che, ancora
una volta, divide i buoni e i cattivi, le vittime e i carnefici.
Quanto è importante questo
atteggiamento?
Isabella Sandri – Nessuno parlava delle
centinaia di hutu morti ammazzati nell’ex-Zaire. Era la grande
vergogna delle organizzazioni umanitarie che si sono mosse con
grande ritardo. Poi l’Onu ha ammesso di avere sbagliato. Si
riteneva che questi profughi fossero tutti colpevoli. Erano hutu
scappati dopo il genocidio del ’94, ‘Sono tutti degli assassini’,
pensava l’opinione mondiale. Non erano particolarmente amati questi
hutu in fuga. Erano un argomento imbarazzante. ‘Sono tutti
coinvolti nel genocidio ai danni dei tutsi’. Era su questo ‘tutti’
che secondo me bisognava ragionare, e anche – soprattutto – su
questa specie di ‘applicazione’ della pena di morte. Indistinta.
‘Sono tutti colpevoli perciò devono tutti morire’. In mezzo a loro
c’erano bambini che nel ’94 non erano ancora nati, o che
sicuramente non potevano reggere un machete, neanche a tre, quattro
anni. Ma in quanto figli di probabili assassini dovevano
morire.
E comunque, anche se tra di loro ci
fossero stati dei carnefici, degli Interahamwe (e ce
n’erano, sicuramente) erano proprio loro che terrorizzavano le
persone in fuga (della loro stessa ‘razza’!) e detenevano il potere
nei campi. Questi profughi subivano sicuramente il peso della colpa
che avevano commesso (penso lo subissero, da come parlavano e si
comportavano…), subivano gli attacchi della loro stessa gente (gli
Interahamwe, cioè gli hutu estremisti) e l’odio dei
soldati sia zairesi che i mercenari assoldati dai vari governi per
destabilizzare la regione.
JG – Lei ha cercato di comunicare questo
spirito alle persone che ha
intervistato?
IS
– L’atteggiamento che ho quando parlo con dei testimoni è di
assoluta ricettività. Offro lo spazio perché le parole possano
essere registrate, filmate, riportate. Sono lì per loro. Sono un
foglio di carta bianca, un recipiente concavo, occhi e orecchie a
loro totale disposizione. Ho visto davanti a me persone che non
capivano che cosa era successo loro, rese imbecilli dalla fame e
dalla paura, malate, distrutte, terrorizzate, che tornavano alla
Petite Barrière a Gisengy, dopo essere scappate per
migliaia di chilometri in fuga, dai campi profughi, gli stessi
campi che dovevano dare loro protezione. Non dimentichiamo gli
assassini della mattanza dell’aprile-maggio ’94 erano tutti hutu,
la grande maggioranza della popolazione (perché altrimenti, come
sarebbero riusciti a fare così tanti morti in così poco tempo?),
donne bambini e perfino religiosi. Ma sono stati uccisi anche molti
hutu moderati perché, come ormai sappiamo, non è stato un genocidio
etnico ma uno scontro per accaparrarsi il potere e quindi gli hutu
moderati erano scomodi, erano dei nemici. Sono stati i primi a
essere uccisi. L’etnia è stata solo un
pretesto.
JG – Gli spiriti delle mille
colline è strutturato quasi interamente intorno alle interviste.
Quanto è importante la testimonianza diretta per raccontare quella
vicenda? Ha mai avuto l’impressione che non fosse possibile
raccontare tutto da parte delle vittime, come in altre vicende
storiche legate a genocidi o per esempio nell’olocausto degli
ebrei?
IS – È strutturato sulle interviste perché era importante che
i testimoni potessero parlare e dire quello che era loro successo.
E cioè che erano stati dimenticati. Che l’opinione internazionale
se ne era lavata le mani. Erano degli indifendibili. E se c’era
stata la follia della mattanza dei cento giorni del ’94, c’era
anche stata la follia diluita nell’arco di tre anni – dal ’94 al
’97 – ai danni di questi ‘indifendibili’.
Credo sia assolutamente impossibile ‘tradurre’, trasmettere il
dolore, la violenza e la paura che si provano quando si è vittime,
a chi è comodamente seduto in un angolo tranquillo del ‘primo
mondo’. È un altro linguaggio quello che si usa per testimoniare.
Sono parole e volti. È un linguaggio solo visivo e orale. Non è la
paura e non è il dolore (come possiamo immaginarli se non li
proviamo?). Ma non per questo è inutile. Anzi, credo che sempre e
comunque sia necessario, perché anche se a fronte di centinaia di
migliaia di ore di documentari, interviste, articoli di giornali,
servizi televisivi, libri, opere teatrali e tutto quello che a noi
del ‘primo mondo’ può venire in mente, anche se alla fine – dicevo
– si riuscisse solo a sfiorare con piccole dita la parete di
qualche anima, bene: quello ‘sfiorare’ già sarebbe un risultato per
cui vale la pena lavorare.
JG – Nel documentario ha
deciso di non insistere molto sulle origini storiche della frattura
sociale in Rwanda, sulle cause e sulla storia coloniale del paese.
Lo stesso per quanto riguarda le responsabilità dirette e indirette
dei paesi occidentali. Ha avuto l’impressione che non fosse un
argomento così importante per comprendere i due
genocidi?
IS – No, no. Non sono una giornalista, né una
politologa. Per me era urgente incontrare questi ‘testimoni’
scampati allo sterminio nell’ex-Zaire, e che sicuramente avevano
qualcosa da dire, che potevano raccontare quello che era loro
successo. Certo, sarebbe importante fare luce sugli interessi
internazionali di tutte le potenze coinvolte, e i conflitti che
nascono per la spartizione delle ricchezze nell’ex-Congo (i
diamanti, i minerali, non ultimo il ‘coltan’, utilizzato
nell’industria della telefonia mobile) e nella regione dei Grandi
Laghi, una spartizione tra le potenze colonialiste anglofone e
francofone (Francia, Belgio, Stati Uniti). Tuttavia, mi spiace
doverlo dire, ma questi profughi erano negli ultimi scalini della
gerarchia sociale ed erano all’oscuro (purtroppo non essendo
passati per i laboratori gramsciani, e avendo perso la grande
occasione di Lumumba) di queste problematiche così chiare allo
spettatore del ‘primo mondo’. Erano sorpresi, stupefatti, attoniti
e stremati. L’unica cosa che chiedevano era un po’ di cibo o una
coperta. Assassini compresi. Per rispondere a queste domande avrei
dovuto fare un altro tipo di documentario. Come si dice: ‘Non è
nelle mie corde’. Ma se qualcuno lo volesse realizzare sarei ben
contenta di vederlo. Questa sua esigenza più che legittima di
informazione nasce da un vuoto mediatico che solo in questi ultimi
anni si sta colmando.
JG – La maggior parte delle
intervistate sono donne. Perché è importante una testimonianza ‘di
genere’ nell’orrore dei genocidi? Quale ruolo hanno avuto le donne,
non solo in quanto vittime, ma anche in quanto ‘carnefici’, in
quanto esecutrici o sostenitrici della violenza nei
genocidi?
IS – Purtroppo in questo caso si può parlare di parità
tra i sessi. Sono colpevoli le donne quanto gli uomini degli
assassini del ’94. Per quanto riguarda i profughi hutu, non so se
tra i capi estremisti Interahamwe, ci sono o c’erano delle
donne. Ho come l’impressione (ma è solo un’impressione, per carità)
che in queste lotte di potere, che hanno pilotato le mattanze, le
donne non ci siano più. Ma come vittime le donne ci sono sempre,
sia da una parte che dall’altra, sia tra i tutsi che tra gli hutu.
Inoltre potrei rispondere a mia volta con una domanda: «Perché un
regista nero fa film sui neri»? Poiché sono una donna mi è venuto
naturale parlare con le donne («woman is the nigger of the world»),
così come per un governo fatto di uomini è normale eleggere un
parlamento quasi completamente di uomini, così come chiese,
religioni, confessioni fatte principalmente dagli uomini creano e
nominano uomini e non donne come loro capi spirituali. Così¼ Perché
viene loro naturale. E anche a me è venuto naturale. Anzi, adesso
che qualcuno me lo dice me ne accorgo, altrimenti neanche me ne
accorgevo.
JG
– Quanto tempo ha impiegato per la preparazione e la realizzazione
delle interviste? Quali condizioni di lavoro ha trovato in
Rwanda?
IS – Sono rimasta in Rwanda per più di un
mese. La troupe era ridottissima nel senso che ero da sola. Ho
fatto anche le riprese e il suono. Ero invisibile e non creavo
problemi perché ero quasi trasparente (sola e donna…). I soldati mi
degnavano sì e no di uno sguardo. Sono state per me ottime
condizioni di lavoro. Avevo un interprete hutu (anzi metà hutu e
metà belga. La madre hutu – ovviamente – e il padre belga) che
all’inizio trattava male le donne hutu che stavano rimpatriando
perché le considerava di rango inferiore al suo (lui era mezzo
bianco!) e comunque delle ignoranti incapaci di pensieri ed
emozioni. In più erano delle donne. È stata la cosa più difficile,
quella di costringerlo a tradurre tutto e non tralasciare le
sfumature dei discorsi. E a pregarlo di essere più gentile con
queste donne (e bambine) che avevano sofferto così
tanto.
Intervista a cura di Filippo Del
Lucchese
Marzo 2005
colori
quanti colori
sulla tela dell'anima
mia.....
in vortice mischiati e su di essa
gettati
con l'ordine del
caos....
un dipinto
astratto....immateriale
che parla di sè, al mondo e a se
stesso...
quanti colori
sulla tela dell'anima
mia
illuminano ed oscurano il volto
delle mie emozioni.
by
Logicamente3ndi
Ilgenocidio in Ruanda del 1994fu uno dei
piu' sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dove, per
l'ennesima volta, il colpevole disinteresse del mondo ha permesso e
contribuito al verificarsi dei tragici eventi.Dal 6 aprile 1994 al 16 luglio 1994 vennero MASSACRATE
sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni
chiodati) tra 800.000 e 1.100.000 persone (Uomini, Donne e
Bambini).
Le vittime sono state in massima parte di
etniaTutsi, che
costituisce una minoranza rispetto agliHutu, a cui facevano capo i due gruppi
paramilitari principalmente responsabili dell'eccidio,InterahamweeImpuzamugambi. I massacri non risparmiarono neanche una larga
parte di Hutu moderati, soprattutto personaggi
politici.
Le divisioni etniche del paese sono state opera
principalmente del dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi
belga, che inizio' a dividere le persone con l'introduzione della
carta d'identita' etnica e favorire quelli che consideravano piu'
ricchi e di diversa origine: i Tutsi. In realta' Tutsi e Hutu fanno parte dello stesso
ceppo etnico culturale Bantu e parlano la stessa
lingua. Il genocidio termino' col rovesciamento del
governo Hutu e la presa del potere, nel luglio del 1994, dell'FPR,
il Fronte Patriottico Ruandese.
Il 22 giugno Francia, Gran Bretagna e Belgio
inviarono truppe (la tristemente famosaoperazione turquoise) per la protezione e
l'evacuazione dei PROPRI cittadini. Salvati gli europei, la
comunita' internazionale e l'ONU abbandonarono i ruandesi alla
furia dei machete, mentre discutevano se si trattasse o meno di
genocidio. L'intervento venne pero' utilizzato dagli autori dei
massacri per proteggere la propria fuga dal paese.
La storia del Ruanda (e del resto del mondo
colpevolmente assente) fu segnata inesorabilmente da
questogenocidio del 1994: si calcola che circa 1 MILIONE di persone vennero massacrate
da estremistiHutue
dalle milizieInterhamwefedeli al presidente Juvenal Habyarimana. Su una popolazione di 7.300.000, di cui l'84 %
Hutu, il 15 % Tutsi e l'1 % Twa, le cifre ufficiali diffuse dal
governo ruandese parlano di 1.174.000 persone uccise in soli 100
giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al
minuto).
Brani tratti dal libro “Le ferite del
silenzio” diYolande
Mukagasana
G.
Augustin 36 anni, resistente di Bisesero
(Kibuye)
A.G. – Le donne e i bambini raccoglievano i
sassi e gli uomini combattevano con gli assassini. Abbiamo cercato
di andare sulle colline. C’erano dei camion e dei bus pieni di
miliziani e di persone, provenienti da varie zone, che si erano
unite a loro. Bisesero è diventato un campo di battaglia. Ci siamo
raggruppati sulla collina di Muyira. Gli assassini l’hanno
circondata. Hanno cominciato il loro lavoro. I morti erano
numerosi, Muyira era coperta di cadaveri di donne, di uomini e di
bambini. Siamo stati attaccati tutti i giorni fino all’arrivo dei
Francesi. Non eravamo più in molti ed eravamo indeboliti dalla
fame, dalle ferite e dal dolore.
Y. M. – I Francesi vi hanno aiutato?
A.G. – I soldati francesi? Sono venuti a dare man forte agli autori
del genocidio! È tutto. Ci hanno disarmato, hanno combattuto il
FPR, ci sono stati persino dei morti tra loro. Ho visto il cadavere
di un soldato francese. Per me, i Francesi sono venuti a sostenere
il genocidio.
Y.M. – Non pensi di esagerare un po’?
A.G. – Per niente. I Francesi, nella loro logica di sostegno al
governo genocida, ci vedevano come dei nemici. Hanno permesso agli
artefici del genocidio di fuggire in Zaire. Per me, i Francesi sono
degli assassini.
Y.M. – Per te è importate testimoniare?
A.G. – Il nostro dolore non impedisce al mondo di dormire. Ma ci
resta solo la parola. Abbiamo perso tutto, tranne la nostra lingua.
Allora, che altro possiamo fare se non testimoniare? Oggi, alla
Francia non piace il governo ruandese, quello che ha fermato il
genocidio. E per questo non ascolta la nostra testimonianza, non
vuole sapere. Ma noi superstiti non siamo il governo ruandese. È
come se noi dicessimo che ogni Francese è colpevole del genocidio
dei Tutsi. È assurdo. È la Francia che è colpevole di complicità di
genocidio, non i Francesi. La Francia discredita il Ruanda di oggi
agli occhi del mondo.
T. Laetitia 30 anni, superstite,
Kigali
L.T. – Il 7 aprile, abbiamo
dato dei soldi a dei militari per negoziare la nostra salvezza.
Il 9 aprile 1994, abbiamo cercato rifugio alla Scuola tecnica
officiale. Era piena, i Caschi blu la proteggevano. Ma dopo
quattro giorni, il generale R è venuto a discutere con loro e
hanno fatto i bagagli e ci hanno abbandonato. Subito dopo la loro
partenza, delle granate sono cadute tra la folla, lanciate dalla
pista dai miliziani. Siamo scappati disperdendoci nelle strade,
con la vaga idea di rifugiarci allo stadio Amahoro. Ma i
miliziani ci hanno circondato. Abbiamo fatto segno ad alcuni
veicoli di altri Caschi blu che passavano davanti a noi ma non si
sono fermati. È allora che un ufficiale ha dato l’ordine ai
miliziani di farci salire sulla collina di Kicukiro e di
sopprimerci lassù, in modo da evitare che i nostri cadaveri
impestassero Kigali.
In cima alla collina, abbiamo
subito un diluvio di granate, ho visto dei brandelli di carne
volare nell’aria. Un’ora e mezza dopo, i miliziani sono entrati
nella folla e ci hanno tagliato a pezzi con i machete. Al secondo
colpo, sono svenuta. Quando mi sono svegliata, ero completamente
nuda. Eravamo forse una decina di superstiti. Ci siamo nascosti nei
cespugli. Allora un militare dei FAR è passato vicino a noi.
L’abbiamo chiamato e gli abbiamo chiesto di finirci. Ma ha
rifiutato. È andato a cercare dell’acqua, poi ci ha indicato una
via tramite la quale, venuta la notte, avremmo potuto raggiungere
le posizioni del FPR. Così sono stata salvata. Ma dopo il
genocidio, ho avuto delle voglie strane. M piaceva mangiare la
terra. Ne mangiavo molta e non è molto che ho smesso. Mi piaceva
anche il gusto della polvere.
Y.M. – E che speranza hai oggi?
L.T. (sorridendo) – Non ho speranza. Non posso stare molto al sole,
altrimenti svengo. Mi basterebbe una piccola somma di denaro per
aprire un piccolo commercio, ma so che non l’avrò mai.
Y.M. – Quanto?
L.T. – 150.000 franchi ruandesi. (L’equivalente di 15.000 franchi
belgi, 600.000 Lire).