E allora corse, senza più sapere se il tempo la piegasse avanti o indietro, se il vento le fosse complice o giudice severo. Solo la corsa le restava certa, come il sapore ferroso delle cose che si capiscono troppo tardi, come il giallo disteso sulle spighe quando il sole le brucia piano, senza biasimare.
Correva con il fiato che le sfaldava le costole, con il respiro trattenuto tra i denti per non lasciare che il pensiero si spargesse tra le sterpaglie e i sassi. Correva con il battito che le martellava le tempie e con l’eco di lui ancora vivo nel petto. Lui che ora era distanza, assenza divenuta sostanza, nel suo vuoto che si era fatto di carne e di peso. E ogni passo che affondava nella terra bianca le parlava di un’estate madida e smarrita, di un aprile dissolto nella bruma, di un maggio che non avrebbe più accolto le ginestre lungo i sentieri che in due percorrevano scalzi, quando il mondo straripava ancora negli oceani delle promesse rarefatte. Erano intonsi e giovani. Erano così passati e lontanissimi.
Ora sapeva, e lo sapeva con la ferocia della certezza, senza più indulgenze né attenuanti. Sapeva che certe distanze non sono altro che lo specchio di chi si è stati, del timore con cui si è vissuto vivacchiando, della vigliaccheria con cui si è amato disamorando. Era il tempo crudele e trasparente di vetro (in)frangibile, quello rimasto solo con se stesso e che non biascicava più le scuse e né più soprassedeva metitabondo e conciliante.
"È così breve l'amore, e così lungo l'oblio."
Made