L' ARCHIVIO DELLE RECENSIONI

Ritrovare in libreria un autore come Andrea Vitali è , per chi scrive, come ritrovare un vecchio amore. E come in ogni vecchio amore che si rispetti, nei libri di Vitali l’innamorato ritrova pregi e difetti di cui aveva smarrito la memoria. Nei vecchi amori editoriali, come in quelli in carne ed ossa, non si cerca l’eccitazione dell’ignoto, il viaggio nella foresta vergine inesplorata, lo sconvolgimento ormonale per la novità che si annuncia gravida di piacevoli (o spiacevoli) sorprese. Si sa già quello che ci aspetta e questa certezza a volte può essere parecchio rassicurante, perché ognuno di noi, nella vita come nella letteratura, necessita in egual modo, a seconda del momento, del riparo che offrono le certezze e del sapore d’avventura che solo le frontiere sconosciute possono dare.
Non sfugge ovviamente alla regola del “vecchio amore” neppure l’ultima “fatica” letteraria di Vitali, La leggenda del morto contento, un tuffo nella Bellano asburgica della prima metà dell’ottocento per un’ operazione che olezza intensamente, però, di camillerismo spinto.
E qui già s’intravedono i primi difetti del “vecchio amore”, peraltro noti. Come Camilleri, anche Vitali scrive troppo e come Camilleri, il suo dioscuro meridionale, sembra vittima delle leggi impietose della grande editoria che vincola gli autori più redditizi con contratti-capestro, costringendoli a sfornare un certo numero di libri all’anno a prescindere dallo stato di salute della loro creatività. Insomma, lungo il confine sottile che corre tra uno scrittore prolifico (es.Simenon) e uno scrittore “schiavizzato”, si ha ormai la spiacevole sensazione che per Vitali e Camilleri si abbia a che fare con la seconda delle opzioni.
Ma se Camilleri finora se l’è cavata, più o meno, diversificando generi e fondali d’ambientazione dei suoi ultimi lavori (con esiti comunque ugualmente discutibili, soprattutto se paragonati alla freschezza e alla intensità di libri come La forma dell’acqua ), il povero Vitali , saccheggiate tutte le chiacchere di comari e le fole di paese del ventennio fascista e del primo dopoguerra, stavolta dà l’impressione di essersi dovuto arrampicare sugli specchi per accontentare i suoi aguzzini, partorendo una storia più soporifera e noiosa della predica di un pastore metodista.
Tutto ruota attorno ad un viaggio in barca, a caccia di bagordi nei borghi viciniori, compiuto da due rampolli di famiglie benestanti in una torrida giornata di fine luglio del 1843. Viaggio finito tragicamente, perché nel bel mezzo della traversata si scatena, come talvolta capita sui grandi laghi lombardi, una spaventosa ed imprevista tempesta di vento che rovescia la barca, uccide il figlio unico dell’uomo più ricco di Bellano e disperde il suo compagno, figlio di un ingegnere svizzero e ospite di un’altra famiglia altoborghese del posto.
Una tragedia come tante, quindi, a cui però ha assistito il sarto del paese, un povero cristo che, per sfuggire alle grinfie di una moglie bisbetica, all’ora di pranzo ogni tanto si rifugia nella solitudine del molo. Il sarto, tra l’altro, si diletta di meteorologia e ha intuito, provando inutilmente ad avvisare alla partenza i due scavezzacollo, il prossimo mutare violento del tempo.
Ad un canovaccio che , come si può già intuire da queste scarne indicazioni, di suo non è dei più appetitosi , Vitali aggiunge anche una certa stanchezza che traspare evidente nel corso della lettura, non fosse altro per la fretta con cui liquida l’unica parte del romanzo che avrebbe potuto risollevarlo e che non stiamo qua a dire per non privare il lettore della sorpresa. Tutto il resto è effervescente e sapida descrizione dei soliti personaggi di paese-poveri e ricchi, umili e potenti- e dei loro vizi e vizietti. Qui Vitali dà, come al solito, il meglio di sé, dipingendo il consueto affresco collettivo di miserie e nobiltà che ricorda certi quadri del rinascimento fiammingo, impietosi nel disvelare il grottesco e il ridicolo dell’animo umano. Ma si avverte tangibilmente la mancanza di qualcosa, quel qualcosa che ha reso unici, presso gli affezionati lettori, libri come La figlia del Podestà, Olive comprese e Una finestra vistalago: manca il divertimento dello scrittore, quel piacere di raccontare che affiorava nitido in altri romanzi e che sapeva trasformare la banalità in epica, la vita quotidiana di un modesto villaggio lacustre in un caleidoscopio esilarante di fatti e personaggi dove la risata giunge puntuale ad ogni paragrafo, spontanea e impossibile da trattenere.
Vitali ha un merito che nemmeno il più accanito dei detrattori (e lui ne ha tanti tra i soloni della critica ufficiale) potrà mai negargli: aver reso la sua Bellano un ombelico del mondo, un luogo marginalizzato dalla Storia che riesce ugualmente a far parlare di sé coi suoi prevosti, i suoi sindaci, i suoi marescialli, i suoi nullafacenti da osteria, le sue pettegole e micidiali beghine. Ma nella Leggenda si percepisce chiaramente come il grande burattinaio di queste originalissime maschere della commedia umana stavolta nello spettacolo ci abbia messo solo il mestiere, lasciando mestamente a casa la passione.