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LA CANTINA DEI LIBRI
Recensioni di libri nati bene e invecchiati meglio

 

 

 
“Poi è arrivato il periodo delle elezioni  e Berlusconi ha messo nel suo programma …la possibilità di un condono che veniva chiamato tombale, e a giudicare dalla definizione i nostri soppalchi rientravano ampiamente….Insomma, cercando di dirla per quel che era: avremmo risolto i nostri problemi se Berlusconi avesse vinto le elezioni….intanto che speravamo che vincesse la sinistra, non ci sarebbe dispiaciuto del tutto se avesse perso…”
 
 
Faccio una premessa che ritengo imprescindibile: non si compra  Il desiderio di essere come tutti se non si appartiene alla medesima koinè umana, valoriale e culturale a cui appartiene l’autore, perché in caso contrario potrebbe rivelarsi un acquisto inutile e persino irritante.  In Italia la stragrande maggioranza dei cittadini – elettori ha infatti orientamenti politici di centro destra (compreso un buon 50 per cento di grillini*), motivo per cui acquistare un libro come quello dello scrittore casertano per costoro  potrebbe  significare soltanto aver sprecato denaro e fatto provviste di nervosismo per tutto l’inverno.  E dico questo pur nella consapevolezza che il romanzo autobiografico di Piccolo è tutto meno che un testo  imbevuto di faziosità,  furori ideologici e  legnosità dogmatiche; in ogni caso, però, racconta una storia con la s minuscola (la sua) ed una con la S maiuscola (quella dell’Italia dalla metà degli anni settanta ad oggi e della coeva evoluzione –involuzione del PCI) che  solo chi si è trovato su un certo lato della barricata può comprendere fino in fondo e apprezzare fino in fondo. 
Chi scrive questa appartenenza al medesimo campo da gioco dell’autore l’ha avvertita profondamente, anche se, a stretto rigore, non ha militato sotto le sue stesse bandiere: Piccolo  è stato un simpatizzante comunista “innamorato” di Berlinguer; l’estensore di queste note è stato invece un pertiniano senza tessere ostile a qualsiasi spostamento a destra del socialismo democratico (la famigerata “mutazione genetica” denunziata a suo tempo da Riccardo Lombardi) ma anche parecchio distante (politicamente) da comunismi e comunisti. Il punto d’incontro? L’antipatia per Craxi ed il craxismo e, dopo, per la sua naturale conseguenza:  il berlusconismo.
Per il comunista Piccolo Craxi ha rappresentato, a torto o a ragione, l’elemento di disturbo che,  dopo il rapimento e l’omicidio di Moro,  ha affossato definitivamente il compromesso storico,  ponendosi come interlocutore privilegiato  della Dc e condannando all’opposizione  il PCI di Enrico Berlinguer; per il qui scrivente Craxi – pose illiberali e derive tangentistiche a parte - è stato semplicemente il necroforo di una certa idea di socialismo e  l'artefice di un’altra - tuttora purtroppo in auge - che con i principi del socialismo classico ha poco o nulla da spartire. 
Ma il libro di Piccolo, attenzione, non è né un nostalgico e sterile “come eravamo” (malgrado il famoso film con Redford e la Streisand venga richiamato più volte nel corso della narrazione) e nemmeno un isterico e livoroso “cosa siamo diventati”. E’ semplicemente  la storia di un percorso - umano, ideale e professionale -  che parte dalla Reggia di Caserta e da un bambino di 9 anni che ruba gelati e arriva quasi ai giorni nostri, passando per i mondiali di calcio del 1970, il colera di Napoli del 1973, l’assassinio di Aldo Moro e della scorta, il terremoto dell’Irpinia, l’ascesa di Craxi, la morte di Berlinguer, Tangentopoli e l’avvento  della  seconda repubblica, la parentesi ulivista e il ventennio berlusconiano. 
Inframmezzati agli  eventi e alle persone  pubblici,  “di tutti”,  gli eventi e  le persone della sfera privata: il padre di simpatie conservatrici, lo zio democristiano, la zia comunista, la compagna di banco militante della sinistra extraparlamentare, una moglie dall’indole atarassica (soprannominata non a caso “Chesaramai”). Ognuno di loro è un tassello fondamentale del mosaico di vita e di opere creato dallo scrittore, senza il quale si perderebbe il senso del tutto. Così come fondamentali si rivelano, dissipando subito nel lettore il dubbio sulla loro congruenza , i riferimenti letterari e cinematografici di cui è infarcito il libro: il già ricordato film di Sydney Pollack , il capolavoro “America” di Altman e il racconto di Raymond Carver che lo ha ispirato, la “Terrazza” di Ettore Scola, quell’inarrivabile vertice della letteratura europea che è “La promessa” di Durrenmatt e, soprattutto, Max Weber  e la sua distinzione tra l’etica dei principi e  l’etica delle responsabilità. 
Con il filosofo tedesco, infatti, si arriva allo snodo centrale della narrazione, senza il quale non si può comprendere lo sguardo disincantato sulle proprie “viscere” di uomo di sinistra che Piccolo – contrariamente a tanti altri- ha avuto il coraggio di  gettare.  
Piccolo innanzitutto ha distinto il suo lavoro in due parti : la prima parte si intitola  “La vita pura: io e Berlinguer”; la seconda parte  “La vita impura: io e Berlusconi”. Detta così, potrebbe sembrare che tutta l’opera sia un inno alla vita pura e un continuo ripudio di quella impura. Niente di più sbagliato: il ragionamento di Piccolo è molto più complesso e intelligente e tocca corde profonde e abissi insondati delle vicende del riformismo  italiano.
E’  qua, tra l’altro, che entra in gioco  Weber e la sua etica a due velocità: con Berlinguer prima e poi col Bertinotti del divorzio dal governo Prodi del 1998, Piccolo e tanti altri come lui   hanno  sposato senza tentennamenti l’etica dei principi, orgogliosi della propria diversità, della propria minorità, del far parte di una schiatta nobile e perdente. Ma chi l’ha detto che è sempre questa la marcia giusta da  ingranare  davanti agli incroci della Storia ? Se Berlinguer, dopo il fallimento del compromesso storico, ha avuto i suoi buoni motivi per arroccarsi nella ridotta della Valtellina della questione morale e di un PCI altezzosamente diverso e migliore della diarchia craxiano-democristiana, la Valtellina  di Bertinotti ha regalato il Paese al predominio ventennale delle destre e per motivazioni dall’importanza inversamente proporzionale alle conseguenze dello strappo. 
D’altro canto, fa capire Piccolo, la successiva, sofferta adesione, nel corso del nuovo millennio, del popolo di sinistra all’etica delle responsabilità  a scapito dell’etica dei principi (il che, tradotto, vuol dire  semplicemente una sinistra che si sporca le mani con la fatica del governare),  è stato sì un passaggio indispensabile per un elettorato e una classe politica che aspiravano a diventare forza motrice del Paese, ma anche la rivelazione per molti di una alterità mancata, uno scoprirsi maledettamente simili per certi aspetti al nemico, perfino a  quel nemico incarnato da   Silvio Berlusconi,  sintesi iconica del peggio nazionale, perché, in definitiva: “Berlusconi è meglio se perde, però  - cavoli - se vince  mi sano il soppalco…”
Affresco d’epoca  e testimonianza di un sentire  individuale e collettivo che ha marcato  una sofferta stagione del nostro Paese, il  libro-confessione di Piccolo tuttavia non fa sconti ai sentimenti e scava nel meandri inesplorati delle velleità e dei desideri della   generazione del pugno chiuso mettendone  a nudo dubbi e contraddizioni,  debolezze e lacerazioni.  Una radiografia impietosa e complice al contempo che solo ai militanti di sinistra, chissà perché, riesce sempre bene.
 
*All'epoca in cui è stata scritta la recensione
 
da lacantinadeilibri.blogspot.com
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