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francesco61dgl2 17 agosto
LA CANTINA DEI LIBRI
Recensioni di libri nati bene e invecchiati meglio

 

 

 
“Poi è arrivato il periodo delle elezioni  e Berlusconi ha messo nel suo programma …la possibilità di un condono che veniva chiamato tombale, e a giudicare dalla definizione i nostri soppalchi rientravano ampiamente….Insomma, cercando di dirla per quel che era: avremmo risolto i nostri problemi se Berlusconi avesse vinto le elezioni….intanto che speravamo che vincesse la sinistra, non ci sarebbe dispiaciuto del tutto se avesse perso…”
 
 
Faccio una premessa che ritengo imprescindibile: non si compra  Il desiderio di essere come tutti se non si appartiene alla medesima koinè umana, valoriale e culturale a cui appartiene l’autore, perché in caso contrario potrebbe rivelarsi un acquisto inutile e persino irritante.  In Italia la stragrande maggioranza dei cittadini – elettori ha infatti orientamenti politici di centro destra (compreso un buon 50 per cento di grillini*), motivo per cui acquistare un libro come quello dello scrittore casertano per costoro  potrebbe  significare soltanto aver sprecato denaro e fatto provviste di nervosismo per tutto l’inverno.  E dico questo pur nella consapevolezza che il romanzo autobiografico di Piccolo è tutto meno che un testo  imbevuto di faziosità,  furori ideologici e  legnosità dogmatiche; in ogni caso, però, racconta una storia con la s minuscola (la sua) ed una con la S maiuscola (quella dell’Italia dalla metà degli anni settanta ad oggi e della coeva evoluzione –involuzione del PCI) che  solo chi si è trovato su un certo lato della barricata può comprendere fino in fondo e apprezzare fino in fondo. 
Chi scrive questa appartenenza al medesimo campo da gioco dell’autore l’ha avvertita profondamente, anche se, a stretto rigore, non ha militato sotto le sue stesse bandiere: Piccolo  è stato un simpatizzante comunista “innamorato” di Berlinguer; l’estensore di queste note è stato invece un pertiniano senza tessere ostile a qualsiasi spostamento a destra del socialismo democratico (la famigerata “mutazione genetica” denunziata a suo tempo da Riccardo Lombardi) ma anche parecchio distante (politicamente) da comunismi e comunisti. Il punto d’incontro? L’antipatia per Craxi ed il craxismo e, dopo, per la sua naturale conseguenza:  il berlusconismo.
Per il comunista Piccolo Craxi ha rappresentato, a torto o a ragione, l’elemento di disturbo che,  dopo il rapimento e l’omicidio di Moro,  ha affossato definitivamente il compromesso storico,  ponendosi come interlocutore privilegiato  della Dc e condannando all’opposizione  il PCI di Enrico Berlinguer; per il qui scrivente Craxi – pose illiberali e derive tangentistiche a parte - è stato semplicemente il necroforo di una certa idea di socialismo e  l'artefice di un’altra - tuttora purtroppo in auge - che con i principi del socialismo classico ha poco o nulla da spartire. 
Ma il libro di Piccolo, attenzione, non è né un nostalgico e sterile “come eravamo” (malgrado il famoso film con Redford e la Streisand venga richiamato più volte nel corso della narrazione) e nemmeno un isterico e livoroso “cosa siamo diventati”. E’ semplicemente  la storia di un percorso - umano, ideale e professionale -  che parte dalla Reggia di Caserta e da un bambino di 9 anni che ruba gelati e arriva quasi ai giorni nostri, passando per i mondiali di calcio del 1970, il colera di Napoli del 1973, l’assassinio di Aldo Moro e della scorta, il terremoto dell’Irpinia, l’ascesa di Craxi, la morte di Berlinguer, Tangentopoli e l’avvento  della  seconda repubblica, la parentesi ulivista e il ventennio berlusconiano. 
Inframmezzati agli  eventi e alle persone  pubblici,  “di tutti”,  gli eventi e  le persone della sfera privata: il padre di simpatie conservatrici, lo zio democristiano, la zia comunista, la compagna di banco militante della sinistra extraparlamentare, una moglie dall’indole atarassica (soprannominata non a caso “Chesaramai”). Ognuno di loro è un tassello fondamentale del mosaico di vita e di opere creato dallo scrittore, senza il quale si perderebbe il senso del tutto. Così come fondamentali si rivelano, dissipando subito nel lettore il dubbio sulla loro congruenza , i riferimenti letterari e cinematografici di cui è infarcito il libro: il già ricordato film di Sydney Pollack , il capolavoro “America” di Altman e il racconto di Raymond Carver che lo ha ispirato, la “Terrazza” di Ettore Scola, quell’inarrivabile vertice della letteratura europea che è “La promessa” di Durrenmatt e, soprattutto, Max Weber  e la sua distinzione tra l’etica dei principi e  l’etica delle responsabilità. 
Con il filosofo tedesco, infatti, si arriva allo snodo centrale della narrazione, senza il quale non si può comprendere lo sguardo disincantato sulle proprie “viscere” di uomo di sinistra che Piccolo – contrariamente a tanti altri- ha avuto il coraggio di  gettare.  
Piccolo innanzitutto ha distinto il suo lavoro in due parti : la prima parte si intitola  “La vita pura: io e Berlinguer”; la seconda parte  “La vita impura: io e Berlusconi”. Detta così, potrebbe sembrare che tutta l’opera sia un inno alla vita pura e un continuo ripudio di quella impura. Niente di più sbagliato: il ragionamento di Piccolo è molto più complesso e intelligente e tocca corde profonde e abissi insondati delle vicende del riformismo  italiano.
E’  qua, tra l’altro, che entra in gioco  Weber e la sua etica a due velocità: con Berlinguer prima e poi col Bertinotti del divorzio dal governo Prodi del 1998, Piccolo e tanti altri come lui   hanno  sposato senza tentennamenti l’etica dei principi, orgogliosi della propria diversità, della propria minorità, del far parte di una schiatta nobile e perdente. Ma chi l’ha detto che è sempre questa la marcia giusta da  ingranare  davanti agli incroci della Storia ? Se Berlinguer, dopo il fallimento del compromesso storico, ha avuto i suoi buoni motivi per arroccarsi nella ridotta della Valtellina della questione morale e di un PCI altezzosamente diverso e migliore della diarchia craxiano-democristiana, la Valtellina  di Bertinotti ha regalato il Paese al predominio ventennale delle destre e per motivazioni dall’importanza inversamente proporzionale alle conseguenze dello strappo. 
D’altro canto, fa capire Piccolo, la successiva, sofferta adesione, nel corso del nuovo millennio, del popolo di sinistra all’etica delle responsabilità  a scapito dell’etica dei principi (il che, tradotto, vuol dire  semplicemente una sinistra che si sporca le mani con la fatica del governare),  è stato sì un passaggio indispensabile per un elettorato e una classe politica che aspiravano a diventare forza motrice del Paese, ma anche la rivelazione per molti di una alterità mancata, uno scoprirsi maledettamente simili per certi aspetti al nemico, perfino a  quel nemico incarnato da   Silvio Berlusconi,  sintesi iconica del peggio nazionale, perché, in definitiva: “Berlusconi è meglio se perde, però  - cavoli - se vince  mi sano il soppalco…”
Affresco d’epoca  e testimonianza di un sentire  individuale e collettivo che ha marcato  una sofferta stagione del nostro Paese, il  libro-confessione di Piccolo tuttavia non fa sconti ai sentimenti e scava nel meandri inesplorati delle velleità e dei desideri della   generazione del pugno chiuso mettendone  a nudo dubbi e contraddizioni,  debolezze e lacerazioni.  Una radiografia impietosa e complice al contempo che solo ai militanti di sinistra, chissà perché, riesce sempre bene.
 
*All'epoca in cui è stata scritta la recensione
 
da lacantinadeilibri.blogspot.com
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francesco61dgl2 11 agosto

  L’ANGOLO DEL RACCONTO

 

TIE BREAK

Lo tiro forte o lo tiro piano? Se lo tiro forte, rischio di sprecare la prima palla di servizio. Se lo tiro piano, rischio di bruciarmi il match-point…Lo tiro forte, chi se ne frega. Tanto, ho  unaltra  possibilità. Ma guardaloCè rimasto  male:  sette-cinque,  sei-sei,  sei-quattro parziale al tie-break. E questo potrebbe essere il sigillo nale. Povero Andrea. Lui che è abituato sempre a vincere. Lui e quel suo sorriso da pubblicità di dentifricio. Sempre inappuntabile, completo grigio, cravatta Regimental, camicia bianca con ferma-polsi d’oro. Sempre sull’onda, il caro Andrea. Fin dai tempi dell’Università. Da quanto tempo ci conosciamo, eh stronzone? Quante volte ti ho salvato il didietro agli esami? Il paparino ti comprava i libri e tu li lasciavi ammufre sullo scaffale. Tanto c’era Pierpaolo, no? C’era quel coglione di Pierpaolo che se li studiava per te e poi ti faceva i sunti. Mai una volta che avessi ringraziato. La consideravi una cosa scontata: tu appartenevi ai bramini, alla casta dominante a cui tutto è dovuto. Io ero l’essere inferiore che la sorte ti aveva assegnato come scudiero, per sbrigare al posto tuo tutte le seccature della vita. Il glio del custode della fabbrichetta di papà. Bravo ragazzo, ma destinato alle briciole.

Cosa pensavi, eh stronzone? “Mo’ invito al club del tennis quel contabile da quattro soldi che può pararmi il culo con la finanza e poi, dopo la doccia, gli faccio un discorso a quattr’occhi. Non mi dirà di no. E’ il figlio del vecchio custode di mio padre. Ci conosciamo da bambini. E’ un povero scemo, ha fatto sempre quello che volevo io. E’ uno da pianoterra. Anzi, da scantinato: nella catena alimentare, non rientra manco nel primo anello…

Ci sei rimasto di merda quando ti ho fatto vedere il dossier. Ammettilo, ti eri fatto male i conti. Pensavi di liquidarmi con la solita pacca sulla spalla e la solita promessa di un piccolo aumento: “E forza, Pierpaolo, mettiamoci al lavoro. Per il fine settimana tutto dev’essere in ordine. Sennò stavolta sono guai. Mi raccomando, eh?

E invece stavolta Pierpaolo te l’ha combinata. Perché Pierpaolo conosce tutte le tue evasioni fiscali, euro per euro, e tutti gli imbrogli tuoi e dei tuoi commercialisti. E si è stufato di tenerti la scala. Ora vuole salirci pure lui.

E’ inutile che mi guardi con quella faccia da cane bastonato. E aggiustati la bandana sulla testa, che sembri un cretino. Non tiro ancora, mi dispiace. Questo momento me lo voglio godere tutto. Lo so che sei preoccupato, sennò non ti troveresti sull’orlo della tua prima sconfitta a tennis da quando sei iscritto a questo club.

Voglio la vice-presidenza della società.

Chiedo troppo, badrone? Mi dispiace, prendere o lasciare. Se accetti, ti rimetto in sesto in conti e te la cavi con qualche piccola multa. Perché io lo so fare, caro dottor Fiorenza, anche se la laurea alla fine l’hai presa solo tu. Grazie a me.

Se rifiuti, ti ritrovi in manette e con le banche che si pigliano pure la collezione di francobolli peruviani e il criceto di tua figlia.

Cosa dici, con quell’espressione implorante dall’altro capo della rete? Con quella faccia a metà strada tra Willy Coyote che precipita nel canyon e un tizio che ha appena pagato l’IMU? Che non potresti giusticare la mia nomina alla famiglia, perché dovresti rimuovere tuo cognato? E a me che frega, scusa? Sono cavoli tuoi, caro. Lo so che te la fai sotto perché, con tutte le corna che le hai messo in questi anni, ci mancherebbe pure che alla granduchessa le sostituissi il fratello col glio del custode. Si sa, nell’alta società le corna passano, gli affari restano. Gli affari sono una cosa seria, vero stronzone?

No, mi dispiace, non ti lascio via d’uscita. Non voglio soldi. Voglio la vice-presidenza. Vedi un po’ come puoi fare. Lavorati il consiglio d’amministrazione, parla con i parenti di tua moglie ma vedi di sbrigarti. Voglio la lettera in tasca prima di iniziare a fare il prestigiatore con le tue fatture.

Non hai altra scelta, ormai. Siamo al tie-break.

Guarda un po’ chi è arrivata, la granduchessa; lei e le sue tette al silicone puntate contro il mondo. Ne hai fatta di strada, Ivana, da quando stavi col sottoscritto. Dal Sangiovese al Sassicaia. Lo so, è sconvolgente: il tuo maritino per una volta sta perdendo. E non solo la partita. Ti chiedi dove ho imparato a giocare a tennis? Me l’ha insegnato lui: da ragazzo gli facevo da partner. Giocavamo la sera, tre volte a settimana. Poi lui ad una certa ora mollava tutto per salire sul Ferrari e andare a bagordi e io invece continuavo. Palle su palle sbattute al muro. Per ore intere. Con rabbia.

Perfetto, ha ricominciato a piovere. La piccola pozzanghera vicino ad Andrea ha ripreso a gonarsi d’acqua. E la sua Lacoste da 180 euro ad inzupparsi. Basta, ho deciso: lo tiro forte, così la facciamo finita.

Lancio la palla.

La vedo attraversare il campo da gioco a velocità supersonica, passare davanti ad Andrea, nire dritta nella pozzanghera e rimbalzare fuori. Uno schizzo di fango colpisce il bel faccione da rotariano del mio datore di lavoro. 

Game, set e match.What else?

 

TERZO PREMIO CONCORSO LETTERARIO "ALBERTO D'ANGELO". VALDERICE (TP) 2014

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francesco61dgl2 09 agosto
LA CANTINA DEI LIBRI
Recensioni di libri nati bene e invecchiati meglio
 

 

Ci sono libri di una semplicità disarmante, per  dialoghi, trama e  linguaggio, eppure capaci di sopravanzare qualitativamente opere ben più complesse, strutturate, pretenziose. Raccontano “storie semplici” , per dirla con Sciascia, non ambiscono al Nobel, non tendono a  suscitare  accesi dibattiti e accapigliamenti fra i critici. Si limitano a metterci davanti agli occhi – a seconda dei casi -  la banalità o la crudeltà del reale  nelle sue  molteplici varianti e lasciano il lettore  con il dubbio che qualche volta la scrittura, per essere “alta”, non ha bisogno di frequentare le terrazze dei grattacieli.
Appartiene a questa particolare categoria di libri “Cronaca di un suicidio”, di Gianni Biondillo, architetto e scrittore, autore dei gialli che hanno per protagonista l’ispettore Ferraro,  di cui Cronaca è il penultimo della serie.
Giovanni Tolusso, figlio di un muratore friulano emigrato in Svizzera, è uno sceneggiatore televisivo Rai educato al culto della rettitudine e del rispetto delle regole.  Risiede per necessità di lavoro a Roma , dove conduce una vita appartata, ma ha una moglie che vive a Milano. Tolti  i rapporti professionali, frequenta soltanto tre persone: il suo commercialista -forse il suo unico amico - l’avvocato della casa produttrice e il postino che gli recapita la corrispondenza. Proprio quest’ultimo sarà il latore di una missiva che sconvolgerà l’esistenza di Tolusso, gettandolo nella più cupa disperazione: una raccomandata di Equitalia che gli ingiunge il pagamento di una somma considerevole per imposte non versate.
Tolusso cade dalle nuvole: ha sempre pagato regolarmente tutto il dovuto al fisco, tramite  il suo commercialista, e non si capacita del perché lo Stato pretenda ora il saldo di quel debito spaventoso, che lui tra l’altro non è assolutamente in grado di onorare, visto che, causa la crisi, attende da mesi la liquidazione delle sue competenze e ha pure in corso due mutui per l’acquisto di altrettante case, quella di Roma dove vive e quella di Milano dove vive la moglie. La lettera sarà il biglietto  per un viaggio di sola andata in un inferno di domande senza risposte e di inutili pellegrinaggi all’Agenzia delle Entrate, dal commercialista, dall’avvocato del suo datore  di lavoro. Da quel momento l'esistenza di Tolusso viene totalmente stravolta e quasi condotta per mano verso scelte estreme .
A quel punto toccherà  all’ispettore Ferraro, in vacanza a Ostia Lido con la figlia quattordicenne, intuire, da una barca vuota in mezzo al mare e da una frase di Pavese, la fine di Tolusso e  - su sollecitazione di un collega romano, dopo il rinvenimento del cadavere- provare a ricostruire, una volta tornato a Milano (dove  Ferraro normalmente vive e lavora), le ragioni del suo gesto, attraverso i colloqui con la moglie e con il commercialista.
Stupisce, in Biondillo, che la nettezza delle parole, il lavoro di cesello  sugli stati d'animo dei personaggi e sugli ambienti in cui si muovono, il ritmo incalzante che sa imprimere agli avvenimenti, non tolgano una virgola allo spessore del romanzo; anzi, sono il suo valore aggiunto, perché la forma,  nella sua esemplare chiarezza e nell’assenza totale di inutili e narcisistici orpelli, oltre ad essere perfetta in sé, è perfettamente adatta a raccontare una vicenda dal sapore vagamente kafkiano e al contempo niente affatto surreale, perché calata nel contesto drammatico della crisi economica, che in questi anni talvolta ha inverato ciò che prima neppure si sarebbe potuto  concepire.
Ma Tolusso, ci fa capire Biondillo, non è  solo una vittima del “sistema” e delle circostanze, ossia dell’intransigenza della potere in combinato disposto con le difficoltà che vive attualmente  il  Paese. Tolusso è anche il simbolo di una categoria di italiani che ha già perso in partenza: il cittadino perbene, corretto, educato, laborioso . In Italia è un animale destinato all’estinzione, braccato e vinto dal cinismo, dall’indifferenza, dalla disonestà e da una tracimante volgarità collettiva. 
Ecco perché il magistrale colpo di scena finale che si concede lo scrittore,  dopo un primo attimo di smarrimento non sorprende più di tanto ed anzi viene accolto con sollievo  da chi legge, quasi fosse l’ultimo tassello perso e ritrovato di un puzzle che altrimenti  sarebbe rimasto mestamente incompiuto. 
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francesco61dgl2 06 agosto

   

                L' ANGOLO DEL RACCONTO

 

              TRACCE

              “Uova fresche!”

Ecco. Ha dato il via. Sta qui dall' ultima era glaciale e inizia sempre così la sua giornata di lavoro. Dopo di lui, partono a raffica tutti gli altri: il venditore di pentole, quello di abiti, quello di scarpe e via di seguito.

Solo io resto in silenzio davanti al mio banco. Io non ho roba fresca da vendere come Martino, anzi la mia mercanzia in genere è quanto di meno fresco ci possa essere in giro. Vendo libri, usati e nuovi. Libri in edizione economica con qualche annetto già sulle spalle, quelli che nessuno nelle librerie guarda più. Perché da qualche tempo la mania del fresco ha preso pure gli acquirenti dei libri. Cercano sempre l'ultima novità, in genere un thriller. Pare che ormai si scrivano solo thriller. A chi verrebbe mai in mente di comprare un Conversazione in Sicilia in edizione Struzzi Einaudi? Solo a chi s'accosta alla mia bancarella.

Io non lodo la mia merce. La mia merce si loda da sola. Ho sempre scelto buoni libri e scartato best-seller alla moda e manuali di giardinaggio. Eppure molti cercano quel genere lì e vanno via delusi quando s'accorgono che l'unico manuale che possono portarsi a casa è l' Arte della guerra di Sun Tzu.

Faccio questo mestiere da dieci anni, da quando sono andato in pensione. Prima facevo il maestro elementare. Ho trascorso quasi tutta la mia vita a spiegare ai bambini che soqquadro si scrive con due q e che un po' non vuole l'accento sulla o. Quando però, alla ne del quinto anno, mi accorgevo con soddisfazione che l'avevano imparato per bene, insieme a tutto il resto, me li toglievano per afdarli ad altri. Mi privavano dei miei alunni nel momento più bello, quando potevo iniziare con loro il viaggio meraviglioso nella letteratura e nella magia dello scrivere. Nessuno può capire quanto sia affascinante aiutare una piccola mente, avida confusamente di tutto, ad aprirsi all'universo colorato e stordente del sapere, quello con la S maiuscola. E nessuno può capire quanto sia frustrante per un insegnante dover troncare il lavoro a metà, quando l'età dei discepoli è quella giusta per affrontare insieme il tratto più impervio del viaggio.

Ma io ero solo un maestro elementare. Per contratto, dovevo fornire solo i rudimenti e gestire il livello più facile del gioco. Per le fasi più complicate del videogame della conoscenza, i miei giovanissimi giocatori avrebbero avuto altre guide.

Mi è sempre piaciuto paragonarmi al manuale d'istruzioni di un videogioco, ma un manuale limitato alle nozioni di base, all'uso dei tasti fondamentali. Anche se ho ormai la bella età di 75 anni, ho seguito n dall'inizio con grande curiosità e interesse l'evoluzione tecnologica degli ultimi lustri. Uso regolarmente il computer e navigo in Internet. Per me, glio dei lumi a petrolio e dei lm in bianco e nero, è come attraversare una lussureggiante foresta pluviale piena di fascino e pericoli.

E' per questo che non ho mai criticato, come certi tromboni di miei colleghi, l'uso del pc e dei giochi elettronici da parte dei bambini. Anzi, l'ho sempre incoraggiato, cercando di sfruttare il divertimento per favorire le capacità d'apprendimento dei miei alunni. Un videogioco intelligente talvolta stimola la mente quanto un buon libro.

Ma i libri...oh i libri certo sono insostituibili. Nessuna dvd e nessun e-book potrà mai trasmettere il piacere acuto e pervasivo che si prova sfogliando le pagine di un libro, sentendole crocchiare fragranti tra le dita, come pane caldo di forno, quando il volume viene aperto per la prima volta oppure osservandole, invereconde, nel loro civettuolo disfacimento quando appartengono ad un libro posseduto troppe volte. Ebbene sì, lo confesso: sono stato un seduttore insaziabile di libri, più Don Giovanni che Casanova.

Ho letto di tutto, roba bella e roba brutta. Ma anche i brutti libri talvolta si lasciano dietro una scia di profumo, come una frase da ricordare o una riflessione intelligente.

La letteratura, i libri: lo specico del genere umano, l'antidoto che ci impedisce di continuare a saltare da un ramo all'altro di un albero nutrendoci di bacche e banane.

E' per questo che vendo libri. Non sono tutti capolavori i miei libri e spesso sono gualciti, rovinati da un uso distratto, sciatto o esagerato. I loro titoli a molti potranno non dire nulla, perché magari quel tale scrittore arabo non lo conosce nessuno all'infuori degli addetti ai lavori. Ma sono il mio mondo, la finestra sempre aperta sulla landa sconfinata della fantasia.

Ricordo quasi tutti i libri che ho letto, anche quelli della primissima giovinezza.

Non avevo nemmeno 14 anni e già mi chiudevo la notte nel bagno con la Lady Chatterley dei miei turbamenti erotici di adolescente. Ma mi hanno fatto compagnia, tenendomi per mano nelle strade della vita, anche il sud turgido e violento dei Caldwell e dei Faulkner, le rafnate atmosfere della Du Maurier, gli sguardi dal ponte di Miller, gli uomini in barca di Jerome, la Napoli barocca e lazzarona di Malaparte, le escluse di Pirandello e gli spiriti allegri di Coward. Ad elencarli tutti, non basterebbero due giorni interi.

Non è vanità di acculturato, la mia. E' solo orgoglio di seduttore. Lo stesso orgoglio che fa sciorinare ad un vecchio sciupafemmine incallito cifre e nomi delle sue imprese amatorie di gioventù.

Io, mandrillo della parola, posso elencare solo titoli e autori. Di donne ne ho avuta una soltanto, dolcissima e sfortunata. L'ho sposata troppo tardi e abbandonata troppo presto, per seguire un bisogno sterile e folle di solitudine, la necessità impellente di non lasciare impronte sul terreno.

E’ morta l'anno scorso. Era molto più giovane di me e piena di gioia di vivere. Una gioia ingenua, priva di orpelli mentali e di complicate losoe da passeggio. Una gioia contadina schietta e semplice, da sublime ignorante che null’altro desiderava conoscere oltre quello che l’esperienza le aveva insegnato. Non è giusto che sia toccato prima a lei. La morte, Ariele maligno e dispettoso, troppo spesso predilige chi alla vita non chiede nulla, risparmiando chi invece alla vita rimprovera tutto.

Dicono che non mi abbia mai dimenticato e che abbia sempre sperato, in segreto, che un giorno tornassimo insieme. Povera Irma: il sapere che non c’erano altre donne accanto a me l’aveva illusa che io ancora le appartenessi. Le donne sono fatte così: ci considerano degli esseri inferiori incapaci di badare a noi stessi e di spenderci da soli in giro per il mondo. Nel loro immaginario, passiamo dalla tutela della madre a quella delle mogli e danzate senza soluzione di continuità e se ci lasciamo con una di esse è perché ne abbiamo subito un’altra pronta a prendere il posto della prima.

In questo puzzle ideale, dove ogni tessera prima o poi deve trovare la sua casella, non c’è posto per l’uomo solo. L’uomo solo, nell’immaginario delle donne, è un prodotto difettoso, uno scherzo di natura, un bizzarro gargoyle estraneo all’umano consorzio.

Lo accettano fedifrago, manesco, biscazziere, menzognero, distratto, insensibile, inetto ma non solo. Solo mai. E’ qualcosa che non capiscono e non ammettono, perché l’uomo nasce dal ventre di una donna e sul ventre di una donna deve sempre, per forza, trovare rifugio, come un porto sicuro nella tormenta.

Io invece la solitudine l’ho sempre vezzeggiata, anelata, invocata. E alla ne ne ho fatto la mia vera sposa. Una sposa tradita mille volte con la letteratura, ma mai abbandonata. La letteratura è stata l’amante calda, giunonica, scostumata con cui saziare le voglie primitive e consumare gli amplessi più violenti. Ma la vera e unica donna della mia esistenza è stata la solitudine, testimone discreta e comprensiva della mia inabilità alla vita, della mia assoluta incapacità, fatta eccezione per il rapporto educativo con i bambini, di stare come uomo tra gli uomini, con tutto il bagaglio di banalità e ipocrisie che ciò comporta.

Irma soffriva di tutto questo ma provava a sopportarlo. Tanto io la escludevo, insieme a tutti gli altri, dai miei orizzonti e dalla nicchia di egoismo in cui mi ero imbozzolato, tanto lei (composta, silenziosa, tollerante) provava a scalre, con la sua dolcezza, il muro di indifferenza che avevo innalzato tra di noi.

Ho messo ne all’agonia del nostro matrimonio dopo cinque anni di danzamento e appena pochi mesi dal giorno in cui, radiosa nel suo abito bianco, Irma aveva oltrepassato per la prima volta il portone della nostra casa di novelli sposi, una piccola villetta bifamiliare di periferia lontana dai rumori e dalle folle del centro, in un quartiere dominato dai silenzi tipici dei luoghi che al mattino si svuotano dei suoi abitanti per ripopolarsi soltanto nelle ore serali.

Ho riattraversato per l’ultima volta quel portone in una mattina d’aprile di quarant’anni fa. Avevo 35 anni e un morbo oscuro che mi rodeva dentro. Pensavo di guarirne lasciandomi tutto alle spalle e dedicandomi soltanto al mio lavoro e alle mie letture.

Irma non disse nulla quel giorno e mi preparò il caffè come se quella fosse una giornata uguale a tutte le altre. Non volevo che mi preparasse il caffè e me lo portasse a letto, glielo avevo detto tante volte. La mia cultura progressista, egualitaria, aborriva questi gesti di sottomissione femminile. Ma lei, espressione di una generazione di donne abituata ad accudire l’uomo più che a conviverci, non capiva il perché della mia insofferenza verso quei rituali di affettuosa quotidianità e credeva che il mio fosse soltanto un modo, un ulteriore modo crudele e sprezzante, di ricordarle il fallimento della nostra unione.

Non pianse, almeno non rammento che lo fece alla mia presenza. Io non mi voltai mai indietro, non ne ebbi il coraggio.

Nel giugno di quell’anno cambiai città, casa e scuola, passando un’ideale spugna sulla lavagna del mio tempo. Tabula rasa. Si ricomincia.

Le notizie sulla vita da separata di Irma da allora me le ha fornite, messaggera per istinto, passione e rabbia, mia sorella Beatrice. Non le ho mai chiesto di farlo e anzi accoglievo sempre i suoi resoconti con una smora di fastidio, quasi per farle capire che quelle ambasciate erano l’ultimo dei miei affanni. Ma in fondo non era vero.

Non ci sono stati altri uomini nella vita di Irma. Come io, d’altronde, non ho avuto altre donne. Le urgenze del corpo, quei fermenti animaleschi che ogni tanto si ridestavano in me e reclamavano la pace dentro un grembo di femmina, le ho soddisfatte con sporadici e svogliati convegni occasionali. Ma era solo acqua per la sete. Nulla più.

Non sono andato al suo funerale, non ne sarei stato degno. Ho mandato soltanto una corona, una semplice corona di gigli e garofani bianchi che mia sorella le ha lasciato sulla tomba insieme ad un bacio.

Si volevano molto bene con Beatrice, quasi come germane. Un’amicizia nata in un bar dove Irma lavorava come cassiera. E fu proprio lì, in un pomeriggio afoso di ne estate, che la conobbi, semplice e irresistibile nella sua camicetta a ori di ragazza degli anni sessanta. Mi innamorai della sua semplicità prima ancora che degli enormi occhi neri e dei corti capelli corvini di cerbiatta calabrese. Attraente nella sua quieta normalità, nel suo essere tutto il contrario di ciò che all’epoca il cinema e le riviste di moda giudicavano indispensabile per l’avvenenza di una donna.

Quegli occhi e quei capelli li ho rivisti soltanto tre giorni fa, nel volto di una madre nervosa e indaffarata venuta ad abitare proprio nel palazzo di fronte alla piazza dove vendo bellezza a buon mercato. Ha comprato Il ponte sulla Drina di Andric e Opinioni di un clown di Boll tenendo per mano un undicenne annoiato e dalle sembianze familiari.

Non ho mai creduto alla leggenda che i gli, i gli sconosciuti e inattesi, le tracce più evidenti che può lasciare un pellegrino della vita frettoloso e intabarrato, si individuano al primo sguardo, anche in mezzo ad una ressa indistinta di persone. Mi sbagliavo.

 

Primo premio  1^ edizione concorso letterario ALBERTO D'ANGELO,  Valderice (TP) 2012

Dalla raccolta IL VISITATORE DI CASE E ALTRE STORIE

 

 

 

 

 

 

 

 

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L' ANGOLO DEL RACCONTO

 

TURNO  DI NOTTE

 

Eccoci qua, via Marconi. Via Marconi, Viale Palestro, Via Pirandello, Piazza Unità d’Italia, Lungomare Cairoli e Viale 4 Novembre. Oggi si va nei quartieri alti, Salvato, tra i gran signori. Dovevano darci lo smoking, stasera.

Salvatore è l’autista. Ha 60 anni, un solo rene, una figlia all’Università e un altro su una sedia a rotelle. La moglie due anni fa s’è scocciata di vederselo tutti i giorni dentro al letto e se n’è andata. Nel senso che è morta, poveraccia. Va in pensione tra sei mesi. Salvato’, voglio dire.

Fermati, Salvato’, fermati. Guarda quanti bei cassonetti ci sono qui. Guarda quanta bella monnezza da signori, monnezza col pedigree. Eh, noblesse oblige... Tutta roba di marca, Salvato’: la migliore pasta, il migliore vino, il burro più costoso. Mancano solo le scatolette di tonno col filino di perle tuttattorno.

Non parla mai, Salvato’. Ciao e ciao. All’arrivo e alla partenza. Sono dieci anni che lavoriamo  assieme e tutto quello che so di lui me l’hanno raccontato gli altri colleghi. Non parla nemmeno al bar: si piglia il suo caffè senza zucchero, saluta il barista e se ne va. “Salvato’, ma tu che ne pensi?”. Ogni tanto gli si chiede un parere, che volete. Non sta normale uno che non dice mai niente. Ma lui zitto, fa una smorfia con la faccia, per farci capire che non ha un pensiero sulla cosa, e torna al suo camion.

Secondo me quello col camion ci parla. Magari a fine turno, prima di posarlo nell’autorimessa.

E’ un bel lavoro quello del monnezzaro. Non credete a chi vi dice il contrario. Mica è più come una volta. Il carrettino e lo spazzolone di saggina. Acqua passata. Ormai noi siamo super tecnologici: tute fosforescenti, guantoni, stivali, casco e mascherina. Ci danno pure il cellulare di servizio, per tenerci in contatto con la centrale. Per non parlare del veicolo: autocarro gigante Iveco con regolare dispositivo tritura rifiuti e una plancia che sembra quella di un Boeing. Solo il salario è rimasto all’età della pietra...

Io però non mi lamento. Sono scapolo e a fine mese ci arrivo quasi tranquillo. Dico quasi perché più di metà della mia paga va dritta nelle tasche della padrona di casa. Bivani arredato con angolo cottura, trentacinque metri quadri in tutto. Ci ho pure la finestrella nel bagno. Una sciccheria. Perché non mi sono sposato? Perché tutti i miei colleghi sposati o hanno divorziato o non sanno dove sbattersi la testa per tirare avanti. Pure Salvato. Metà dei suoi soldi se li piglia lUniversità della figlia e l’altra metà le medicine del figlio. Con la rimanenza dovrebbero campare tutti e tre per un mese.

E poi, siamo sinceri, non è facile dover dire a una ragazza “faccio il netturbino”. Sapete com’è. I pregiudizi. Una volta ero fidanzato con una brunetta che lavorava come segretaria da un avvocato. Quando mi ha chiesto che mestiere facevo, le ho detto impiegato comunale. Il che in parte è vero. Da noi è ancora il sindaco in persona che ci dà il pane.

 Non per molto, però, perché pare che l’anno prossimo ci trasformiamo in azienda pure noi: AMURR, azienda municipalizzata raccolta rifiuti. Suona fico, no? Sembra qualcosa che abbia a che fare con l’amore. L’amore per la pulizia.

Salvato’ non è d’accordo, forse è per questo vuole andarsene in pensione. Come lo so, visto che non parla mai? Dalla faccia che ha fatto quando gliel’hanno detto.

Io, invece, sono sicuro che non cambierà niente, a parte gli stipendi dei capi. Monnezza raccoglievamo prima, monnezza raccoglieremo dopo.

Anche i soldi saranno sempre gli stessi. Si spera. E poi, male che vada comincio a cercarmi un altro lavoro. Sono ancora giovane e ci ho pure un diploma di geometra.

Però a me in fondo questo mestiere piace. Giuro. Nella monnezza c’è la vita delle persone e la storia delle città. Dalla monnezza che lascia la gente capisci con chi hai a che fare. Conosci meglio il tuo prossimo. Come disse una volta il mio vicino di casa, il professor Orlandi, un vecchio professore di latino in pensione : immunditia est perfumus mundi La spazzatura è il deodorante del mondo, mi ha spiegato. Cosa volesse intendere, lo sa lui. Per come l’interpreto io, significa che il mondo puzza molto più della sua spazzatura, che al confronto di chi la produce è un profumo inebriante.

Sarà, professo’, ma se venisse qui dove mi trovo adesso, incrocio Via Pirandello-Piazza Unità d’Italia, altezza civico 42, mi sa che sentirebbe solo puzza. E’ vero, Salvato’?

Sì, buonanotte.

Però, ne buttano di cose i benestanti. Guarda qui, ci sono pure un televisore e una lavatrice nuovi nuovi. Nei cassonetti dei quartieri popolari al massimo trovi qualche vecchio materasso tutto sbrindellato e le sedie di legno con le gambe rotte.

In compenso, nell’immondizia dei signori non ci sono tutte le siringhe che si trovano in quella dei poveracci. All’inizio pensavo che nei rioni popolari si consumassero tutte quelle siringhe perché i morti di fame sammalano più dei ricchi. Poi mi hanno spiegato.

I preservativi usati, però, sono gli stessi: una infinità, sia qui che là. Le prostitute rumene e albanesi, infatti, sono ragazze democratiche, non fanno differenze di censo: tante ne trovi nei quartieri alti e tante nei viali della periferia.

Qualcuna ormai la conosciamo pure, ci saluta con la mano quando passiamo. Sono giovanissime, alcune davvero molto carine.

Sono già le quattro e mezza, Salvato’, sbrighiamoci sennò non ce la facciamo a completare il giro.

Guarda, c’è un bar aperto. Che fa, ci fermiamo un attimo? Magari stanno sfornando i primi cornetti caldi.

No, Salvato’ non è d’accordo: gira il testone verso di me tenendo le mani sul volante e mi lancia una delle sue solite occhiate di disapprovazione. Questa di stanotte vuol dire “più avanti”, ci fermiamo più avanti.

Io lo so perché non si vuole fermare qui, Salvato’. Perché si vergogna. Questo è un bar chic, un bar dei quartieri bene, con clientela adeguata al posto. Lì dentro si sentirebbe a disagio. Quando facciamo il turno di notte, il nostro bar di solito è quello vicino alle acciaierie, sulla strada del rientro. Mangiamo il cornetto insieme agli operai. Tute sporche loro e tute sporche noi. Tutti fratelli.

Fermati, Salvatore, capolinea. Ci facciamo ‘sto vialone e per stanotte abbiamo chiuso. Non so perché ogni volta gli dico di fermarsi. Lo farebbe lo stesso. Ci ha tutte le tappe in testa, ormai. Il fatto è che sta sempre assorto nelle cose sue e io ho paura che salti qualche punto di raccolta.

Uh, cinque cassonetti. Stracolmi. C’è di tutto anche qua. Uno ha anche lo sportello aperto e un gatto nero che ci fruga dentro. Pussa via, brutta bestiaccia. Puzza pure più del solito. Bisognerà dirlo a quelli della squadra lavaggi. Lo sposto e lo metto sullelevatore. Ecco che si solleva e comincia a rovesciare il suo carico puzzolente sul camion.

E ora questo cos’è? Oh, Madonna ...

Fermati, Salvato’, ferma subito la sminuzzatrice e scendi, per l’amor di Dio!!

Un fagotto. E dentro un fantolino infreddolito. E’ appena nato, ci ha ancora attaccato il cordone ombelicale. Mi tornano in mente le parole del professore: immunditia perfumus mundi.

Che dici, Salvato’, è ancora vivo? Salvato’ fa cenno di sì con la testa. E’ spaventato pure lui.

Salvato’ ha ragione: per fortuna è ancora vivo. Muove la testolina. E mo’ che facciamo? Piglia il giaccone sul camion, Salvato’, sennò muore congelato, povero piccerello. Anzi, piccerella.

Mi guardo attorno. Non c’è un’anima viva. C’è solo una ragazza in minigonna vertiginosa, borsetta e tacchi a spillo che appena ci vede fermi col fagotto in mano comincia ad avvicinarsi. La conosco, si chiama Irina. Mentre lei prende in braccio il neonato io chiamo il 113. Chissà chi l’ha abbandonato. Forse la badante extracomunitaria di qualche ricca vedova o qualcuna delle battone del viale. Vallo a sapere. Ecco che arrivano lambulanza e la polizia. Irina si allontana.

Gli infermieri caricano la bambina e partono sparati per l’ospedale. Noi raccontiamo ai poliziotti come l’abbiamo trovata e gli lasciamo le generalità. Ci voleva la volante per far parlare Salvatore.

Risaliamo sul camion.

Che nottata, eh Salvato’? Come non detto.

 

Primo premio concorso letterario Macchia d'Isernia 2014

Primo premio concorso letterario S.Benedetto del Tronto nel cuore 2008

 

Dalla raccolta IL VISITATORE DI CASE E ALTRE STORIE

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francesco61dgl2 più di un mese fa
LA CANTINA DEI LIBRI
Recensioni di libri nati bene e invecchiati meglio
 

 

 

 
 
Cosa chiede solitamente il lettore ad un romanzo giallo? Una trama avvincente e possibilmente “labirintica”, dialoghi serrati, investigatori con caratteristiche fisiche e/o caratteriali marcate, finali a sorpresa.
Al contrario, le digressioni narrative, gli innesti, nell’asse principale del racconto, di episodi e personaggi ad esso estranei, in genere non attirano molto i fan della letteratura poliziesca e tanto meno gli  autori.  Ecco perché stupisce piacevolmente un libro come Doppia ombra, della bravissima Roberta Gallego,che nella vita i morti ammazzati  purtroppo  li vede davvero, facendo di professione il magistrato. Stupisce perché inizia con un delitto  granguignolesco commesso all’interno una villa signorile della provincia del profondo nord della Penisola  e continua inframmezzando il dipanarsi dell’indagine con deliziosi capitoli che nulla hanno a che vedere con essa, fino alla svolta finale e all’arresto del colpevole. 
A questo punto bisogna anche spiegare a chi legge che libri come Doppia ombra  non hanno per protagonisti né un fatto criminoso, né un singolo personaggio o una coppia di personaggi. Hanno per protagonista piuttosto un ambiente, di vita o di lavoro, che può essere un luogo, una famiglia, uno studio professionale, un’azienda o un ufficio. Nel caso della Gallego, l’ambiente è ovviamente quello di una Procura, la  Procura dell’immaginaria città di Ardese, ameno borgo sulle rive di un non meglio specificato lago. Qui una policroma e affannata umanità di magistrati, cancellieri, poliziotti, carabinieri e avvocati cerca ogni giorno di mandare avanti la pericolante baracca della giustizia italiana, con esiti a volte felici e a volte no e con le inevitabili ricadute, per qualcuno, sulla qualità della vita privata.
Ma siccome la dottoressa Gallego non è tipo  da  sviolinate celebrative o peggio ancora retoriche per descrivere con la fantasia quello che nella realtà è il suo habitat professionale,  nel suo romanzo c’è tanto spazio anche per l’autoironia e la comicità. Ragion per cui accanto ai procuratori coscienziosi e ligi al dovere  troviamo il collega beatamente digiuno di diritto e che usa senza alcun rossore i biglietti omaggio offerti dagli indagati,  quello più impegnato sul fronte delle conquiste femminili  che sul fronte della lotta alla criminalità,   il magistrato donna in crisi coniugale che si concede una tantum un bacio appassionato con un collega consolatore,  quello che parte in vacanza portandosi dietro distrattamente un importantissimo fascicolo  e, per finire, il pm che festeggia in aula con una torta la maggiore età di un processo  per maltrattamenti in famiglia giunto – rinvio dopo rinvio- alla diciottesima udienza…
E’ ovvio che lo spunto per queste scene di ordinaria vita di Procura alla Gallego gliel’abbia fornito la nuda e cruda quotidianità lavorativa, ma l’abilità della scrittrice sta nel confezionarli per il lettore con un periodare  piacevolissimo, scorrevole ed estremamente curato nella forma - semplice ed elegante al contempo, con un   sobrio e avveduto utilizzo di vocaboli ricercati - il che, in un panorama letterario nazionale dominato dal piattume stilistico alla Fabio Volo, oggigiorno non è affatto possibile dar per scontato in uno scrittore. 
Ma la gradevolezza del libro non sta tanto nel fraseggiare raffinato dell’autrice  quanto nell’abile tessitura di una storia dove la nota di colore, se non addirittura umoristica, si sposa perfettamente con il dramma, dove dietro un cadavere con decine di coltellate  si nasconde un colluvium familiare torbido e caliginoso, dove il lettore segue col medesimo interesse la ricerca dell’assassino e quella di un fascicolo smarritosi nei meandri del palazzo di giustizia e dove soprattutto – e finalmente - gli articoli di legge sono richiamati in modo corretto, così come in modo corretto (dopo decenni di ricostruzioni assai poco fedeli al diritto vigente) sono indicati ruoli degli investigatori e  protocolli d’indagine. 
Il risultato finale è  una sagace mistura di ortodosso rispetto delle regole del noir e  arguto bozzettismo, di dramma e di commedia , che non toglie nulla alla appassionante e tenace ricerca del bandolo della matassa, allo squarcio del  velo che cela il movente di un delitto raccapricciante. In definitiva, un romanzo godibilissimo e una scrittrice alla quale  si può promettere ad alta voce e con la massima sincerità che Doppia ombra non resterà di certo l’unico suo “parto” narrativo  ad essere oggetto di acquisto e contestuale avida lettura.
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francesco61dgl2 più di un mese fa

L' ANGOLO DEL RACCONTO

 

La beffa  (fine)

 

7. “Ringrazia il tenente Martini, Loru’, altrimenti a quest’ora stavi in cella a giocare a tresette coi sorci.”

Meglio, mi risparmiavo la fucilazione. Perché questa è la fine che faremo, Mario.

Indossiamo divise italiane, che ci possono fare?

E’ il camion che non è vestito da italiano…

Effettivamente, a vederlo traballare incerto sulla statale per Roma come un ubriaco alla vana ricerca del portone di casa, tutto si poteva dire del Fiat 626N sul quale stavano seduti trenta militari della 210^ divisione, meno che fosse parente degli autocarri dell’esercito americano. 

Ciò nonostante, la fantasia tricolore si era sbizzarrita al massimo grado di potenza per rendere verosimile, ad un occhio poco attento, il travisamento dello scassatissimo automezzo, veterano di mille scarpate   e  mille riparazioni: il muso era stato ridipinto con i colori dei Jimmy U.S.A., celando il classico frontale Fiat, così come il telo era stato sostituito col telo di un vero autocarro alleato, reperito fortunosamente in un angolo dell’autorimessa (tradotto: indecorosamente trafugato nottetempo da due giovanissime ‘canaglie’ campane della 210^, nella vita civile specializzate in borseggi e incaricate della missione da un imbarazzatissimo sottotenente Martini…).

Ma poi quei sei tizi della banda perché ce li stiamo portando appresso? Mica  stiamo andiamo  alla parata del 4 novembre…” sussurrò Lorusso all’orecchio del commilitone.

Forse perché dovranno suonare il silenzio al nostro funerale, Loru’: gli americani prima accopperanno tutti noi e alla fine ammazzeranno pure i sei della banda. Fidati.” gli rispose perfidamente Pellegrini, provocando una smorfia d’orrore nel viso del collega, che si fece un velocissimo segno della croce.

Santa Maria Madre di Dio e San Francesco Fasani aiutateci voi….questi sono peggio dei magnacrauti…” , commentò alla fine terrorizzato.

Michele, da uno che ha sfidato le pallottole tedesche a Montelungo non mi sarei mai aspettato tanta pusillanimità.”  intervenne Martini, che aveva assistito divertito a tutto il siparietto.

Pusi che? – rispose Lorusso, sinceramente stupito – signor tenente, io mi sto solo cagando addosso…

Si certo…vabbè, lasciamo perdere… Dormi vah…”

 

8.Roma, 4 giugno 1944

Il mattino del 4 giugno un’alba algida gravava sull’ubertosa campagna romana alle porte della Capitale, quella stessa campagna che da lì a pochi anni si sarebbe trasformata nel caotico  e super cementificato figlio del boom economico chiamato  Grande Raccordo Anulare.

Ma il 4 giugno del 1944 quella campagna  si presentava, allo sguardo dei militari americani del generale Clark in procinto di entrare nella Città Eterna, solo come una grande distesa di erba rorida di pioggia abitata da indolenti bufale al pascolo che pochi, annoiati pastori tenevano d’occhio a distanza.

La colonna di camion e carri armati marciava lungo la gloriosa via Appia senza incontrare alcuna resistenza, perché i panzer e le truppe del feldmaresciallo Kesserling avevano già evacuato la città rinunciando ad ogni resistenza. Anche il finto Jimmy pieno di soldati italiani era pronto a fare il suo tranquillo ingresso a Roma liberata.

Madonna di Lucera, Mario, forse ce l’abbiamo fatta. Il problema sarà quando scenderemo da questa carriola: se ci vede, Clark ci farà accoppare sul posto.

 Martini a quel punto ritenne opportuno interrompere la lagna a voce alta del suo subordinato e richiedere l’attenzione di tutti i militi a bordo:

Ragazzi, ascoltatemi tutti: è vero, ce l’abbiamo quasi fatta, come dice il vostro commilitone, ma abbiamo ancora un ostacolo e non solo…”

E’ il non solo che ci preoccupa di più, signor tenente…” disse a quel punto il caporalmaggiore Bosio, un simpatico gigante piemontese di quasi trent’anni, suscitando l’ilarità collettiva.

Anche Martini si unì alla risata dei suo uomini, lieto che fossero comunque di buon umore, per chiedere nuovamente la parola dopo un paio di minuti.

Veramente dovreste preoccuparvi un po’ di più dell’ostacolo, a dire la verità: un posto di blocco della Military Police americana proprio prima dell’ingresso a Roma…”

“Minchia…M’ava a scusari, signo’ tenente, mi scappò…” esclamò a quel punto Lucio Zappalà, un  giovane agricoltore di Alcamo.

Ci stava, Zappalà, ci stava tutta. Minchia sì.,.” lo rassicurò l’ufficiale con un sorriso “…se non avessimo per fortuna un autista e un capo macchina che parlano inglese e sembrano americani… il minchia ci stava tutto.

E come mai li abbiemo ?” domandò a quel punto Lorusso.

Si dice  abbiamo, non  ‘abbiemo’ “gli sussurrò irato il compagno di branda.

Eh …ha parlato l’accademico della farina, ha parlato…

 “Li abbiamo, caro Lorusso, perché sono due ragazzoni veneti alti e biondi, figli di emigrati rientrati dagli U.S.A. prima della guerra. Sono stati scovati in un altro reparto. Contento?” rispose Martini, ignorando il battibecco tra i due militi.

E se gli M.P. vogliono ispezionare il cassone del carro, come la mettiamo?” insistette Lorusso.

Non accadrà, tranquillo” - proseguì Martini – Clark non permetterebbe mai agli sbirri dell’M.P. di ispezionare carri della sua Divisione…O presunti tali…ehm …

Va bene, tenente, accertato che l’ostacolo non deve preoccuparce più de tanto… , mo’ vorremmo puro sape’ come sta de salute il “non solo” ” interloquì l’artigliere Paride De Santis, romano  di Testaccio.

Hai ragione “ sorrise Martini “ sappi allora che il non solo sta benissimo di salute e che non  ha mai traslocato dal posto dov’è nato.

E chede’ , n’arbero?” esclamò il capitolino.

No, è un edificio: il Quirinale”.

 

9. Alla fine della narrazione, Riccardo fissò intensamente negli occhi il suo interlocutore e quest’ultimo, per la prima volta da quando il poliziotto aveva messo piede in casa sua, notò nell’intensità di quello sguardo un lucore di rispetto.

Mio padre non mi ha mai raccontato questa vicenda. Sì, mi ha parlato di Montelungo e del suo arruolamento nell’Esercito del Sud, ma mai di lei e della missione  a Roma. A  proposito, come andò a finire? Se lei è ancora qua vuol dire che gli alleati non vi hanno beccato.”

Riccardo a quel punto sorrise sornione e il sorriso lo aiutò a ricacciare rabbiosamente indietro le  lacrime di commozione prossime a rigargli  il viso: no, nemmeno per una storia del genere si sarebbe mostrato così fragile davanti a quell’uomo.

Il vecchio sospirò profondamente, soppesando con le mani il quaderno prima di rispondere:

Se non mi credi, Riccardo, troverai tutto scritto qua, in questo quaderno ingiallito, anche foto di me e di tuo padre a Roma e, piegata all’interno, la lettera di elogio del Comandante per il salvataggio di Mario a Montelungo, con nomi e cognomi di entrambi… Come finì? Finì che, arrivati all’Altare della Patria, scendemmo dal camion  e cominciammo a marciare verso i palazzi istituzionali – si dice così, giusto?-  per andarvi a montare la guardia; al Quirinale innanzitutto. Dovevamo fare in fretta prima che ci precedessero gli americani, che già erano in città. Bisognava dare un segnale, così ci disse il tenente prima di arrivare: la gente doveva vedere che non stavamo per diventare una colonia americana.  Intanto   che,  a due a due, man mano ci sganciavamo dalla fila per raggiungere le sedi dei vari Ministeri, la banda suonava la Canzone del Piave tra il tripudio dei romani…E quando gli americani ci videro per strada …non ti dico le facce, soprattutto quelle del loro Comandante, il generale Clark. Credo che in quel momento avrebbe preferito una nuotata in un fiume della foresta amazzonica infestato dai piranha.

L’ultima frase fu accompagnata da una fragorosa risata che in breve contagiò anche Riccardo.

Scemata poco dopo l’allegria, entrambi rientrarono velocemente nei loro ruoli. Erano cappotti ormai pesanti da indossare per entrambi ma impossibili da ignorare.

Fu Riccardo   a rompere la coltre di silenzio che nel frattempo era scesa nella stanza.

Don Michele, perché un ragazzo picaro e sbruffone, ma capace di grandi eroismi e slanci come lei, diventa da adulto uno dei più spietati capi della delinquenza organizzata pugliese?”

Potrei darti mille spiegazioni, Riccardo, non capiresti: ti dico solo che io innocenti non ne ho mai accoppati o fatti accoppare e meno che mai giornalisti o uomini delle forze dell’ordine. Chi lavorava per me in generale rispettava questa regola. Se poi qualcuno ha fatto di testa sua, io non l’ho mai saputo.  Però sapevo bene di stare dalla parte sbagliata ma ci sono rimasto fino a quando non mi hanno ammanettato. La vita per qualcuno è una giungla, Riccardo, e nella giungla, se vuoi sopravvivere, devi azzannare per primo. Dipende da dove sei nato o da chi ti ha cresciuto. O magari solo dalla capa storta che ti ritrovi. Ma io non mai azzannato la persona sbagliata. Tuo padre lo sapeva, mi combatteva ma a suo modo mi rispettava, come io rispettavo lui…’.”

Il poliziotto abbassò e alzò la testa un paio di volte in segno di approvazione. Quelle parole non avrebbero cambiato il giudizio su quell’uomo e su ciò che egli era stato ed aveva rappresentato. Tuttavia gli restituivano di lui una dimensione umana che mai avrebbe immaginato prima di quella giornata.

Come ha fatto a scansarsi l’ergastolo? Me lo sono sempre chiesto…

Il vecchio abbozzò un sorriso: “Ho avuto dei bravi avvocati…”

“Dilla giusta: hai oliato a dovere le ruote di qualche magistrato.”, pensò subito Riccardo: ricordava bene la condanna di Lorusso al fine pena mai, confermata in secondo grado ma poi sorprendentemente annullata dalla Cassazione.

Alla fine Riccardo si alzò: non aveva ottenuto nulla e tutto allo stesso tempo da quell’uomo ed era arrivato il momento dei commiati.

Nell’aprire la porta d’ingresso, si voltò per l’ultima volta verso di  lui:

Certo che deve averlo nascosto molto bene quel quaderno, se è sempre riuscito a sfuggire a tutte le perquisizioni delle sue dimore… “

Sfuggì ai sequestri semplicemente perché all’epoca aveva un altro padrone: me lo regalò tuo padre, già in pensione, il giorno in cui sono stato scarcerato…

 

 

Nota dell’autore:

i fatti sono veri. I personaggi: alcuni sì, altri no. I dialoghi sono inventati. La descrizione degli eventi in minima parte è vera, in larga parte no.

La verità storica, a volerla rispettare ad ogni costo, avrebbe imposto di sostituire , per esempio, la data di ingresso dei soldati italiani a Roma ( il 7 giugno e non il 4) , le modalità d’ingresso (con diversi autocarri italianissimi e non con un solo autocarro italiano travestito da americano) e il comandante sul campo dell’operazione (il cap. Pugno e non il sottotenente Martini). Manca poi la figura del gen,le Cortese, l’uomo che benevolmente perdonò Nini per la spendita abusiva del proprio nome nella preparazione della  ‘beffa’ agli angoamericani e che poi si prodigò per evitargli una punizione a missione compiuta.

In definitiva: i fatti sono stati un po’ manipolati ma la beffa alla fine ci fu davvero…

Da ultimo, mi si permetta un ringraziamento particolare al giornalista e storico catanese Alfio Caruso, che ha riportato a galla questo episodio di dignità nazionale e callidità italica a fin di bene nel suo libro “In cerca di una Patria” nonché fornito al sottoscritto lo spunto per la stesura di questo racconto.

 

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francesco61dgl2 più di un mese fa

L' ANGOLO DEL RACCONTO

 

La beffa  (parte sesta)

 

6. “Ti dico che i capi stanno tramando qualcosa di grosso, Mario. E ho il sospetto che ci andremo di mezzo noi.”

Il caporale Mario Pellegrini, di Ascoli Satriano, sdraiato in branda, alzò stancamente lo sguardo verso il letto che si trovava sopra la sua testa, occupato da quella spina nel culo del genere umano chiamato Michele Lorusso, suo conterraneo  e coetaneo e purtroppo anche suo ‘fratello di sangue’, perché a Montelungo, mentre dalle cime  dell’altura  i crucchi giocavano al tiro al bersaglio coi ragazzi del 67°  e gli americani dabbasso si godevano la scena  fumando Marlboro e masticando chewing gum,  se non fosse stato per quella testa matta di lucerino del cazzo, baro, ladro e imbroglione, lui a quest’ora al posto della branda starebbe disteso dentro una anonima bara di ciliegio scadente.

Questo debito di riconoscenza, rifletté Pellegrini, ora però stava cominciando a pesargli un po’ troppo: Lorusso fregava i commilitoni  a carte,  rivendeva  al mercato nero  i viveri rubati nei magazzini della Divisione e faceva comunella coi peggiori elementi del reggimento. L’antipatia di Mario nei suoi confronti era stata tanta fin dal giorno in cui l’aveva conosciuto, a S. Pietro Vernotico, in occasione della formazione del reparto, e poi sopportato come indesiderato compagno di branda, ma veniva alla fine puntualmente messa da parte dal ricordo di quel ragazzo basso, magro, corvino  e  riccioluto, che, a rischio della propria  pelle, coraggiosamente aveva risalito  le pendici di un colle per salvare la sua.

Pellegrini era un giovane di tutt’altra pasta: anche lui figlio di contadini, era però cresciuto nel mito dell’onestà e del rispetto delle leggi, nonché del vivere con poco, tant’è che si riprometteva, una volta uscito vivo da quell’inferno, di tentare l’arruolamento nei carabinieri o nella pubblica sicurezza, come un suo zio materno. Con Lorusso, praticamente il giorno e la notte

E tu che pensi abbiano in mente, Loru’? Te lo chiedo solo perché sono le otto di sera e domattina ci dobbiamo alzare all’alba. Così tu rispondi e possiamo finalmente   andare a dormire senza le tue rotture del cazzo.”

“Ihhh…stai sempre nervuse, ma che vita triste che fai …ma fatti ‘na ragazza, ad Anzio ce ne stanno tante di carine…io per esempio domani sera mi vedo con una certa Beatrice e dopodomani con sua cugina. Sempre che il tenente non mi metta in punizione.”

“Strano, perché le donne di qua ci schifano. Puntano a farsi sposare dagli americani. E in ogni caso Beatrice e la cugina lo sanno che hai intenzione di uscire con tutte e due? No, eh?  Sicuro come i calli che ho ai piedi. Sì ‘nu truffatore pure con le femmine. Truffatore ma anche indovino, vedo: ora prevedi le punizioni. O sei diventato mago per davvero o ne hai combinata una delle tue. Si accettano scommesse…”

“Niente…è per ‘nu poco di benzina fregata ad un camion americano, 'nu “Jimmy” mezzo scassato. E’ ricoverato in officina. Ho fatto amicizia con due meccanici, due paisà, figli di gente   emigrata dall’Abruzzo. Mi hanno lasciato solo per mezz’ora per andarsi a fare una bevuta allo spaccio…. Però poi sul più bello è entrato nell’hangar quel rompicoglioni di friulano del sergente Canzian …. Questo Paese non avrà mai un futuro fino a quando la gente non imparerà a farsi i cazzi suoi…”

Malgrado lo sconcerto, Pellegrini non poté tuttavia non apprezzare la solennità oratoria con la quale il commilitone aveva pronunciato l’ultima frase: Michele Lorusso aveva talento - si disse - inutile negarlo. Per la politica o per la galera.

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francesco61dgl2 più di un mese fa

L' ANGOLO DEL RACCONTO

 

La beffa  (parte quinta)

 

5.“Deve parlarne  con il gen. Basso, maggiore Nini, senza il suo benestare non se ne può far nulla e anche mio padre lo sa. ” Il tono ultimativo del Principe di Piemonte e futuro Luogotenente del Regno, Umberto II, non lasciava spazi a interpretazioni benevole: c’erano in ballo catene di comando e sensibilità   che neanche  l’ autorevole  carica rivestita da Nini si poteva permettere di non rispettare.

Inoltre, c’era anche un altro problema di non indifferente spessore da superare: il   Capo di Stato Maggiore Generale Giovanni Messe, il protettore di Umberto Utili, l’alto ufficiale antitedesco per antonomasia inviso alla casta militare badogliana.  Utili , infatti, era quello che  avrebbe voluto attaccare le truppe tedesche in Italia ben prima  della firma dell’armistizio, consapevole delle tragiche conseguenze a cui sarebbe andato incontro il Paese se si fosse consentito ai nazisti di rafforzare ulteriormente la loro presenza militare nella Penisola.

I reparti comandati dal gen. Utili  però nel frattempo si erano spostati lungo la dorsale  adriatica, distinguendosi nei combattimenti per valore e sprezzo del pericolo, e sarebbe stato considerato un grave sgarbo non permettere proprio a loro di essere i  protagonisti dell’ingresso a Roma liberata.

Se Messe avesse assentito all’operazione senza il coinvolgimento di Utili e dei suoi militari, metà di strada poteva dunque considerarsi attraversata.

Restava certo l’altra metà, la più ardua da percorrere: il consenso anglo - americano o, in caso contrario , il ricorso all’espediente cui Nini aveva accennato a Martini.

Ma ovviamente di questo  Messe sarebbe dovuto restare del tutto all’oscuro.

Basso, subito contattato da Nini, concordò immediatamente sull’importanza della missione concepita da Vittorio  Emanuele  ma lo spedì da Messe per il benestare definitivo, come già  abbondantemente previsto  dal maggiore.

Tuttavia  Messe si rivelò, com’era facilmente prevedibile, un osso duro da spolpare. Un osso duro e anche infastidito dalle richieste di  quell’ufficiale di livello modesto e che neppure avrebbe dovuto permettersi di venirlo a disturbare per esporgli quel cumulo di sciocchezze.

Generale, Utili e i suoi sono troppo lontani, perché non chiedere al Gen. Clark il nullaosta per permettere ad un reparto della 210^ Divisione di entrare a Roma? Io  avrei pensato ai ragazzi del 67 ° Legnano, il reggimento che si è battuto con onore a Montelungo. “

Non se ne parla nemmeno, maggiore, o Utili o nessun altro. Senza Utili non avanzerò alcuna ‘supplica’ a Clark o a chicchessia e francamente le dico pure che persino con Utili e i suoi disponibili a prestarsi a questa bizzarria, avrei molte remore in proposito… I nostri rapporti con gli alleati, come può facilmente immaginare, viaggiano ogni giorno sul filo del rasoio e basta un nonnulla per farli precipitare al livello più basso. Cosa che non ci possiamo di certo permettere.

Nini ascoltò in silenzio la reprimenda, astenendosi dal voler ricordare al generale  quale alto pulpito avesse partorito ‘la bizzarria’ : aveva intuito che Messe, così come Utili, faceva parte di quella esigua schiera di alti ufficiali dell’esercito fedeli sì all’istituzione monarchica ma poco compromessi con la combriccola politico-militare che ruotava attorno alla Casa Reale e che aveva grosse responsabilità nell’ascesa del fascismo e in tutto quello che era accaduto in Italia dal 1922 in poi.

Scattò sull’attenti, salutò militarmente, ricambiato, il superiore e in perfetto silenzio lasciò la stanza di Messe.  Ormai sapeva cosa doveva fare.

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francesco61dgl2 più di un mese fa

L' ANGOLO DEL RACCONTO

 

La beffa  (parte quarta)

 

4. “E’ un bel problema, maggiore,  inglesi e americani non ce lo permetteranno mai.”

Lo so, Martini, lo so benissimo. – rispose Nini con una strizzata d’occhi al sottoposto - E lo sa anche il re. Dovremo giocare d’astuzia, che poi sarebbe una delle cose che a noi italiani riesce meglio, no?”

Il diciannovenne soldato pugliese che, in qualità di autista della jeep, li stava riportando al reparto smadonnando sottovoce per le numerose buche disseminate su quelle strade campane polverose e disastrate, non riuscì a trattenere la curiosità:

Comandi , maggiore,  ma si può sapere di che si tratta?”

Martini lo richiamò bruscamente all’ordine: “Lorusso, pensi solo a guidare.”

Nini però lo fermò subito con un gesto della mano “Tenente, il fante Lorusso io lo conosco bene: è curioso come le scimmie, non può farci nulla. Però è anche un ragazzo di fegato, l’ho visto coi miei occhi a Montelungo, e dunque merita d’avere una risposta: Lorusso dovremo fare una cosa parecchio rischiosa,  ma non so dirti ancora né come e né quando.”

Io comunque un’idea in effetti già ce l’avrei, Martini – continuò sottovoce il maggiore con un sorriso sornione – è un‘idea folle ma è l’unica: imbucarci come americani…”

Il sottotenente strabuzzò gli occhi: Nini doveva essere impazzito. Travestire soldati italiani da americani significava esporli, qualora scoperti, a processo e probabile condanna da parte dei tribunali militari alleati, con gravi conseguenze anche nei rapporti sempre delicatissimi tra il CIL e i comandi anglo-americani.  Pur tuttavia non poté fare a meno di provare un moto di ammirazione per il superiore: ci volevano gli attributi anche solo per ipotizzare una pazzia del genere e gli attributi non erano certo una qualità molto diffusa tra gli alti ufficiali dell’esercito italiano. Tralasciando gli errori madornali commessi durante i primi tre anni di guerra, sarebbe bastata la conduzione farsesca delle trattative per l’armistizio a dimostrarlo: il gen. Ambrosio, il Capo di Stato Maggiore, che diserta un incontro decisivo con i plenipotenziari mandati da Churchill e Roosevelt per indifferibili esigenze familiari che tali non erano affatto; il gen. Pietro Badoglio, Maresciallo d’Italia, che ordina al suo attendente di non far entrare nessuno perché sta andando a dormire. Peccato che chi si presenterà poi di notte  per incontrarlo, ricevendo un netto rifiuto da parte del solerte militare di guardia al  sacro talamo, saranno un generale e un colonnello del Comando Alleato che volevano definire le clausole dell’armistizio; il mancato riconoscimento, da parte sia di Badoglio che  degli agenti del SIM, della musica di Giuseppe Verdi messa in onda in una certa ora dell’8 settembre 1943 da Radio Londra quale segnale per annunciare l’armistizio,  per finire con la fuga vergognosa a Brindisi di famiglia reale, Governo e Stato Maggiore, con l’esercito e la popolazione  lasciati  in balia dell’orda  germanica,  che in tutto quel tempo sprecato aveva avuto il tempo, lei sì, di ammassare truppe al confine con l’Austria e invadere il Paese.

Martini scosse la testa, sconsolato: meglio, mille volte meglio, seguire un maggiore mattoide ma coraggioso che simili stelle di latta e politici da operetta.

Posso contare su di lei, Martini? – proseguì Nini dopo una breve pausa - Conosco le sue opinioni politiche ma, pur essendo io un convinto monarchico, la stimo ugualmente per la disciplina e la competenza che ha dimostrato da quando è in servizio nella 210^. I soldati della sua compagnia, poi, le vogliono molto bene, mi risulta. E’ importante che possa avere al mio fianco, in questa impresa, un ufficiale  serio e fidato. Anche se oggi, è giusto che lo sappia, avrei preferito averne con me  alla Villa qualcuno di grado più elevato del suo. Questioni di forma, mi deve capire.”

Come se il giovane non l’avesse capito fin dall’inizio.

E sulle divise stavo scherzando, Martini….” Altra strizzata d’occhio.

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