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francesco61dgl2 27 giugno

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Maggio 2018

Se la libreria piange più della tasca

Osservazioni ad adiuvandum all’Amaca “classista” di Michele Serra

Credo che tutti i lettori assidui di Repubblica (ma non solo) conoscano l’Amaca di Michele Serra, ovverosia quella rubrica deliziosa che il noto scrittore e giornalista tiene da anni sul quotidiano romano e nella quale veicola, in brevi e icastici concetti, il proprio punto di vista sugli eventi politici o di costume del momento. Sono articoli di poche righe e pur tuttavia sempre estremamente chiari e incisivi. Merito questo dell’inconfondibile stile di Serra, al contempo piano e raffinato come nella migliore tradizione montanelliana. Tuttavia talvolta la necessaria sinteticità del testo, malgrado le indubbie capacità del autore, può ingenerare equivoci e dare la stura alla solita e stucchevole giostra di polemiche sia sui social (dannazione eterna a chi li ha inventati…) che su internet o sui giornali concorrenti.

E’ quello che puntualmente è accaduto dopo un’Amaca della scorsa settimana a proposito del commento di Serra, da molti giudicato classista, su un grave e deplorevole episodio di bullismo scolastico ai danni di un docente accaduto all’interno di un istituto tecnico di Lucca. Cosa ha mai detto Serra di tanto scandaloso da scatenare la solita gazzarra di insulti, derisioni e malevolenze? Ha detto una cosa sgradevole ma estremamente vera: purtroppo certe manifestazioni di inciviltà, per non dire altro, sono più frequenti tra gli studenti degli istituti tecnici e professionali che tra quelli dei licei. Il motivo? L’inopia economica e culturale delle categorie sociali di provenienza della maggior parte degli allievi del primo tipo di scuola, solitamente appartenenti a famiglie in cui scarseggiano soldi e congiuntivi.

Immediati i fulmini e le saette, dalle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno: Serra ottuso, Serra rimbambito, Serra altoborghese con le puzze al naso, per finire col sempiterno “Serra fascista”, un condimento buono per tutte le pietanze ed asperso in abbondanza alla minima occasione. Ovviamente giudizi del genere sono stati spadellati con generosità e nella loro espressione più rozza e truculenta soltanto nei famigerati social, luoghi dove gli onagri da tastiera, tra una forchettata e l’altra di biada, sfogano in assoluta libertà la propria idiozia compulsiva demolendo a colpi di villanie da taverna e rutto finale azioni, valori e persone (Umberto Eco Santo Subito). Dal canto loro, opinionisti e colleghi di Serra hanno invece espresso, com’era logico attendersi, critiche aspre ma ragionate e soprattutto consone agli insegnamenti di monsignor Della Casa. In entrambi i casi, tuttavia, la sostanza del messaggio è rimasta la stessa: sia gli uni che gli altri, imbevuti di quel donmilanismo da strapazzo che tanti guasti arreca da anni alla società e alla scuola italiane, non hanno capito che le riflessioni di Serra, oltre che rispecchianti in pieno quella che purtroppo è da tempo la realtà quotidiana di tante aule scolastiche, sono tutt’altro che classiste. Quello di Serra è, infatti, nient’altro che un enorme urlo di Munch, l’ urlo di rabbia e indignazione di un progressista erudito, cresciuto a pane e Gramsci (“studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”), che osserva sgomento il fallimento di uno dei caposaldi valoriali per i quali si è speso e nei quali ha creduto: la diffusione del sapere, e specialmente di quello umanistico, tra le classi meno agiate quale volano di elevazione morale e materiale, fonte di riscatto e di eguaglianza sostanziale – quella che elimina gli ostacoli e offre a tutti le medesime possibilità di partenza (art. 3, comma secondo, Cost.) – strumento principe per la realizzazione di un modello di società improntato al rispetto dei precetti di legge e di civile convivenza.

C’è però nel (corretto) ragionamento di Serra anche la perpetuazione di un equivoco di fondo che nessun commentatore riesce mai a cogliere: oggigiorno le fasce sociali cosiddette inferiori spesso sono tali solo per un pregiudizio ottocentesco duro a morire. Mi spiego meglio: negli istituti tecnici e professionali ci troveremo più facilmente il figlio dell’operaio rispetto al figlio del cancelliere di tribunale, ma non è detto che il primo sia sempre economicamente più povero del secondo. Molto spesso la povertà è soltanto culturale, non economica. Ragion per cui il meccanico, l’artigiano o il negoziante con una situazione reddituale senza particolari patemi mandano la loro prole all’istituto tecnico perché latino, greco e storia per costoro son solo perdite di tempo o perché il ragazzo scrive ancora è verbo senza accento (e dunque, che liceo vuoi fargli fare?); mentre l’impiegato e il piccolo professionista, che di solito non navigano certo nell’oro, preferiscono che i figli comunque vadano al liceo perché danno più importanza alla formazione culturale che agli sbocchi occupazionali immediati.
Per capire che gli squilibri tra le famiglie d’origine di liceali e studenti dei tecnici sovente sono inesistenti o quasi (almeno all’apparenza), basterebbe osservare abbigliamento e accessori (smartphone, ciclomotori ecc.) degli adolescenti che frequentano i due indirizzi scolastici: praticamente identici. La disparità, dunque, non sta tanto nel portafogli quanto nelle biblioteche e casomai, per trovare i rampolli dei veri benestanti, bisognerebbe visitare – oggi come ieri – i licei privati di prestigio, non certo un Terenzio Mamiani qualsiasi. Di contro, i figli della gente veramente povera tuttora si fermano alle medie (l’obbligo scolastico fino ai 16 anni non è coperto da sanzione, il che, in un Paese come l’Italia, equivale a dire che non esiste…), soprattutto perché i costi dei libri di testo delle superiori-liceo o tecnico che sia- per le tasche dei loro genitori sono davvero proibitivi.

Se non comprendiamo questa fondamentale differenza rispetto all’epoca e alla scuola di Don Milani, non riusciremo mai a capire il perché dei bullismi e dei vandalismi dilaganti tra i giovani d’oggi. Quando le carenze sono soprattutto economiche, la rabbia dei giovani provenienti da realtà ambientali svantaggiate ha sempre ed essenzialmente un sostrato di protesta sociale; quando la stessa rabbia promana da studenti espressione di contesti familiari dal tenore di vita bene o male sereno, le cause sono più complesse e vanno cercate altrove, in special modo nel machismo (anche declinato al femminile) e nelle logiche da branco che dominano gli stadi e le periferie delle grandi città (ma questi comportamenti collettivi da tempo si sono espansi pure ai centri medi e piccoli), nell’aggressività elevata a imprescindibile cifra esistenziale individuale (pensiamo alle liti di condominio, oggi autentica piaga sociale e fino a pochi anni addietro fenomeno estremamente circoscritto) nonché nell’eccessivo risalto e nell’eccessivo seguito che hanno certi cattivi maestri televisivi (gli “eroi” di Gomorra, dica quello che vuole certa sociologia di larga manica, non saranno mai un innocuo intrattenimento e tantomeno un buon esempio): tutti fattori che inevitabilmente esercitano una maggiore presa tra chi ha una confidenza con le pagine di un buon libro inversamente proporzionale a quella che ha con playstation, discoteche e sale giochi.

Miscelate tutto questo con l’infimo livello di considerazione e autorevolezza di cui godono oggi i professori e con la pervicace convinzione di parecchi genitori di avere per figli dei cherubini dal rendimento scolastico bugiardo rispetto alle  eccelse qualità,  e avrete come risultato... Lucca.

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francesco61dgl2 21 giugno

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Ottobre 2017

 

Polvere di UE ( e di buon senso)

Domenica primo ottobre a Barcellona più che ad una rinascita, quella della nazione catalana, abbiamo assistito ad un funerale, quello dell’Unione Europea, perlomeno della sua versione post Maastricht e Lisbona. Questo lo hanno capito tutti ma pochi hanno il coraggio persino di bisbigliarlo.

Abbiamo sempre creduto, nel lato occidentale del vecchio Continente, che le pulsioni nazionalistiche e irredentistiche fossero ormai appannaggio quasi esclusivo dei Paesi slavi. Faccenda di sarmati e ostrogoti, insomma, di popoli ancora semibarbari o quasi (nell’immaginario di certa opinione pubblica occidentale) che non riescono ad affrancarsi dal fascino perverso dello scannamento reciproco, della sopraffazione del vicino, dell’ecatombe di chi è diverso da qualcun altro per religione, etnia o tribù.
Niente di più falso. In queste cose, l’Europa dell’Est ha semplicemente la febbre più alta di quella dell’Ovest. L’unica differenza, a parte la temperatura corporea, è che in Occidente la malattia cambia nome e si chiama sovranismo. La diversità non è solo terminologica, però: il nazionalismo è per sua natura aggressivo, parte dal presupposto che la propria nazione sia stata investita della missione divina di prevaricare gli altri, di sottometterli quando non, addirittura, di sterminarli; il sovranismo è un atteggiamento difensivo, rinasce quando comincia a serpeggiare tra i componenti di una comunità sovranazionale la paura che qualcosa o qualcuno voglia aggiogare il proprio Paese, metterne in pericolo l’integrità e privare gli organi di governo di poteri, attribuzioni e prerogative. Due stati d’animo collettivi diametralmente opposti, dunque, ma che fa comodo a qualcuno considerare omogenei nella genesi e nei fini.

In Francia, in Italia, in Grecia e in altre realtà europee dopo la crisi del 2008 e la scoperta dell’acqua calda,  ossia che a Bruxelles interessava (e interessa) principalmente la salute delle banche e del sistema finanziario più che quella dei cittadini, ciò che si è riaffacciato alla finestra della Storia è il sovranismo, non il nazionalismo. L’esempio più lampante è stato quello della Lega di Salvini, che cogliendo la palla al balzo ha deposto ampolle, riti celtici e velleità secessioniste per abbracciare appassionatamente la causa del made in Italy, della difesa delle frontiere e dell’orgoglio nazionale, tant’è che ormai in via Bellerio manca solo lo sdoganamento del tricolore e dell’inno di Mameli.
La Catalogna è tuttavia, a mio avviso, un’altra cosa ancora rispetto a nazionalismi e sovranismi classici e i conestabili della UE questo non l’hanno capito, convinti che la voglia di indipendenza dei catalani fosse solo la folcloristica agitazione di alcuni emuli iberici di Bossi e co. Invece la questione catalana è da secoli una controversia istituzionale molto particolare e molto seria e solo chi reputa la conoscenza della Storia una categoria dello spirito buona solo per le citazioni dotte può sottostimarla o addirittura deriderla.

Giorni addietro è uscito un bell’articolo sul FQ che riassumeva i prodromi di quello che sta accadendo in queste ore. Si parte da Isabella e Ferdinando, dalla perdita di ricchezze e centralità dei possedimenti del secondo (tra cui la Catalogna) dovuta alla chiusura, agli inizi del XVI secolo, delle rotte mediterranee tradizionalmente battute dai commercianti catalani (peraltro con contestuale apertura e fortuna di quelle atlantiche, appannaggio dei castigliani) ma ormai infestate dai corsari turchi, fino ad arrivare agli orrori della guerra civile del 1936, che vide la Catalogna repubblicana e antifascista opporsi tenacemente al franchismo prima e alla dittatura poi. In mezzo, l’assedio e la caduta di Barcellona del 1714, alla fine della guerra di successione spagnola, quando la Catalogna fece un’altra scelta di campo coraggiosa e perdente, schierandosi con gli Asburgo in contrapposizione ai Borbone.

Come si può notare, siamo di fronte a risentimenti antichi mai sopiti e soprattutto estremamente diffusi tra la popolazione catalana. La risposta per tentare di lenire o sedare questo genere di situazioni, potenzialmente devastanti per la tenuta democratica di uno Stato, è solitamente e unicamente quella del dialogo. L’esecutivo guidato dal conservatore Rajoy ha scelto invece di rispondere nel modo più ottuso possibile, militarizzando la Catalogna, dando licenza di manganello contro cittadini inermi alla Guardia Civil e tutto questo per ottenere alla fine il risultato opposto a quello desiderato: oggi probabilmente se si potesse rivotare gli elettori catalani sarebbero molti di più dei 2,2 milioni che hanno votato domenica e il risultato finale a favore del sì ancora più schiacciante.
E l’Europa? “Silenzio assordante” scriverebbero i giornalisti professionisti, a parte un balbettio ad urne chiuse di Juncker che prova a salvare capra e cavoli, condannando sia l’indizione del referendum che le violenze poliziesche. Troppo poco, anzi pochissimo. Una Unione Europea che si intromette spesso e volentieri e senza alcun rossore nelle competenze degli Stati nazionali, non può poi tirarsi indietro quando in ballo, invece della lunghezza dei cetrioli e del diametro delle vongole, c’è il rischio che imploda uno tra i più importanti ed autorevoli (per storia, cultura ed economia) dei suoi membri.
Rilevo però in tutto questo anche una nota positiva. Per noi italiani poi, roba da non crederci. Ebbene sì: per una volta, lasciatemelo dire col petto gonfio di orgoglio patrio, l’Italia ha fatto la figura del gigante in mezzo ai nani. Non mi riferisco ai referendum autonomisti del prossimo 22 ottobre in Lombardia e Veneto, referendum consultivi conformi alla vigente Costituzione e tesi unicamente a chiedere maggiore autonomia a Roma. Mi riferisco ad un referendum – anch’esso, come quello catalano, del tutto arbitrario – indetto nel nord della Penisola nel 1996 dalla Lega secessionista di Bossi che vide la partecipazione al voto di quasi cinque milioni di persone, la maggioranza delle quali optò massicciamente per il divorzio dall’Italia.

Scesero i carrarmati in strada? Ci furono lanci di parà del Tuscania nei cieli di Milano, Venezia e Torino? Si videro reparti della Celere in tenuta antisommossa impegnati a cacciare a calci dai seggi i cittadini di quelle regioni? Volarono i Tornado sopra la Mole, Rialto e la Madonnina? Assolutamente no. Votarono tutti pacificamente e allegramente. Il giorno dopo, tutto come prima. Lo sapevano i leghisti e lo sapeva il governo nazionale. Il quale governo forse sapeva anche, per citare un tweet “ secessionista” che in questi giorni sta facendo furore sulla Rete, che quando negli scacchi si muove il Re, si è già persa la partita. L’opposto di quella coronata sarebbe la pedina del “buon senso”, merce che pare ancora reperibile nei nostri mercati. Altrove invece scarseggia parecchio.

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francesco61dgl2 15 giugno

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Premessa: mi giocherei la futura pensione  che noi italiani - Andreotti docet - sotto sotto amiamo tanto la Francia che ne vorremmo due...Questo articolo, pertanto, consideratelo pure la scoperta dell'acqua calda...😊

 

Luglio/Agosto 2017

Douce France

Chissà perché quando da noi si dice Francia, il pensiero corre subito a Napoleone. Forse perché bussò alle porte della Penisola vestendo i panni del liberatore e del modernizzatore e se ne andò indossando quelli del tiranno. La sua parabola italiana pertanto rappresentò la sintesi perfetta dell’atteggiamento tenuto per secoli dai cugini d’oltralpe nei confronti del nostro Paese e l’attuale padrone dell’Eliseo, tanto osannato dalle Cancellerie europee agli inizi del suo mandato quanto ora deplorato per l’uzzolo di grandeur che pare pervaderlo (l’entrata a piedi uniti nel ginepraio libico, la chiusura ermetica delle frontiere, i rimbrotti all’Italia per la gestione dei migranti, la minacciata nazionalizzazione dell’industria siderurgica per evitarne l’acquisto da parte di Finmeccanica), in fondo non starebbe facendo altro che perpetuare una lunga e consolidata tradizione.

La colpa però è nostra. Terra di conquista, saccheggio e confronto militare tra le potenze europee fin dalla fine del quattrocento, l’Italia chissà perché ha sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti dell’imperialismo transalpino. Da un certo punto in poi della Storia, infatti, si ha l’impressione che i francesi siano diventati occupanti più simpatici e accettabili degli altri, malgrado che più degli altri fossero spesso tracotanti, brutali e razziatori. Il baubau per gli italiani erano casomai gli austriaci che,  nonostante il passo felpato nell’amministrazione dei loro possedimenti asburgici, scontavano il fatto di essere i discendenti di quei sovrani tedeschi che nel Medioevo avevano aspirato a fare dello Stivale la propria vasca da bagno, e gli insolenti spagnoli, che con i loro governatori avidi e spendaccioni dissugavano, specie al Sud, l’Italia e i suoi abitanti peggio di una carovana di vampiri in gita aziendale.

I francesi invece dai primi decenni del sedicesimo secolo in poi, ovvero dai tempi dello sfortunato Francesco I di Valois e della sua raffinata corte di intellettuali e artisti, alle nostre latitudini hanno goduto di una fama di gentili e colti messaggeri di progresso che mal si confà però con le spoliazioni sistematiche di beni e opere d’arte e con le rozze sopraffazioni e prepotenze che hanno in genere caratterizzato l’epoca delle loro dominazioni. Eppure nell’immaginario collettivo nazionale la Francia continua ad essere vista come la terra della libertà e del pensiero evoluto ed evolvente. Un modello irraggiungibile da imitare per l’Italietta dai mille ritardi e dalle mille imperfezioni.
La verità è che la Francia è tutto questo ma anche molto altro, un altro decisamente meno attraente per le nostre orecchie. La Francia è Voltaire e Moliere ma è anche, tanto per fare un esempio, il generale Alphonse Juin, quello delle marocchinate del 1944, ossia gli stupri di massa e le esecuzioni sommarie commessi dai goumier dell’esercito gollista nei confronti di donne, uomini e bambini della Valle del Liri. La Francia è libertè, egalitè, fraternitè, è Anatole France e Proust, è Monet e Poussin, ma anche una nazione in cui lo sciovinismo e le frenesie di grandezza tornano ciclicamente ad infettare larghi strati del mondo politico e dell’opinione pubblica con una virulenza degna delle epidemie di colera dell’Africa occidentale.

Per farla breve, un Macron prima o poi ce lo dovevamo aspettare e invece siamo rimasti sbalorditi come adolescenti imberbi davanti al primo nudo di donna. Prima di Macron in Italia avevamo due pregiudizi che l’elezione del rampante presidente francese ha prontamente provveduto a spazzar via: quello che i nostri nemici storici, gli odiatori costituzionali degli italiani, fossero i tedeschi e quello che i nostri amici storici fossero i francesi, nonostante le risapute e accanite rivalità in tema di calcio, moda, cucina e vini.
Niente di più inesatto. La Francia, dopo decine di conflitti sanguinosi che hanno devastato l’Europa e decimato i suoi abitanti, oggi con la Germania, sua grande rivale di sempre, ci cammina a braccetto. La notizia, che in altri momenti avremmo accolto con enorme favore, alla luce delle ultime sortite della presidenza francese vuol dire soltanto che il re di Parigi e la zarina di Berlino si sono accordati per la spartizione dell’Europa: al primo il mediterraneo, alla seconda le brume del nord.

 

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francesco61dgl2 12 giugno

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Premessa:credo  - opinione mia - che non pochi penseranno che il libro di cui tratta la mia recensione di oggi sia la versione letteraria di una fiction famosissima andata in onda un paio di anni fa su Netflix. Errore: è nato molto prima il libro. E che libro. E che scrittore...

 

 

 

 
Un libro come La regina degli scacchi dello scrittore americano Walter Tevis (autore anche de Lo spaccone e dell’Uomo che cadde sulla Terra) offre, a mio avviso, tre chiavi di lettura: è un omaggio alla genialità, vista come dote misteriosa e imperscrutabile che gratifica a suo piacimento alcuni esemplari del genere umano; un romanzo sugli scacchi e la testimonianza di  una caduta e di un riscatto.
Come libro sugli scacchi, diversamente da altri esempi del genere (pensiamo a quel delizioso e raffinato noir iberico che è La tavola fiamminga di Perez Reverte), Tevis propone al lettore una sfida: quella di appassionarsi alle partite di Beth Armon, la giovanissima protagonista, pur non conoscendo neppure l’abc del gioco.  E innegabilmente riesce nell’intento. Le gare continue ed estenuanti della ragazza per la sua scalata ai vertici scacchistici mondiali diventano così un passaggio obbligato ed atteso del romanzo, malgrado per molti le manovre sulla scacchiera di Beth e dei suoi avversari risultino del tutto incomprensibili. Ma il tono epico, da contesa mortale, che vi infonde Tevis fa passare in secondo piano l’astrusità delle mosse, facendo sì che gli incontri si seguano con lo stesso pathos con cui si assiste ad una battaglia o alla finale di un campionato del mondo di calcio. La scacchiera diventa in tal modo la continua prova del nove del fallimento o del successo di una persona, Beth, che avrebbe tutto, nell’America competitiva e perbenista dei primi anni sessanta, per essere classificata come un prodotto difettoso.
E’ orfana, donna, povera, bruttina e introversa e non possiede dunque la benché minima fideiussione  per il successo in società.  Non bastasse ciò, vive nella profonda provincia del Kentucky, lontana dalle grandi metropoli del sogno americano. Però Beth ha un dono di natura, scoperto in età infantile nell’istituto in cui è stata rinchiusa dopo la morte dei genitori: è un talento formidabile negli scacchi, gioco ritenuto fino ad allora prerogativa esclusiva dell’universo maschile. L’eccitante scoperta della propria preziosa diversità segna la lenta ma costante rincorsa di Beth verso la conquista dei santuari del gioco, dai campionati locali a quello continentale fino  all’apoteosi   in Russia, nazione considerata da sempre la culla degli scacchi, dove finalmente riesce a battere il campione mondiale in carica. Ma il suo non è certo un percorso scevro di difficoltà, dubbi,  sconfitte,  abbandoni, continue scommesse con se stessa. Beth ha un demone che la divora e che tante volte, nel corso della narrazione, rischierà di allontanarla dal suo obiettivo di diventare la prima donna campione del mondo di scacchi: beve e ingurgita tranquillanti. Beve, si impasticca e in fondo non sa neppure lei perché lo faccia, perché ad ogni nuovo, faticoso tassello sulla strada della gloria  l’alcolismo e le pillole si insinuino nella sua vita minacciando di mandarla definitivamente a rotoli.
Qui Tevis pare volerci ammonire sulla fragilità dell’uomo, sulla sua incapacità, sia esso genio o idiota, di gestire razionalmente la propria esistenza secondo regole rassicuranti, prefissate, conformi all’immagine  che proiettiamo all’esterno, a ciò che gli altri si aspettano da noi. C’è, insomma, un imponderabile dietro ogni essere umano che talvolta scompagina piani e prospettive, una pecca, nell’ingranaggio apparentemente perfetto della personalità, che ci fa scoprire nudi e indifesi davanti al mondo e ci ricorda continuamente quale pozzo di bassezze e di virtù possa convivere simultaneamente dentro di noi.
In tutto questo c’è ovviamente anche molto di autobiografico: Tevis è stato un alcolista e un intellettuale lacerato continuamente da incertezze e ripensamenti sul reale valore delle sue opere, prova ne sia che, ad onta del successo ottenuto con Lo spaccone, fu sorpreso da un giornalista a frequentare corsi di scrittura creativa. Come Beth Armon, si sforzò sempre di migliorarsi, non fidandosi dei doni di natura e rinunziando per anni a scrivere anche un solo rigo. Quando finalmente, nella prima metà degli anni settanta, sembrò aver fatto pace con se stesso e con la letteratura, una crudele malattia lo condusse alla morte appena cinquantaseienne.
 
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francesco61dgl2 10 giugno

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Nota: l' articolo di oggi può ritenerersi "ammuffito" per l'anno in cui lo scrissi, di certo non (purtroppo) per l'attualità del tema e per  i suoi contenuti.

 

Novembre 2017

Ho visto giocare Roberto Baggio

Io c’ero. Ero lì, davanti alla tv, fresco di laurea in legge e in compagnia di un padre che se ne sarebbe andato appena quattro mesi dopo, in una maledetta e piovosa sera di fine ottobre. Era l’anno dei mondiali, quelli delle notti magiche, e si giocava Italia-Cecoslovacchia (ebbene sì, ancora per poco ma c’era ancora la Cecoslovacchia). A metà del secondo tempo esordisce per l’Italia un ragazzino basso, smilzo e col codino. Piglia un pallone a centrocampo, triangola con un compagno e poi inizia a danzare, palla al piede, verso la porta avversaria. Salta un avversario, ne salta un altro, ne dribbla un altro ancora, tira e segna. Il tutto con grande leggerezza, come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo. A casa lo guardiamo ipnotizzati, pensando di assistere ad una recita. Suvvia, è uno scherzo, si è messo d’accordo con gli avversari, non è possibile, per le leggi della fisica e per quelle del pallone, che tanti esperti marcantoni si possano irridere così, scartati come birilli da un ragazzino di appena 21 anni. Invece era tutto vero.
Quel ragazzo si chiamava Roberto Baggio, un giovanissimo talento regalo della profonda provincia veneta, e negli anni seguenti di magie come quelle ne avrebbe fatte molte altre, deliziando gli occhi del pubblico e le penne dei giornalisti sportivi. Agli adolescenti d’oggi, calcisticamente cresciuti a Neymar e Cristiano Ronaldo, il suo nome forse non dirà più nulla ma è stato uno degli ultimi prodotti di alta qualità, insieme a Pirlo, Totti e Del Piero, della tradizione calcistica italiana, quella che privilegiava i piedi buoni di bernardiniana memoria a scapito di centometristi e palestrati senz’anima e senza fantasia. Quelli li lasciavamo agli altri, soprattutto anglosassoni, scandinavi e teutonici, non foss’altro per il piacere di batterli puntualmente ogni volta che ci capitava di incontrarli.

Noi eravamo diversi, noi eravamo latini. Noi eravamo adoratori del Dio Estro e della Dea Inventiva. Noi aspiravamo ad essere, nel calcio, i sudamericani d’Europa.
Cos’è successo nel frattempo? Me lo chiedevo ieri sera mentre una nazionale con tanta buona volontà e pochissime idee si faceva ignominiosamente cacciare dal mondiale del prossimo anno da undici biondi e onesti (anche se piuttosto fallosi) operai svedesi della pedata. Fino a pochi anni fa, Italia-Svezia sarebbe stata una partita di tutto riposo: noi sapevamo che la loro fisicità e il loro gioco noioso e ripetitivo ci avrebbero creato qualche problema, loro sapevano che tuttavia alla fine il livello superiore del nostro gioco e dei nostri giocatori avrebbe avuto la meglio.

Da ora in poi, invece, Italia-Svezia sarà sinonimo di incubo, disastro epocale, tragedia nazionale. Ovviamente tutti eventi catastrofici riferiti al calcio, ossia ad un gioco, ma trattandosi dello sport più popolare, quello che spesso è chiamato a supplire – giusto o sbagliato che sia – ai fallimenti tricolore in altri e ben più importanti campi e che di fatto, a seconda dei casi, risolleva il morale dei cittadini o lo fa finire definitivamente sotto le scarpe, una mancata qualificazione ai campionati mondiali di calcio del 2018 (dopo ben 60 anni di partecipazioni ininterrotte), piaccia o meno non può essere sbrigativamente liquidata come un puro e semplice evento sportivo.

Preso atto di ciò, sarebbe pertanto il caso che la Caporetto di ieri sera diventi l’occasione per un’altra Vittorio Veneto, per voltare definitivamente pagina, per tornare a coltivare i vivai nazionali, per tornare a giocare come sappiamo giocare, senza provare a scimmiottare filosofie e metodi che non appartengono alla nostra storia calcistica.
Tanti puntano il dito sull’eccesso di stranieri, altri ribattono che pure altrove gli stranieri abbondano. La verità probabilmente sta nel mezzo: all’estero, al contrario che in Italia, fanno giocare molti stranieri ma tenendo sempre d’occhio e curando amorevolmente la “fauna” calcistica locale, specie quella giovanile. Invece noi, con italica insipienza, abbiamo subito buttato bambino e acqua sporca, al punto che attualmente nei nostri campionati quando una squadra schiera in campo più di due giocatori italiani, si grida al miracolo.
Altra moda deleteria invalsa da anni (perlomeno dalla metà degli anni novanta) e da abiurare senza tanti rimpianti sarebbe quella che ha rimosso dal Pantheon calcistico italiano la Dea Fantasia per sostituirla con il Dio Modulo. Da noi oggigiorno un dodicenne di una scuola calcio che tentasse un dribbling in allenamento, rischierebbe come minimo il solenne cazziatone dell’allenatore e l’esclusione dalla prima squadra per almeno due turni.

Se a tutte queste concause (l’eccesso di stranieri, l’idolatria per i tatticismi, il ripudio del talento dei singoli in nome della sacralità del collettivo ecc.) aggiungiamo pure l’assoluta inadeguatezza del commissario tecnico (il 4-2-4 contro la Spagna non si schiera nemmeno alla playstation e tenersi in panchina Insigne è un insulto alla decenza e all’intelligenza), il risultato finale è Svezia in paradiso e Italia al mare.

Sì, ho visto giocare Roberto Baggio, ma si trattava di un’altra storia, un’altra epoca e forse pure di un altro pianeta.

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francesco61dgl2 08 giugno

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Cosa c’è di più duro dell’acciaio? Forse nulla. Eppure in natura non esiste, è una lega, un composto di minerali creato dall’ansia dell’uomo. L’ansia di modificare la natura, plasmarla, inventarla, per sentirsi come Dio, per usurpare le prerogative di Dio.

Cosa c’è di più duro degli operai che quell’acciaio lo lavorano, lo piegano incandescente, lo forgiano per le necessità di trasporto e di utilizzo, ne fanno fili, tubi, cavi, pentole, piloni, barre, casseforti? E cosa c’è di più duro di un quartiere operaio, un alveare affacciato sul mare che gioca a fare Montecarlo con gli stracci appesi ai davanzali, con le urla e le liti nei ballatoi, le risse, il vociare dei bambini nei cortili e la puzza di cavoli e sudore che esce dalle porte e dalle finestre degli appartamenti? Cosa c’è di più duro di un mondo che sa di aver perso prima ancora che cominci la partita? Un mondo di schiene spaccate negli altiforni, bollette e affitti che sedimentano nei cassetti,  mogli  e tappezzerie consunte e rattoppate, figlie adolescenti che sculettano per la via divorate dagli sguardi dei maschi e convinte di potersi scansare il destino delle madri, giovani spersi dietro tirate di coca e figa a poco prezzo.

Questo brulicante e tragico microcosmo urbano, questo girone infernale di anime belle e dannate, Silvia Avallone lo ha vissuto per noi e ce lo racconta in Acciaio, grande e meritato successo editoriale del 2010 che una volta tanto ci riappacifica con la letteratura contemporanea, e con quella italiana in particolare.

Ci riappacifica con uno scrivere affilato come la lama di un samurai, una lama che penetra nel corpo vivo di un universo di uomini e donne dove tutto, ma proprio tutto, sembra essersi fermato al giorno della Creazione, quando un Padre Eterno distratto dimenticò un angolo di terra e un po’ di creature da qualche parte del suo laboratorio e là le lascio in eterno a macerare e a macerarsi dietro sogni di riscatto, case che si sbrecciano e televisori perennemente accesi sulla vita degli altri.

Ci riappacifica, Silvia, perché qui i contorcimenti intimisti e le masturbazioni mentali di quella borghesia smarrita che troppo spesso la fa da protagonista in libreria lasciano il passo alla vita vera, quella fatta di casermoni anonimi, vene varicose e calzini acquistati al mercato. O di giovani irrequieti  che pencolano le loro esistenze tra la spiaggia e il bar, tra la fabbrica del mattino e la discoteca della notte, tra la sveltina nel sottoscala e la scazzottata col migliore amico.

Sì, sono veri i personaggi della  Avallone. Sono veri e sono vivi. Sembra una cosa scontata quando si parla di trame e scrittori, ma non lo è . Troppi anni di sperimentalismo inconcludente e di letture adulterate della realtà, ci hanno regalato troppi personaggi e troppe storie di plastica, sostituibili gli uni agli altri come le cover di un cellulare e altrettanto facilmente destinati all’oblio. Invece dimenticare Anna, Francesca, Sandra, Arturo, Enrico, Alessio, Cristiano, Mattia  e tutta la corte dei miracoli che si agita, respira, scopa, si droga, si sballa, si ama, si odia e si riproduce tra i cubi di cemento armato di via Stalingrado è difficile, molto difficile. Ti entrano nella pelle e negli occhi , destinati a restarci a lungo, ciascuno con le sue miserie, i suoi drammi e le sue vanaglorie. Come si conviene ai grandi personaggi della letteratura sociale, dai ragazzi di vita di Pasolini agli intellettuali sfigati di Bianciardi. E non è un caso, forse, che  la Avallone condivida proprio con Bianciardi la stessa provenienza geografica, la stessa provincia toscana materna e maledetta. Una Toscana meridionale piatta, scorbutica e priva di belletti e pastorellerie, dominata dalla miniera, in Bianciardi, o  dall’acciaio della Lucchini e della Dalmine nella Avallone.

E come in Bianciardi la miniera maremmana o la Milano straniata  e straniante        dei grattacieli del boom alla fine la fanno da padrone, da vere protagoniste, così la Lucchini, la fabbrica mostruosa e incombente che signoreggia sulle vite agre dei suoi operai e delle loro famiglie, il Minotauro multicefalo e insaziabile che divora esistenze e metalli ad ogni ora del giorno e della notte, diventa, via via che si scorrono le pagine del libro, la primadonna della narrazione, un organismo che   sembra pulsare  di vita propria e condizionare ogni gesto, ogni emozione, ogni bestemmia di chi vive per e grazie a lui, sia esso uomo, gatto o pantegana.

Ed è  viva e vera,infine,  la Piombino del romanzo, vista però nel suo lato meno attraente, con quell’isola d’Elba proprio di fronte a via Stalingrado e alla sua spiaggia spelacchiata di periferia, a ricordare ai reclusi dell’alveare che esiste un mondo diverso e distante dal loro, un mondo di belle macchine e di donne ben vestite, di paeselli ordinati e tranquilli, di sabbia dorata per gente benestante e alla moda. Un mondo anelato e irraggiungibile, malgrado sembri lì a portata di mano: un paio di chilometri di mare, che ci vuole? Invece è più lontano dell’America.

 

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francesco61dgl2 05 giugno

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Maggio 2017

Damnatio memoriae

Stiamo vivendo in politica (ma non solo) un’epoca di grande mediocrità collettiva, mediocrità di eletti e mediocrità di elettori. Una grande mediocrità pur tuttavia ugualmente elevata al Sacro Soglio parlamentare o governativo dall’assenza pressoché assoluta di eccellenze. E’ una sorta di paesaggio lunare delle competenze e delle personalità talmente desolante da indurre il cinquantenne medio (ossia chi ha l’età minima per poter fare certi paragoni) a gridare al miracolo quando- ad esempio – in tv appare il volto al contempo pacioso e sornione, da pizzicagnolo partenopeo uso a rifilar fregature ai clienti, di un Cirino Pomicino.

Esatto, ho scritto proprio Cirino Pomicino e garantisco di non essere sotto l’effetto di droghe o alcool. Proprio lui, uno dei “fetentoni” per eccellenza di Mani Pulite, simbolo stesso delle maramalderie da Prima Repubblica, da sempre –nell’immaginario popolare- nella ristretta cerchi dei politici più disonesti e corrotti mai partoriti dall’Italia repubblicana. Vilipeso, irriso, a suo tempo ridotto da certo giornalismo montagnardo a macchietta d’avanspettacolo del tangentismo di bassa lega e additato al pubblico ludibrio quanto e più di altri esponenti politici di quella stagione, nell’odierno Sahara dell’offerta politica quando parla in tv appare un gigante, non foss’altro che per l’eloquio forbito e misurato. Un cimelio d’altri tempi, insomma, un  “rinascorinasco del milleottocentocinquanta” da far scappare la lacrimuccia ai tanti che, gozzanianamente, rimpiangono le piccole cose di pessimo gusto di un periodo della Storia patria in cui di quello che dicevano i politici non si capiva una benamata erma ma di cui in ogni caso si intuiva la statura, la cultura e il senso delle istituzioni che ci stavano dietro.
Persino in quelli un po’ cialtroni o canaglie, che mai però erano tali fino in fondo. Nella prima edizione della nota fiction di Sky su Tangentopoli (1992), un discusso senatore democristiano dall’inconfondibile accento campano confessa ad un poliziotto di essere nel mirino di alcuni suoi colleghi per il suo rifiuto di votare un provvedimento che avrebbe inondato di plasma infetto tutto il Servizio sanitario nazionale. Mirabile esempio, benché frutto di immaginazione, del tipo di confini etici che tanti politici di allora rotti ad ogni nefandezza non osarono varcare.

Per il resto, per carità, non si fecero mancare nulla: mazzette, finanziamenti allegri per opere inutili buone solo a raccattar voti e facile consenso, bavagli a giornalisti e magistrati, depistaggi di inchieste, intese e connivenze con la malavita organizzata. Tuttavia, anche i peggiori di loro, per ideologie professate o per condotte deplorevoli, avevano in dotazione – di serie – tempre, caratteri e retroterra culturali di pantagruelico spessore. Non mi stancherò mai di citare, a questo proposito, l’omaggio di Almirante alla salma di Berlinguer e quello di Pajetta alle spoglie mortali del segretario del MSI. Una roba da far accapponare la pelle, soprattutto se si pensa che stiamo parlando di uomini che in gioventù si erano sparati addosso.

Oggi capiamo quasi sempre e perfettamente i discorsi dei politici (ed è questo forse l’unico lascito duraturo di Tangentopoli, che ha spazzato via, insieme con una intera generazione di amministratori pubblici, anche le fumisterie verbali e i contorti bizantinismi a cui ci avevano abituato), ma altrettanto spesso vorremmo non comprenderli, tanta è la miseria argomentativa e di contenuti che esibisce indecorosamente la gran parte di costoro. Vedere, nella veste di autorevoli opinionisti dei numerosi pollai televisivi che intasano i nostri condotti uditivi, certi pseudo giornalisti tanto logorroici quanto inconsistenti o certi deputati che brillano unicamente per l’acconciatura del coiffeur di grido, se donne, e per il taglio impeccabile dell’abito sartoriale, se uomini, dà la misura del fondo che si è raggiunto da tempo e che da tempo si sta provando inutilmente a grattare.

La verità è che la damnatio memoriae, anche quando è strameritata (come nel caso della maggioranza dei politici travolti dall’inchiesta “Mani pulite”), spesso si porta appresso un cascame nauseabondo di approssimazioni, giudizi sommari e pregiudizi ottusi. Si cancella pertanto il nome di una persona dalla lavagna dei giusti dello Stato e della società buttando però puntualmente “bambino e acqua sporca”. E così gogna perenne, usque ad sidera et ad inferos, per il Craxi tangentaro ma anche per il Craxi che a Sigonella sfidò l’arroganza americana e per quello che dall’ ”esilio” tunisino rilasciò una impressionante e profetica intervista televisiva (il cui video è facilmente rintracciabile su Youtube) sulle conseguenze nefaste che i trattati di Maastricht avrebbero avuto per l’Italia e per la sua economia.

Ma se tutto ciò risulta già arduo da digerire quando l’ostracizzato di turno viene sostituito da qualcuno che non lo fa rimpiangere e che anzi spicca, al contrario del primo, per illibatezza di costumi e comportamenti, diventa decisamente intollerabile quando il rimosso viene rimpiazzato da soggetti che in un mondo perfetto (per dirla con Clint Eastwood) non potrebbero neppure pensare di aspirare a determinati incarichi e responsabilità.
E’ quello che è accaduto in Italia dopo il terremoto giudiziario dei primi anni novanta. Il nostro è un Paese che tra i tanti difetti non si è mai fatto mancare neppure la presenza invadente di un settarismo miope e becero (e politicamente bipartisan, è bene precisarlo), principale responsabile di quest’uso disinvolto del furore iconoclasta che ogni tanto s’abbatte su uomini e idee. Un modus agendi sconsiderato, che ha privato le nuove generazioni degli apporti feraci di individualità sovente onuste in egual misura di pregi e di mende e nei confronti delle quali la condanna inappellabile andava limitata soltanto alle seconde.

Peraltro, il vizio di imprimere imperituri, omnicomprensivi e qualche volta persino ingenerosi marchi d’infamia da noi è di antica data. Due nomi su tutti: il filosofo Giovanni Gentile, autore dell’unica (finora) riforma decente della scuola italiana post unitaria (parola di un filosofo di formazione marxista come Diego Fusaro), uno dei massimi pensatori italiani di tutti i tempi il cui omicidio resta, ad avviso di chi scrive, tra le pagine più buie della Resistenza, pari forse per indegnità solo al massacro dei partigiani della Osoppo; e Giuseppe Bottai, gerarca fascista anomalo, grande e mal sopportato eretico del regime, una delle poche menti lucide dell’entourage mussoliniano.
Ma se tante parole si sono spese nel dopoguerra a favore del primo, poche sono le voci levatesi per rivalutare il secondo. Provo dunque io, nel mio piccolo, a rimediare (preceduto in ciò, è bene ricordarlo, da una famosa e controversa monografia di Giordano Bruno Guerri: Giuseppe Bottai, fascista critico).

Uomo di solida cultura umanistica, protettore di intellettuali di fronda quando non apertamente antifascisti, Bottai è stato il promotore e l’anima di una rivista letteraria (Critica fascista) a cui parteciparono le migliori intelligenze del periodo e che tentò di alimentare le braci del dibattito culturale e del confronto di idee pur nel clima plumbeo della dittatura. A Bottai si devono anche le prime legislazioni a tutela dei beni culturali e paesaggistici (Leggi 1089 e 1497 del 1939, abrogate soltanto nel 1999, con il varo della cd. Legge Galasso) e per l’ordinato assetto del territorio (Legge urbanistica 1150 del 1942, tuttora in vigore) nonché nel 1921 il tentativo, fallito per colpa dell’ala muscolare del fascismo, di giungere ad un patto di pacificazione coi socialisti. Negli anni di Salò, ricercato per motivi opposti da ex camerati e CLN, si arruolò nella Legione straniera combattendo in Francia e in Germania contro i nazisti per (come scrisse) “espiare la colpa di non aver saputo fermare in tempo la degenerazione fascista”.

Un solo neo, enorme, oltre alla partecipazione alla fase squadristica della presa del potere da parte di Mussolini: l’adesione alle leggi razziali. Conoscendo il profilo innegabilmente liberale della personalità di Bottai (omaggiò sempre i Farinacci e i Pavolini di un esplicito, sdegnoso e aristocratico disprezzo), la sua scelta di campo sembrerebbe frutto di un inspiegabile corto circuito. Ma è probabile che la decisione di avallare quelle norme ignobili sia stata fortemente influenzata dalla necessità di non peggiorare ulteriormente i già pessimi rapporti che nel 1938 (anno di promulgazione delle leggi) ormai intercorrevano tra lui e il Duce, il quale notoriamente nutriva nei suoi confronti sentimenti allo stesso tempo di timore e fastidio: timore per l’intelligenza, fastidio per lo spirito critico.

Chi scrive crede fermamente che il prestigio e l’autorevolezza di una nazione siano il risultato di un mosaico composto dalle tessere di tutti coloro, nessuno escluso, che in vita l’hanno in qualche modo “illustrata”. Il rispetto di questo principio comporta la necessità di abburattare le esistenze di ciascuno, passando al setaccio le cose buone e le cose meno buone, per trattenere le prime e gettare le seconde. Ripudiare in toto figure che in ogni caso, al netto di debolezze, inciampi, sciatterie o vere e proprie mascalzonate, un pur minimo contributo alla edificazione di un Paese migliore a modo loro l’hanno fornito, vuol dire impoverire la memoria storica della comunità e privarla di punti di riferimento nella faticosa costruzione del proprio futuro.

  

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francesco61dgl2 04 giugno
 

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Leggere un libro di Tibor Fisher è come prendersi una pausa dalla normalità. Se ne astengano tassativamente gli appassionati di letteratura “borghese” , gli amanti delle storie cinematografiche alla Nora Ephron e tutti coloro che credono fermamente nei lumi della ragione. Con Fisher il mondo diventa una palla impazzita che ruota vorticosamente senza un’orbita prefissata. Saltella qua e là nell’universo facendo una visitina un po’ a tutti. I personaggi che vivono dentro questo ottovolante fuori controllo non sono da meno del mezzo che li trasporta: trasgressivi fino alla paranoia, schizofrenici, perennemente alla ricerca di qualcosa che dia un senso alla propria vita. Di più: perennemente alla ricerca di qualcosa che li confermi nel loro essere in vita.
Prendiamo un romanzo agorafobico come Viaggio al termine di una stanza: la protagonista principale, Oceane, è una trentenne diventata improvvisamente benestante grazie ai proventi della sua attività di grafica per una casa di videogiochi giapponese. Non era quello che avrebbe voluto fare nella vita, nutrendo  inappagate ambizioni di ballerina, ma è ciò che ora le permette di essere proprietaria di due appartamenti, uno dei quali sfitto, e di un buon conto in banca. Già qui, però, sorgono le prime perplessità, perche Oceane è sì economicamente abbiente ma si ostina a vivere in un palazzo che sorge in uno dei quartieri più malfamati di Londra e ad avere per coinquilini personaggi che sarebbe anche troppo edulcorato definire stravaganti e eccessivi. Di positivo per Oceane c’è , però, che i drogati, gli schizzati, gli sbandati  e i morti di fame cronici che transitano negli altri appartamenti solitamente ci vivono per pochi mesi, al massimo qualche anno. E’ così che la donna si ritrova tra le mani, ogni volta che scende a prelevare la posta, le tracce di vite ormai sbiadite e lontane, i cui  pallidi ricordi tornano faticosamente alla memoria nei minacciosi avvisi delle agenzie di recupero crediti e nei depliant pubblicitari. Tra la tanta paccottiglia epistolare, propria e altrui, che Oceane si porta a casa e apre, ce n’è un giorno una però che la riguarda e la riporta indietro negli anni, in un tempo in cui giovanissima aveva trovato lavoro in un locale porno di Barcellona e lì intensamente praticato, insieme ad altre donne e uomini della più varia e sbrindellata umanità, sesso dal vivo per la gioia degli spettatori paganti. Oceane a quel punto ingaggia un  improbabile incaricato di recupero crediti, ex mercenario in Iugoslavia, e lo spedisce in un isolotto sperduto della Micronesia alla ricerca dell’uomo che le ha inviato la lettera.
Tutto questo, però, senza spostarsi mai di un millimetro dal proprio appartamento, che diventa così il vero fulcro della vicenda, al tempo stesso covo rassicurante e singolare telescopio per osservare una realtà urbana e una società  che sembrano aver definitivamente smarrito le bussole della logica e del corretto ordito dei rapporti umani, frantumati e dispersi nei mille rivoli dell’egoismo, della competizione e dell’incomunicabilità.
Siamo di fronte, dunque, ad un’opera letteraria  indissolubilmente legata alla contemporaneità, a quella modernità stranita e centrifuga che caratterizza le esistenze di un’epoca priva di certezze e di ideali  come la nostra, dove la tecnologia ha ibernato le relazioni e la frenesia dell’apparenza e della sopravvivenza si è sostituita alla faticosa costruzione e affermazione dell’io.
Al di là dell’originalità ed effervescenza dei dialoghi e delle situazioni descritte, che vagamente ricordano, per la vena di surreale e feroce  pessimismo che li pervade, il miglior Celine (il titolo stesso è un omaggio ad uno dei più celebri romanzi dello scrittore francese)  e lo Swift della modesta proposta, Fischer squaderna agli occhi del  lettore un pianeta Terra dove Platone, Cartesio e Kant non hanno mai messo piede, dove il caos primigenio del big bang non si è mai acquietato e gli atomi di Democrito continuano a cozzare disordinatamente gli uni sugli altri, incontrandosi, lasciandosi, amandosi e detestandosi.
Se non avessero sembianze umane, pare suggerirci lo scrittore, potremmo davvero scambiarli per particelle di materia, tanto insensato e meccanico appare il loro moto perpetuo.
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francesco61dgl2 03 giugno

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Una precisazione importante per i lettori. Mentre l’archivio delle recensioni conterrà quasi tutte quelle che ho scritto nel corso degli anni per il blog lacantinadeilibri, l’archivio degli articoli riporterà solo una selezione dei pezzi destinati ai miei “defunti” blog di politica e costume. Ho deciso infatti di lasciare nella 'naftalina' telematica quelli troppo legati all’attualità, soprattutto politica, del momento in cui “videro la luce”.
 

 

Giugno 2017

La scimmia chic

“Dov’era alle diciotto?” “In camera mia. Con mia moglie e con Bachtin, Estetica e romanzo” Sarcastico: ”Presumo che lei l’abbia letto” “No” replicò neutro Bagioli “ però ho visto il film …Hans Tuzzi, Fuorché l’onore.

E’ mai possibile gioire, da italiani, per la vittoria all’ultimo Eurovision Song Contest di una canzone lusitana di anestetica tediosità e per la contemporanea sconfitta di un pezzo tricolore vivace, ballabile e per nulla banale, al di là delle stesse intenzioni dei suoi autori, come Occidentali’s Karma di Gabbani? In Italia sì, in Italia è possibile, essendo la Penisola da sempre la patria elettiva dei patiti di film cecoslovacchi con sottotitoli in tedesco di fantozziana memoria.

Al di là dello sgarbo alla bandiera, che in tempo di guerra fino a poco tempo fa sarebbe stato passibile di fucilazione (si scherza, suvvia), stupisce lo stomaco dell’affollata tribù delle scimmie chic, capace di trangugiare senza battere ciglio libri, film e musiche al cospetto dei quali la Kotionkin del buon ragionier Ugo appare un capolavoro di plautina scurrilità, un festival di rutti e peti in grado di far sganasciare dalle risate intere legioni di carrettieri.
Diceva Leonardo Sciascia (non proprio Pitigrilli, dunque) che il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile, perché crede che la difficoltà sia profondità. Ora, detta da un intellettuale della statura di Sciascia, grande appassionato dell’illuminismo francese e autore di saggi raffinatissimi, questa frase avrebbe dovuto spedire a Canossa interi reggimenti di scienziati, giornalisti, scrittori, cineasti, sceneggiatori, autori e registi teatrali spocchiosi e supponenti che da decenni, tramandandosi il testimone da una generazione all’altra e con l’appoggio delle truppe cammellate di certa pubblica opinione progressista, ci bombardano i neuroni col messaggio che romanzi, film, canzoni e opere teatrali devono essere obbligatoriamente dei degni sostituti del Roipnol per ottenere il sigillo di qualità.

La deriva sciccosa della cultura di sinistra è iniziata, si sa, con le avanguardie del primo novecento. Fino all’avvento del decandentismo gli scrittori e i poeti, forti della lezione manzoniana, avevano sfornato prodotti solitamente intellegibili a tutti, in teoria anche a chi a malapena sapeva leggere e scrivere. Basti pensare alla fervida stagione del verismo e agli scritti di un Giovanni Verga.

E’ con gli epigoni di Huysmans che si spezza il rapporto tra letterato e popolo, perché il primo ritiene di appartenere ad una koinè di passioni e sensibilità profondamente diversa, distante e migliore di quella a cui viene iscritta d’ufficio l’indistinta massa degli altri individui. L’intellettuale si chiude nella torre d’avorio della ricerca estetica fine a se stessa, del compiacimento adonico della propria creatività, e tutti gli altri diventano “gli schiavi ubriachi” che minacciano la bellezza e contro i quali si scaglia il Claudio Cantelmo della Vergine delle rocce di Gabriele D’Annunzio.

Lo stesso fenomeno di involuzione criptica del messaggio artistico si verificherà nelle arti figurative, passando dall’icastico realismo di ritrattisti e paesaggisti come Hayez, Signorini, Lega, alle risse in galleria di Boccioni, ai dinamismi cinofili di Balla e alle geometrie schizofreniche di Fortunato Depero. Per non parlare delle parole in libertà di Marinetti o delle fontane malate di Palazzeschi.

L’elitarismo culturale del primo novecento è comunque un fenomeno di rottura notoriamente e prevalentemente collocato a destra, la sinistra ne sarà contagiata soltanto dopo il contatto con il dadaismo e con l’espressionismo tedesco e russo. Il distacco definitivo dell’intellighenzia di matrice social-comunista da tutto ciò che, spregiativamente, sarà poi bollato con il derisorio epiteto di “nazional-popolare” (con la salutare eccezione delle feste dell’Unità, pantagruelica rivincita dell’unto e bisunto operaio e contadino sulle sofisticherie – mentali e gastronomiche – della borghesia radicaleggiante dei salotti romani e milanesi), si consumerà però definitivamente soltanto con il secondo dopoguerra: in fumose cantine si cominceranno a rappresentare drammaturghi (Jonesco, Beckett, Pinter, per citare i più noti) e opere totalmente inaccessibili alla casalinga di Voghera e al suo gentile consorte; nelle pittura e nella scultura, la furia sperimentalista approderà alle tele tagliate e alle merde d’artista mentre in letteratura quella iconoclasta dei giovani autori del Gruppo 63 manderà in soffitta il neorealismo dei Cassola, dei Pratolini e dei Bassani, tutti sardonicamente etichettati come Liale al maschile, per proporre tematiche e stili nuovi sì, ma talmente arditi (basti pensare ai romanzi senza trama di Alberto Arbasino) da risultare preclusivi per la stragrande maggioranza dei lettori. La musica da camera, infine, vedrà il trionfo della dodecafonia, una roba che avrebbe trasformato Mozart e Verdi in due assatanati emuli di Jack Torrance, il folle assassino di Shining.

Tutto questo ha alimentato negli anni il mito di una sinistra geneticamente refrattaria, nel mondo delle arti e della comunicazione, ad un apostolato del sapere che prescindesse da chiavi di lettura complesse del “lavoro culturale”(per dirla con Bianciardi), destinate alla fruizione di un pubblico in possesso di elevati livelli di istruzione. Un cerebralismo iniziatico ben rappresentato, più di recente, dai libri del compianto Umberto Eco e che ha condotto la sinistra, nel tempo, a chiudersi in una ridotta della Valtellina poco funzionale alla sua storica missione di garante dei diritti delle masse e di megafono politico dei loro bisogni. Il che ha determinato alla lunga anche una singolare inversione dei ruoli tra l’intellettualità di destra (liberale o populista), votata ad una capillare e intensa attività di divulgazione indirizzata ad una utenza quanto più ampia e variegata possibile, e quella di sinistra, pervicacemente legata ad un modello di trasmissione della conoscenza concepita unicamente come veicolo di idee e nozioni scambiate tra iscritti alla gilda degli edotti.

Non si vuol qui di certo far l’elogio della piattezza, dell’accademia, della faciloneria stilistica e di contenuti. Né, tanto meno, del vero e proprio “pattume” culturale o informativo da cui siamo quotidianamente inondati. Si vuole semplicemente ricordare ai cenacoli intellettuali dell’universo progressista che Totò e Tomas Milian – oggi due icone della critica cinematografica, settore da sempre vicino agli ambienti di sinistra – erano immensi anche quando venivano considerati poco più che guitti da taverna dagli stessi che ora li esaltano e che la canzone di Gabbani non merita certo che si scomodino personaggi come Kant, Shakespeare, Eraclito, Darwin, Karl Marx Desmond Morris o addirittura l’Oswald Spengler de il Tramonto dell’Occidente (ebbene sì, per quanto possa apparire grottesco, c’è stato qualcuno che li ha evocati tutti quanti), ma neppure di essere relegata tra i cloni di Vamos alla playa o del Ballo del qua qua.
Semplicità non sempre fa rima con stupidità, insomma. Senza contare che il Karma di Gabbani di certo lo ballano pure le scimmie chic, mentre il narcotico fado del vincitore del Contest di quest’anno viene ascoltato solo quando una cena importante rende arduo agli umani l’abbraccio con Morfeo.

 

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francesco61dgl2 01 giugno

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Hanna Arendt nel suo famoso saggio ci ha ricordato la banalità del male. Ariel Dorfman , nella sua piece teatrale (di cui Hollywood ha tratto una versione cinematografica) “La morte e la fanciulla”, ci ricorda invece che il male, oltre che banale, può essere anche qualcosa di terribilmente accidentale, un risvolto dell’animo umano che risale puntualmente alla superficie laddove le circostanze lo consentono, talvolta indipendentemente dall’indole dei singoli.
In un Paese appena uscito da una feroce dittatura militare (che si può intuitivamente identificare col Cile), un uomo,Gerardo, oppositore del passato regime, ha appena avuto l’incarico di presiedere una commissione d’inchiesta governativa sui crimini dei generali e dei loro complici. La moglie di Gerardo, Paulina, torturata e violentata ripetutamente vent’anni prima , porta ancora addosso i segni di quella terribile esperienza. I due alloggiano per le vacanze in una casa sul mare ed una sera Gerardo, rimasto in panne con la macchina, viene aiutato da un medico di passaggio, Roberto, che successivamente si presenta a casa sua e viene invitato a trattenersi per la notte. Paulina, non vista, riconosce nella voce del medico quella di uno dei suoi aguzzini. Durante gli interrogatori, infatti, era rimasta bendata per tutto il tempo e dei suoi torturatori può riconoscere soltanto la voce.
Inizia da qui, in un crescendo drammatico, una discesa dei tre personaggi  nell’inferno del dolore inferto e subito, con la donna che sequestra e lega il medico minacciandolo con una pistola e obbligando il marito riluttante a condividere la sua personalissima vendetta.
Ma non c’è appagamento per la vittima né espiazione per il suo persecutore. C’è solo una profonda ferita nel costato di un Paese e dei suoi cittadini che nessun castigo postumo potrà mai rimarginare. Paulina è certa di aver davanti il dottore che aveva attivamente e sadicamente partecipato alle sevizie ed è decisa a farlo confessare. Gerardo, che all’epoca evitò l’arresto proprio grazie al silenzio di Paulina, prova in tutti i modi a riportarla alla ragione, ma sconta, agli occhi della moglie, il peccato originale di non aver subito ciò che aveva dovuto subire lei.
Roberto, il medico, nega con tutte le sue forze di essere la persona che aveva infierito sul corpo di Paulina, ma poi, convinto a farlo da Gerando, rilascia una confessione troppo dettagliata  per essere falsa. Eppure il dubbio resta ed è bravissimo Dorfmann a confondere nel lettore i ruoli del colpevole e della sua vittima, rendendolo incerto sulle reali colpe dell’uno e sulle ferree convinzioni dell’altra.
Ma soprattutto è abile lo scrittore nel far emergere quel grumo nero di ferocia che alberga dormiente in ogni essere umano  e che rivede puntualmente la luce ogni qualvolta va in onda il sonno della ragione: Roberto nella confessione sostiene che egli inizialmente aveva offerto il proprio supporto professionale agli interrogatori proprio per tentare di alleviare le sofferenze degli arrestati. Poi, però,  l’assuefazione alla violenza l’aveva contagiato, facendogli provare l’ebbrezza di infierire impunemente su un essere umano indifeso.
Non si tratta di disumanità, sembra dirci l’autore,ma anzi del nucleo  primigenio dell’umanità, quello sepolto sotto una spessa coltre di secolari regole di adattamento e convivenza, che sortisce fuori in tutta la sua sconvolgente ferinità, spazzando via certezze e valori. La vocazione al male è dietro l’angolo, dunque, e nessuno può credersene  immune. Nei dialoghi affilati e rabbiosi dei protagonisti, nell’atmosfera buia  e claustrale di un luogo che pare ai confini del mondo ritorna così  l’irrisolto dilemma dell’uomo, la sua irrisolta e tragica solitudine di  essere vivente eternamente  in bilico tra le bestie e gli dei.
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