Dell'autonomia differenziata e di altre amenità

L’indignazione della sinistra italiana di fronte ai recenti colpi di mano istituzionali dell’attuale maggioranza parlamentare di centrodestra, messi in atto con l’approvazione delle leggi sul premierato e sull’autonomia differenziata, assomiglia tanto alla tardiva resipiscenza del marito voyeur indignato per aver saputo che la moglie è andata a letto col modello Armani da lui stesso presentatole.

Ci ha pensato infatti l’altro giorno Marco Rizzo, sulla Sette, a ricordare agli smemorati che il primo colpo di piccone alle fondamenta dell’Unità Nazionale lo diede proprio la sinistra, con la sciagurata riforma del titolo V della Costituzione, varata con la Legge 3 del 2001: un capolavoro di incoscienza politica figlia del pedestre tentativo di D’Alema e Rutelli di provare a frenare il secessionismo bossiano, al suo acme, all’epoca, nelle piazze del nord Italia e nelle aule parlamentari.

Sappiamo tutti che questa follia normativa non frenò affatto né l’irruenza sguaiata e ruspante del tribuno padano e neppure le istanze separatiste del suo partito, in seguito evaporate naturaliter insieme alle fortune elettorali del  leader maximo.

Ma se il secessionismo in salsa padana da allora è, pro bono  Patria e  decenza, lentamente e inesorabilmente scolorito sulla scena politica e sociale nazionale, fino a diventare una “ridotta della Valtellina” per pochi irriducibili nostalgici dell’Umberto da Magnago, non allo stesso modo è evaporato l’uzzolo di decentramento della Lega, ora in mano a Matteo Salvini.

Si sa, gli appetiti localistici sono una balena collodiana perennemente affamata che attraversa trasversalmente tutte le Regioni d’Italia e tutti i loro amministratori, di qualunque colore politico siano (ricordiamoci che “più autonomia” è stato un refrain anche di “governatori” come Bonaccini e De Luca, gli stessi che adesso scagliano strali infuocati contro la legge “pro Nord” del governo Meloni), con la differenza che quelli del meridione, di destra o di sinistra, attualmente contano quanto il due di coppe a briscola, poiché i voti della Lega in Parlamento sono stati decisivi per l’approvazione di quell’altro abominio istituzionale che è il Premierato, “schiforma” fortemente desiderata (lei sì) dalla Meloni e da FdI.

All’origine di questo inverecondo pastrocchio ordinamentale c’è in ogni caso una menda di fondo che risale agli anni settanta: l’istituzione delle Regioni, anch’ essa “perla” di imbecillità politica nata sulla sponda sinistra del panorama partitico nazionale. Infatti è antecedente noto ormai anche a chi di politica non si è mai occupato che furono i partiti progressisti, e soprattutto l’allora PCI, a premere su una refrattaria Democrazia Cristiana, a quel tempo dominatrice incontrastata, fin dal secondo dopoguerra, di tutte le tornate elettorali, affinché si istituisse finalmente l’Ente Regione, nel tentativo di bilanciare in qualche modo lo strapotere del partito di governo in forza della presenza di un serbatoio elettorale prevalentemente orientato a sinistra nel centro Italia e nelle aree industriali del Paese.

In quegli anni tutto questo tuttavia non provocò sconquassi, poiché fino al 2001 le neonate Regioni – fatta eccezione per quelle ad autonomia speciale, sorte nel 1948 – assomigliarono di certo a qualcosa di molto più simile a scatole vuote che a vere entità politico-amministrative, meri simulacri buoni però per assegnare cariche e prebende nonché palestre per allenare generazioni di esponenti di secondo piano dei partiti al balzo verso gli scranni nazionali.

Tutto ciò è cambiato radicalmente con l'obbrobriosa riforma del 2001. Da allora, le Regioni si sono viste destinatarie di pingui finanziamenti, oltre a poteri e funzioni che le hanno rese, di fatto, Stati nello Stato, sangiaccati e balivati assegnatari di prerogative che solo in alcuni casi sono state rettamente usate e finalizzate al pubblico servizio. Per non parlare della permeabilità di alcuni organismi regionali alle infiltrazioni della malavita organizzata o alle collusioni con la zona grigia del mondo industriale e finanziario.

Tuttavia, se corruzione e malvivenza in Italia hanno sempre prosperato anche tra le poltrone governative e nelle aule del Parlamento, ancor più grave, dopo il 2001, è stato affidare alle regioni le funzioni indicate nell’attuale articolo 117 della Costituzione, creando di fatto duplicazioni con le attribuzioni statali, appesantimenti burocratici, parcellizzazione dei poteri.

Ora, con un ulteriore ampliamento dell’autonomia pro domo Nord il governo Meloni ha aggravato lo stato di cose già pre-comatoso in cui versavano da tempo i territori meridionali del Paese, i cui organismi regionali probabilmente non potranno più assicurare, tra le altre cose, decorosi livelli di sanità e istruzione.

Ma il male, ripeto, sta all’origine: chi nella sinistra   ha assegnato a suo tempo alle regioni competenze in materie così delicate come la salute e la scuola pubblica, dovrebbe fare un pellegrinaggio penitenziale a Canossa, stracciarsi le vesti e chiedere che almeno questi due settori così importanti per la coesione nazionale vengano riportati nell’alveo delle competenze degli organi centrali.

La via del referendum, invocata dalla Segretaria del PD, appare infatti non immune da rischi: rischi di una grave spaccatura, nell’elettorato, tra nord e sud e rischi che il ricorso allo strumento referendario vada incontro ad uno dei tanti fallimenti che ha già conosciuto in ottanta anni di storia repubblicana.

In chiusura, si consenta infine all’estensore di queste note due osservazioni: chi scrive è sempre stato contrario alle autonomie in genere e a quelle regionali in primis, ad iniziare dalla sua Sicilia, tant’è che l’unica cosa che rimpiange del fascismo è il salto dalla sedia che facevano fare i Prefetti ai Sindaci quando li chiamavano al telefono…

L’Italia è rimasta frazionata per secoli e la regionalizzazione ha, casomai, aggravato il problema invece di risolverlo. Lo Stato federale va bene laddove c’è incistato da tempo immemore nei suoi abitanti il sentimento unitario della propria Nazione, al di là delle autonomie degli organismi locali.  In Italia non c’è, già a livello di comuni cittadini, questo senso di unitarietà, salvo quando gioca la nazionale di calcio o quando gareggiano nei vari sport gli atleti italiani. Troppo poco. L’accentuato localismo tipico delle nostre contrade, da nord a sud, non si cura certo con una medicina che può solo aggravare la malattia.

Secondariamente, ma non per cerchiobottismo, va anche detto che l’elettorato meridionale e la classe politica del sud dovrebbero però sottoporsi una volta per tutte ad una approfondita e spietata autoanalisi, vertente sul perché il primo li ha votati e sul come la seconda ha usato i suoi voti. E’ invalsa infatti al sud da troppi anni l’abitudine di votare non gli aspiranti amministratori che promettono di usare al meglio i consensi per perseguire il pubblico interesse ma coloro che possono soddisfare i desiderata personali dell’elettore e della sua cerchia amicale o familiare; desiderata che, manco a dirlo, spesso sono in insanabile conflitto con decoro e legalità (promesse di assunzioni clientelari, occhi chiusi su abusi ed illeciti dell’elettore etc). Ovvio che da questo sciagurato do ut des non possono venir fuori altro che pessimi politici e amministratori: uomini e donne corrotti e dissipatori del pubblico denaro, partoriti da un pessimo elettorato e che alimentano le voglie di autonomia  (finanziaria innanzitutto) di quelle realtà geografiche dove certi fenomeni di distorsione del rapporto elettori ed eletti, pur se presenti, non lo sono comunque nella misura in cui lo sono in altre realtà del Paese.