Libero

francesco61dgl2

  • Uomo
  • 64
  • Messina
Toro

Mi trovi anche qui

ultimo accesso: 20 ore fa

Profilo BACHECA 23

francesco61dgl2 29 maggio

L' ARCHIVIO DEGLI ARTICOLI

 

Agosto 2016

Un Paese sghembo

Città sghemba chiamò Agrigento lo scrittore Vitaliano Brancati (Lettere al Direttore, 1939) e mai definizione si attagliava meglio a quell’angolo di Magna Grecia mollemente sdraiato sul declivio di un colle della Sicilia sudoccidentale. Ma se la Girgenti di Brancati era sghemba per conformazione urbanistica, con strade bozzolute che in certi tratti parevano dorsi di mulo e palazzi che sfidavano le leggi della statica peggio della Torre di Pisa, l’Italia di oggi è sghemba per letale combinato-disposto di nolontà e destino.

Nolontà nel senso datole da Schopenhauer più che da Tommaso d’Aquino. Destino perché la geologia colloca notoriamente la nostra penisola tra i territori più fragili del Continente europeo. Ma se il destino, come ci hanno insegnato greci e latini, non si può contrastare, la nolontà rientra nel novero delle cose passibili di modifica, di svolta, di cambiamento. Purtroppo in Italia, Paese in cui una macedonia tragica di fatalismi, incompetenze, politica, burocrazia e corruzione impedisce da decenni di incidere in profondità nei suoi mali e nei suoi ritardi, la nolontà alla fine riesce sempre a riaffermare il suo predominio. E senza neppure sforzarsi troppo. Il che, fin quando la barca tricolore galleggia comunque, in fondo può anche essere fattore di riso e commedia, spunto per sapide e folcloristiche ricostruzioni del mos nazionale, materia di lavoro per comici e vignettisti.
Il problema emerge in tutta la sua drammatica virulenza quando si contano i morti. Quando si contano i morti, non si può più scherzare. Quando interi borghi vengono spazzati via nel giro di pochi secondi e si tramutano in sudario di dolore e pianto, finisce il cabaret. Quando lo spettatore rischia di confondere il paesaggio dell’alto Lazio con quello della Siria devastata dalla guerra civile, non è più tempo di dotte disquisizioni sul perché e percome. Quando un vigile del fuoco coperto di polvere tira fuori a mani nude una bambina da un inferno di calcinacci, vanno in soffitta articoli, convegni e dibattiti. Quando accade tutto questo, si dovrebbe solo agire e agire significa trovare le risorse e le intelligenze per cambiare il corso degli eventi una volta per tutte. Campa cavallo.
L’Italia intera è un autentico luna-park dell’arte e della cultura che altrove verrebbe presidiato giorno e notte dai reparti speciali dell’esercito peggio di Fort Knox. Noi da anni tolleriamo che crolli, ammuffisca o si sbricioli. Duemila secoli di Storia e civiltà ci hanno lasciato in eredità un museo a cielo aperto pieno di reperti di inestimabile valore che andrebbero preservati, curati, accuditi, controllati. Da tutti perché tutti – tutti gli italiani – dovrebbero essere gli ideali custodi di questo museo. La più insignificante chiesa di campagna di una qualsiasi regione italiana nasconde quasi sempre, al suo interno, un capolavoro: un affresco, una statua, un coro ligneo, un antico organo, una pala d’altare. La più insignificante frazione tra i mille e più campanili che ornano la Penisola ha spesso una peculiarità che la rende unica o comunque attraente: l’amenità del paesaggio, lo stile caratteristico delle abitazioni ecc. Al netto delle chiacchiere da bar o da social network, la politica e la stragrande maggioranza della popolazione italiana sono perfettamente adiafore a tutto questo. Se non lo fossero, se avessimo un minimo di sensibilità (non dico amore, parola sempre troppo impegnativa) verso la Bellezza che ci circonda, se il nostro neurone del senso estetico non fosse affetto da inguaribile narcolessia, non avremmo bisogno di ascoltare in tv geologi che ci spiegano per l’ennesima volta, dopo ogni disastro, l’impossibilità di preservare i nostri beni paesaggistici e culturali (e le nostre stesse vite) continuando a stendere coltri di cemento dappertutto, giorno dopo giorno e anno dopo anno, salvo poi piangere le cose e le esistenze travolte dall’esondazione di fiumi soffocati dal calcestruzzo, da colline che franano per il disboscamento selvaggio, da manufatti abusivi tirati su senza alcun rispetto delle norme, della sicurezza e della stessa decenza.
Il terremoto, lo sappiamo bene e lo ripetono fino alla noia gli esperti, c’entra poco con tutto ciò: il movimento delle placche avviene a profondità tali che quel che l’uomo fa e disfa in superficie gli è totalmente indifferente. E’ la componente “destino” di quel tandem malefico cui abbiamo fatto cenno all’inizio. Su questa componente possiamo influire poco o nulla, almeno per quanto riguarda gli edifici più antichi. Possiamo influire e dobbiamo influire, però, sulle nuove costruzioni, che talvolta crollano inspiegabilmente prima e meglio delle case in pietra dell’ottocento, malgrado sulla carta risultino fabbricate con tutti i crismi imposti oggi dalle leggi e dalla moderna scienza delle costruzioni.

Lì non c’è destino che tenga, lì il Paese si mostra nudo e sghembo al mondo per le precise responsabilità di qualcuno che doveva fare e non ha fatto oppure che ha fatto male, per indolenza, incapacità o furfanteria. Lì, non si scappa, è nolontà o banditismo. O entrambe le cose.

Ti piace?
francesco61dgl2 12 ore fa

L' ARCHIVIO DELLE RECENSIONI

Anni fa, insieme ai blog dedicati ai miei articoli di politica e costume, avevo aperto un blog di recensioni letterarie. Per me, accanito lettore fin dai calzoni corti (siamo onesti: avere un padre bibliofilo vuol dire trascorrere una infanzia di m.J), “giudicarli”, anche se in veste puramente amatoriale, è stata una esperienza nuova ma molto stimolante. Deposta ormai da tempo la “penna” del critico trepalleunsoldo, intendo però  riproporre saltuariamente i contenuti di quel blog in questo spazio telematico, iniziando con la recensione del romanzo di un autore scozzese non molto noto in Italia.

 

Ci sono scrittori e scrittori. Verità lapalissiana. Lo sappiamo fin dalle prime letture scolastiche. Le antologie sono piene di sberleffi o commozioni dei giovanissimi che le hanno sfogliate, amate o maledette.  Le tassonomie in cui un entomologo della letteratura può classificare i particolarissimi insetti oggetto dei suoi studi sono infinite. Si può distinguere uno scrittore innanzitutto in base al suo periodare: asciutto o ridondante, chiaro o ampolloso, semplice o ricercato. Non sono categorie di qualità ma semplici carte d’identità di un autore: si può essere grandi nella concisione così come nell’indulgenza ai barocchismi . Dipende da ciò che si dice, oltre che dal modo con cui si dice. Dal “messaggio” insomma, come direbbe un nostalgico della critica marxiana. Un libro, inoltre, può essere morbido come un piumino d’oca o  tagliente come una scimitarra, ciò che conta è la pertinenza dello stile al contenuto e al contesto della narrazione.  Nessuno si aspetta da un Caldwell i pannicelli caldi come nessuno si attende da Eco una descrizione piatta e incolore di oggetti e personaggi. 
Tra l’altro,  lo scintillio fine a se stesso di verbi e aggettivi e le contorsioni lessicali ce le aspettiamo dai narratori più complessi, meno decifrabili, quelli dell’immaginifico letterario e della scrittura “pensante”. Da chi, invece, vuole solo tenerci seduti in poltrona con una storia, pretendiamo  stilemi più comprensibili e un canovaccio interessante. A dispetto dei puristi, si dovrebbe finalmente prendere atto che la narrativa non è una species del genus letteratura: Sciascia era letteratura, Vitali è narrativa. La  linea di confine tra il gioco con le parole, la scrittura filosofica (o psicoanalitica) e la fabula vera e propria è infatti un limes che solo pochi autori riescono a oltrepassare senza pagare dazio. Uno di questi è stato certamente Italo Calvino. Ma la contaminazione tra queste diverse opzioni resta  operazione niente affatto semplicissima e spesso accade che inevitabilmente una delle tre prevalga sulle altre.

C’è però anche un’altra summa divisio che spesso viene trascurata, ritenendola appannaggio esclusivo delle arti figurative o del cinema: la distinzione tra letteratura d’atmosfera e letteratura di trama. Ci sono scrittori che possono anche non raggiungere vette eccelse per lo spessore culturale della loro produzione , ma che sono ugualmente maestri nel trasportare il lettore in un particolare clima, in una particolare dimensione spaziale o temporale. Accade soprattutto con gli autori di romanzi storici ma non solo. Alexander Mc Call Smith, scrittore americano di origini scozzesi e stimato giurista , è un esempio insuperabile di come si possa proiettare il lettore nel cuore di un mondo lontano anni luce dal proprio, fatto di pudori anglosassoni, di gesti misurati, di dialoghi pieni di non detti, di cieli plumbei, di vecchie strade acciottolate, di muri di pietra e giardini ben curati.  Smith ambienta le sue storie tra la buona società scozzese, pregna di intellettuali benestanti che trascorrono oziose giornate  visitando gallerie d’arte o bevendo   the nei locali caratteristici della vecchia Edimburgo. Uomini e donne che sembrano muoversi dentro una surreale bolla di cocktail, concerti e solidità economica, lontani dalla cruda realtà di una società, quella britannica, dove dietro la patina di perbenismo e buone maniere si agita un proletariato sempre più povero, emarginato e disperato. Eppure i personaggi di Smith, malgrado il loro innegabile snobismo aristocratico e un po’ demodé, risultano per niente fastidiosi : merito certamente dello scrittore,  che sa tracciare, dietro le apparenze di vite quiete e quiete docenze universitarie, percorsi umani decisamente meno riparati , recessi bui dell’anima che vengono appena sfiorati, come pozzi neri e profondi dietro le proprie spalle che solo saltuariamente, e per un breve istante, ci si volta a guardare, per poi tornare subito dopo alle certezze appaganti e un po’ ipocrite di una privilegiata quotidianità.

Ma in Smith è soprattutto lo sfondo a far da protagonista, quella Scozia solida, pragmatica e parsimoniosa dove la ricchezza non è vergogna ma neppure fasto pacchiano da ostentare, una terra sospesa nel tempo fra gli orgogli del passato e la lenta, dignitosa decadenza del presente che non rinunzia ai propri riti e alle proprie civettuole reticenze. Un universo parallelo che pare guardare con ironico e placido distacco  a tutto ciò che si agita al di fuori di esso, ma con un presentimento di tempesta sempre incombente, uno tsunami annunciato che si spera possa risparmiare, quando e se arriverà, almeno l’illusione della propria contegnosa diversità.

 
Gennaio 2013

 

Ti piace?
francesco61dgl2 23 maggio

Lavorare stanca è il titolo di una famosa raccolta di poesie di Cesare Pavese. Ma siccome scrivere non è meno stancante quando la carta d'identità ti ricorda che di m...te d'inchiostro negli anni ne hai già sfornate parecchie, da oggi inauguro la rubrica l'Archivio, pubblicando vecchi pezzi scelti però tra quelli che possono ancora avere un loro valenza nella realtà contemporanea.

 

Novembre 2016

Un eroe italiano

Nel Paese che dedica piazze e statue agli Enrico Toti e ai Pietro Micca, che esibisce come modelli di italianità operosa e vincente manager rampanti, chef alla moda, astronauti, scienziati, calciatori, cantanti lirici, ballerini e militari in missione all’estero, voglio modestamente proporre all’attenzione delle autorità preposte alla concessione delle onorificenze della Repubblica un uomo che – probabilmente – non ha mai messo piede su una astronave, che il militare l’avrà fatto tutto a Cuneo servendo sanbitter allo spaccio, che canta solo sotto la doccia e pure male, che il massimo dell’arte tersicorea per lui è ballare un liscio con la moglie al dopolavoro e che ha problemi pure a friggersi due uova. Quest’uomo “senza qualità” eppur mille volte più eroe di quelli che solitamente amiamo fregiare di questo appellativo si chiama Tindaro Sauta, ha 53 anni e quattro figli e di mestiere fa l’operaio dell’Anas in quel di Lecco. Un cantoniere, insomma. Un semplice cantoniere che avrebbe potuto evitare una tragedia se qualcuno più in alto di lui, qualcuno pagato molto meglio di lui e molto più potente di lui, gli avesse dato ascolto e avesse chiuso quel maledetto tratto della strada statale 36 del lago di Como e dello Spluga ,km 41,900, dove venerdì 28 ottobre è crollato un cavalcavia che ha schiacciato la macchina e la vita di un professore in pensione.
Nessuno, insomma, ha voluto dar retta all’allarme lanciato da Tindaro Sauta. Che volete che sia l’allarme di un operaio, cosa ne capisce l’operaio di crolli e strade da chiudere. Faccia l’operaio Tindaro Sauta, avranno pensato i soloni soprastanti, il mandarinato amministrativo preposto alle decisioni supreme, la sala dei bottoni insomma. Per chiudere una strada ci vuole la ricognizione di un tecnico che si rechi sul posto e accerti ictu oculi la necessità o meno di interdirla al traffico. Che diamine, sono le procedure di rito e l’ortodossia procedurale è sacra. Chiuderla preventivamente basandosi solo sulla segnalazione di Tindaro Sauta? Incosciente apostasia, perniciosa eresia, devianza eversiva dal Canone del perfetto burocrate, dal Verbo infallibile della circolare, dai Rescritti presidenziali e dalle Bolle dirigenziali. Taccia, dunque, Tindaro Sauta e attenda i responsi degli oracoli spediti dalla Provincia di Lecco, unica Entità dotata di poteri di vita e di morte (è proprio il caso di dirlo) sul tratto di strada che un Tindaro Sauta qualunque pretende di chiudere.

Peccato che i dignitari spediti dalla Provincia non siano arrivati in tempo ad evitare il collasso del cavalcavia e il decesso di un automobilista che in quel momento ci stava passando sotto. Pura fatalità, si saran detti, ma la Regola non si mette in discussione. E’ capitato, che volete farci. Ebbene sì, Tindaro Sauta aveva ragione, ma se dovessimo dar retta ogni volta all’ultimo dei cantonieri…

Invece i Tindaro Sauta andrebbero consultati più spesso in questo Paese. Sogno un mondo in cui insieme a quella del questore, del manager o del dirigente generale ogni tanto si ascolti anche l’opinione dell’agente, della commessa, dell’operaio, del manovale, del fattorino, dell’impiegato. Perché sono questi ultimi che portano avanti, a fatica, la baracca, pubblica o privata che sia, spesso con sapienze e competenze pari o superiori a quelle degli alti papaveri dal conto corrente pieno di zeri.
Paghiamo lo scotto di una pessima filosofia gestionale in auge dai primi anni novanta che ha voluto concentrare attenzioni e prebende sull’attico del condominio invece che sulle sue fondamenta. Da qui l’aumento sconsiderato degli emolumenti alla dirigenza pubblica e privata che ha allargato in modo scandaloso la forbice retributiva tra il vertice e la base. Tutto ciò senza minimamente provare a guardare la “realtà effettuale”, per dirla con messer Nicolò. Una realtà effettuale che vede ogni giorno quadri aziendali o ministeriali supplire alle carenze e alle ignavie di superiori boriosi e strapagati, giudici e procuratori onorari padroneggiare i codici di procedura meglio di tanti magistrati di carriera, tute blu, infermieri e commessi di negozio capaci risolvere rapidamente e validamente problemi anche di non indifferente complessità.

Per costoro niente telecamere, interviste, pubbliche laudi, compensi opulenti. A costoro lo Stato italiano ha riservato invece, a titolo premiale, il blocco ormai quasi decennale dei contratti del settore pubblico o i rachitici aumenti di stipendio di quello privato, la truffa dei voucher e una riforma del mercato del lavoro (il famigerato job act) che forse persino nell’Inghilterra di Dickens avrebbe sollevato qualche sopracciglio.

Ecco perché, sig. Presidente Mattarella, Le chiedo di conferire, a nome di tutti i Tindaro Sauta d’Italia, un solenne riconoscimento al piccolo grande uomo di Lecco. Sarebbe un premio alla silente perizia degli ultimi e un simbolico schiaffo alla stoltezza spaziale dei sommi sacerdoti della Dea Delibera.

 

Ti piace?
francesco61dgl2 17 maggio

CITTADINANZA:VOTERO' SI 

MA  FORSE SERVIRA' A POCO

 

L’otto e il nove giugno di quest’anno, tra i cinque quesiti referendari sui quali sarà chiamato a pronunciarsi l’elettorato italiano, il più importante viene comunemente ritenuto, insieme a quello sul cd. Job Act, il quesito che si propone di abbassare da 10 a 5 anni di residenza ininterrotta nel nostro Paese l’età per ottenere la cittadinanza tricolore.

Chi scrive voterà sì all’abrogazione della norma “incriminata”, ossia l’art. 9, comma primo, lettera f, della Legge 5 febbraio 1992 n. 91, ma ben consapevole, contrariamente a quel che fan credere agli utenti tanti commentatori e uomini politici, che le strade che consentono ad un cittadino straniero di diventare un nostro connazionale resteranno comunque lunghe e piene di ostacoli.

Innanzi tutto va ricordato che in Italia la cittadinanza, quale che sia la via intrapresa per ottenerla, viene concessa con D.P.R., sentito il parere del Consiglio di Stato su proposta del Ministero dell’Interno, a seguito di una istanza presentata dagli interessati alla Prefettura competente per territorio.

Nel caso di cittadinanza per residenza, come già accennato i presupposti richiesti dal nostro legislatore per ottenere il beneficio in questione, a parte la durata decennale della residenza, sono diversi e li riassumo qui brevemente per chiarire meglio il complessivo quadro normativo della materia.

Oltre ai 10 anni di residenza legale continuativa in Italia (periodo ridotto a 4 anni per coloro che hanno origini familiari italiane, per i coniugati con cittadini italiani e per i cittadini appartenenti a Paesi U.E.), allo straniero che vuole ottenere la cittadinanza italiana si richiede:

1. di essere maggiorenne;

1.di aver superato un esame di italiano che attesti la buona conoscenza della lingua e di possedere un livello ottimale di conoscenza della cultura, delle tradizioni e delle istituzioni italiane;

2. di aver dimostrato conoscenza e rispetto per la Costituzione e i suoi principi fondamentali, le leggi e i valori democratici del nostro Paese;

3. di essere integrato socialmente nella comunità locale di residenza;

4. di essere in possesso di un reddito sufficiente per mantenere sé stessi e i propri familiari (8.263,31 per il singolo richiedente; 11.362,05 con coniuge a carico e aumento di € 516,46 per ogni familiare o figlio a carico). Si prescinde tuttavia dalla sussistenza di tale requisito in caso di matrimonio dello straniero con cittadino italiano; in caso di straniero avente ascendenti italiani; in eccezionali ipotesi di dimostrato bisogno, valutate caso per caso, nonché per l’apolide o il rifugiato stabiliti in Italia da 5 anni. I parametri sono fissati dal Ministero dell’Interno e da quello del Lavoro e delle Politiche sociali;

5.di non avere a carico condanne  o procedimenti penali in corso, in Italia o all’estero e neppure contenziosi pendenti col fisco o con la P.A. in genere.

Nel caso di cittadinanza richiesta per matrimonio con cittadino/a italiano/a, oltre agli altri requisiti, la norma richiede che esso deve essere valido per la legge italiana e regolarmente registrato nonché contratto e durato almeno 2 anni prima della domanda di cittadinanza da un richiedente che, in tale periodo, abbia risieduto legalmente in Italia, mentre l’eventuale coniuge straniero deve, a sua volta, essere immune da condanne o precedenti penali in corso, in Italia o all’estero.

Infine, diventa automaticamente cittadino italiano chi nasce da un genitore italiano (c.d. ius sanguinis) e chi viene adottato da genitori italiani; chi nasce da genitori stranieri, abbia compiuto 18 anni e risieduto stabilmente in Italia per almeno 5 anni (c.d. ius soli); lo straniero che abbia prestato servizio per 5 anni per lo Stato italiano.

La documentazione da presentare alla Prefettura, nei casi diversi dall'acquisto automatico del beneficio, è la seguente:

1.certificazione della conoscenza della lingua italiana livello b1 del QCER oppure certificazione di un titolo di studio riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione e degli Affari Esteri;

2.permesso di soggiorno o carta di soggiorno lungo soggiornante UE in corso di validità;

3.passaporto internazionale in corso di validità;

4.dichiarazione di non aver commesso reati in Italia o all'estero e di non aver in corso procedimenti penali o condanne in attesa di convalida ;

5.dichiarazione di non avere debiti fiscali pendenti o sanzioni pecuniarie penali (multe), civili (es. per risarcimento danni o per la commissione di illeciti civili, ai sensi del D.Lgs. 7/2016) o amministrative (ammende o infrazioni ex L.689/81)  non onorate;

In presenza di tutti i necessari requisiti, a seconda della tipologia di cittadinanza richiesta, dopo gli accertamenti svolti dalla Prefettura e dall’Agenzia delle Entrate, il Ministero dell’Interno, in caso di esito positivo dell’istruttoria, consegnerà all’interessato o interessata un codice identificativo (K10) della propria domanda, convocandoli entro 4 anni per il giuramento di fedeltà alla Repubblica, a cui seguirà la proposta del Ministro dell’Interno, sentito il Consiglio di Stato, al Presidente della Repubblica.

Quelli appena descritti sono i presupposti e l’iter della “grammatica” giuridica prevista dal legislatore nazionale per le varie ipotesi d’acquisto, con esito favorevole per i richiedenti, della nostra cittadinanza.

In carenza però di uno qualsiasi dei predetti titoli o situazioni personali o familiari, il Ministro dell’Interno emette un apposito decreto ministeriale di rigetto dell’istanza.

A questo punto l’aspirante alla cittadinanza può avviare la fase contenziosa presso gli organi di giustizia amministrativa, inoltrando un ricorso straordinario al Capo dello Stato oppure un ricorso amministrativo presso il T.A.R. di Roma, a cui può seguire  il relativo appello al Consiglio di Stato.

Ma quella appena riportata è solo la descrizione dell’attuale apparato normativo nazionale in materia di cittadinanza (L. 5 febbraio 1992 n.91, D.P.R.12 ottobre 1993 n. 572, D.P.R. 18 aprile 1994, n. 362, D.L. 4 ottobre 2018, n.113 convertito in L. n. 132/2018, D.L. 21 ottobre 2020, n.130 convertito in L. n. 173/2020), un impianto legislativo e regolamentare  che, come abbiamo visto, enuncia una casistica ben definita di condizioni personali e familiari prodromiche alle diverse tipologie di istanze di concessione della cittadinanza italiana. 

Lo scenario tuttavia muta e diventa ben più complesso di quanto già non sia quando il rapporto tra l’aspirante nostro concittadino e lo Stato italiano imbocca la strada del conflitto, del contenzioso giuridico. Qui la casistica delle ipotesi in cui gli organi di giustizia amministrativa hanno ritenuto e continuano a ritenere legittimi i provvedimenti di rigetto della cittadinanza da parte della P.A., con conseguente respingimento dei ricorsi presentati dagli interessati, è molto più numerosa di quella di accoglimento e in base a motivazioni, giustificate dalla natura discrezionale di alcune tipologie del provvedimento concessivo, talvolta parecchio somiglianti, invece, a quelle (giustamente) “prudenziali” solitamente invocate per negare il rilascio o il rinnovo delle autorizzazioni in materia di porto e detenzione d’armi.

Sarebbe sufficiente un breve excursus delle pronunce più recenti emesse già nel corso di quest’anno da parte del T.A.R. Roma e del Consiglio di Stato per renderne conto al lettore, ma glielo evitiamo, limitandoci a ribadire come anche l’abbassamento del numero di anni necessari per la richiesta di cittadinanza per residenza, nella realtà poco potrebbe incidere sugli esiti positivi di larga parte delle future domande di accoglimento.

Ti piace?
francesco61dgl2 08 maggio

Lo strano caso delle Due Sicilie

"Sai tu l'isola bella a le cui rive manda Jonio i fragranti ultimi baci..." G. Carducci

 

Ho visitato di recente il bellissimo abitato siciliano di Piana degli Albanesi, chiamato così perché alla fine del quindicesimo secolo il suo territorio offrì rifugio, insieme ad alcuni comuni calabresi, agli albanesi in fuga dai soldati ottomani del sultano Murad II contro i quali, guidati dal condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg, avevano ingaggiato una eroica quanto inutile resistenza. 

La mia breve visita a Piana ha confermato ciò che purtroppo penso da anni sui mali della mia Sicilia e dei siciliani e sulle soluzioni da adottare per porvi rimedio.

Piana degli Albanesi è un borgo pulito, ordinato, posto al centro di un territorio dominato da boschi incantevoli e paesaggi mozzafiato nonché per nulla caotico, malgrado il notevole numero di visitatori che vi transitano attratti dalla splendida basilica di rito greco-cattolico di San Demetrio e dal suo famoso lago.

L’incanto tuttavia svanisce quando si attraversa la strada del ritorno e ci si avvicina a Palermo: cassonetti strapieni nelle frazioni ubicate alle porte del capoluogo, immondizia gettata ai bordi della strada e altre delizie del genere umano che risparmio al lettore.

Le due Sicilie, insomma.

La prima, quella d’altura, linda, bella, educata e poco conosciuta.

La seconda, quella di mare, celebrata e nota a tutti e da sempre meta di intensi flussi turistici ma da sempre anche straripante di problemi.

La prima contraddistinta, in genere, da un’attenzione per la tutela ed il recupero dei centri storici, la lotta all’abusivismo edilizio, la cura del decoro urbano e i severi controlli sul rispetto delle regole da parte dei cittadini.

La seconda assediata solitamente da una viabilità caotica e spesso ingestibile, da una bulimia edificatoria che solo negli ultimi anni ha subito una salutare frenata, da gravi carenze nella gestione dei servizi urbani, in primis quello idrico e quello di raccolta dei rifiuti, da diffuse maleducazioni civiche e fenomeni di criminalità predatoria.

Paradigmatica di questa seconda tipologia di realtà abitative isolane, a parte ovviamente i due maggiori capoluoghi di provincia, è Bagheria, la Baaria fenicia, la città di Marianna Ucria, il buen retiro della nobiltà palermitana del XVIII secolo che vi edificò meravigliose dimore gentilizie oggi letteralmente “incarcerate” da raccapriccianti porcherie edilizie (un esempio su tutti: Villa Palagonia, detta “la villa dei mostri” per i famosi e bizzarri elementi decorativi dei suoi spazi interni). Ho citato Bagheria, ma avrei potuto citare altri grossi centri costieri o di pianura come Gela o Vittoria: le problematiche sono identiche o quasi (se non peggiori...).

Perché queste differenze di ordine e decenza tra borghi d’altura e borghi marittimi?

Premesso che esistono in Sicilia anche centri rivieraschi o di pianura che nulla hanno da invidiare a quelli d’altura e viceversa, le differenze per tutti gli altri si chiamano: un parco nazionale (il Parco dell’Etna), 4 parchi regionali e 75 riserve naturali.

Nelle aree vigilate in Sicilia dai parchi e dalla riserve, compresi i centri abitati che vi ricadono, esistono infatti regole rigidissime e controlli severi sul rispetto delle norme poste a tutela dell’habitat umano e ambientale; nelle altre parti del territorio regionale, ove gli stessi obblighi di vigilanza e repressione spettano ai comuni o ad altri organismi, non sarà raro invece riscontrare gravi inefficienze, negligenze od omissioni.

La morale di tutto questo è una conferma che la Sicilia, come intitolò Leonardo Sciascia un suo celebre saggio, è metafora del mondo, una replica in “formato tascabile” di tutto l’ottimo e di tutto il pessimo del pianeta. 

Detta in parole povere, c’è la Sicilia da pollice alzato e quella da pollice verso,  quella dell' hombre vertical, più inflessibile di un piemontese e indisponibile a qualsiasi compromesso su leggi e precetti del vivere civile, e quella dell' hombre horizontal,  del  bardo del “chi mi ni futti” (cosa mi interessa…), del siciliano con la casa più pulita di un ospedale svizzero ma con l’immondizia puntualmente abbandonata al primo angolo di strada a disposizione.

E’ quest’ultima progenie di siciliano la categoria sociale dominante nella Trinacria cd. “zerbinista”, ossia preda di una concezione bacata della res publica secondo la quale lo Stato finisce dopo il tappeto d’ingresso della propria abitazione e ciò che accade oltre non è faccenda che interessi e coinvolga il proprietario e i suoi familiari.

Questa concezione "malata" della cosa pubblica è figlia della Storia: il lungo dominio spagnolo è stato un potere che - fatta eccezione per l’esazione delle gabelle e per l’ordine pubblico - se n’è fregato bellamente del controllo e della gestione del territorio, abbandonandolo così alla mercé di nobilastri d’ogni genere (credo non ci sia zona  d’Italia che possa vantare più conti, baroni, duchi, marchesi e principi della Sicilia: ogni nuova dominazione ne nominava a iosa tra i favoriti del conquistatore di turno), i quali a loro volta sorvegliavano, vessavano e taglieggiavano i contadini schiavizzati dei loro immensi latifondi attraverso i tanti  tagliagole a  libro paga (gli antenati dei mafiosi odierni). I Borbone (peraltro anch’essi d’origine iberica) non hanno cambiato una virgola di questo modo di governare mentre i loro successori Savoia hanno preferito non entrare in conflitto con quei maggiorenti   locali - in genere di estrazione altoborghese ma reazionari, avidi e rapaci anche più degli aristocratici che avevano scalzato dal vertice della piramide economica - i quali, passata la paura di esiziali sovvertimenti sociali generata dallo sbarco dei Mille, tanto si erano spesi per un ingresso indolore della Sicilia nel nascente Regno d’Italia.

Il risultato è stato che, mentre i sudditi del Piemonte sabaudo, della Repubblica di Venezia, del Ducato di Toscana e persino del Papa Re hanno avuto governanti e civil servants degni di questo nome, il Meridione e la Sicilia hanno avuto solo una lunga teoria di cacicchi e balivi, ognuno dei quali padrone assoluto o quasi a casa propria, con i riflessi che si possono immaginare sul mos maiorum dei meridionali e dei siciliani in particolare, in virtù della loro insularità: individualismo esasperato e indifferenza verso tutto ciò che esula dalla sfera personale, familiare o amicale.

Invertire questa rotta, in quella parte della popolazione siciliana tuttora adiaforica verso i valori dell’“accudimento” e della tutela di ciò che appartiene all’intera comunità, non è affatto facile e forse solo un lungo e serrato impegno in tal senso da parte delle pubbliche istituzioni  potrebbe coltivare, nel lungo periodo, una qualche speranza di successo. Tuttavia provarci è un dovere, prima ancora che una necessità: la terra di Gorgia ed Empedocle, Archimede, Antonello da Messina, Juvarra, Bellini, Verga, Pirandello, Brancati, Sciascia, Quasimodo, Vittorini e Majorana, non merita di rischiar di lasciare, negli occhi di un turista che riattraversa lo Stretto, in mezzo alla tanta bellezza anche l’immagine di un imbecille che getta il proprio pattume da una macchina in corsa.

 

P.S. Ad onor del vero, però, che siano vertical o horizontal, la maggior parte dei siciliani tre pregi  li ha sempre avuti e continua ad averli: la generosità, l'ospitatilità e la pietas, la sincera e partecipata empatia verso il dolore e la sofferenza altrui. Non è poco, nell'attuale temperie che sta attraversando l'umanità...

Ti piace?
francesco61dgl2 più di un mese fa

Miss Europa e le allegre comari  di Piazza del Popolo

 

Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M., se non esse stesse ‘correnti di pensiero’? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta...

Piero Calamandrei, giurista, avvocato e deputato socialista, 1957

 

Per la premier l’Europa di Ventotene non è la sua Europa. E bon, ce ne faremo una ragione. Non vedo il motivo di rovinarsi l’ugola, come stanno facendo da un paio di giorni i parlamentari dell’opposizione, per frasi dal sen fuggite tese solo a ribadire che lei con certi passi del Manifesto, tra  cui ad esempio quello nel quale si invoca una rivoluzione socialista in Europa, non ha niente da spartire. 

Sai la novità: è di destra, è cresciuta nell’MSI di Almirante, nel corso del tempo ha provato, seppur tra balbettamenti, silenzi, distinguo e acrobazie verbali, a riciclarsi come democratica e antifascista ma, gratta gratta, la “punzonatura” è quella. Come si può pretendere che le piaccia la”rivoluzione socialista”? “Chi nasce rotondo non muore quadrato” si dice dalle mie parti e questo può valere per la stragrande maggioranza dei politici, ma non solo: provate a far dire ad un comunista trinariciuto della “vecchia guardia”, ma che da anni ormai in pubblico fa professione di sincera socialdemocrazia, che il regime sovietico è stato solo il dominio di una oligarchia burocratico-militare ottusa e feroce e vi arriverà, rompendo il muro del suono, una sfanculata  megalattica.

Tutto ciò però i politici italiani del centro-sinistra lo sanno bene e se strepitano ad ogni peto silente e inodore dei loro colleghi della maggioranza è perché oggi la politica, qualunque sia la maglia che indossi, non si fa con gli argomenti, si fa con gli schiamazzi fini a se stessi. A parti invertite non cambierebbe nulla, ma questo è un fattore, figlio della dialettica parlamentare trepalleunsoldo in auge in Italia da oltre un trentennio, che se per l’elettorato italiano di destra o per i simpatizzanti della sinistra cd. “antagonista” ha ben poca importanza, abituati entrambi come sono   – dopo Mussolini e Berlusconi l’uno e dopo gli anni settanta gli altri – a vivere la politica per slogan urlati, frasi fatte e semplificazioni da asilo mariuccia, per la sinistra  riformista  rappresenta invece il preoccupante termometro di una involuzione e di uno scadimento profondi del suo linguaggio e della sua azione.

Ora, sulla seconda forse c’è ormai ben poco da fare, visto che i precedenti nove - dicasi nove - governi di centro-sinistra che abbiamo avuto dalla fine degli anni novanta ad oggi, si sono distinti, ad onta del nome, più per le politiche liberiste e i tagli alla spesa sociale che per altro,  rompendo così, forse in maniera irreversibile, il cordone ombelicale con il loro elettorato di riferimento (la cartina al tornasole di quanto sopra è oggi un partito post-fascista al 30%), ma sul linguaggio ci sarebbe ancora tempo per recuperare una parte del predetto cordone ripristinando una tradizione fatta di politici pacati ma fermi, opimi di cultura e competenza,  intransigenti nella difesa dei loro valori  ma  che di rado,  e quasi sempre a ragion veduta e per il tempo strettamente necessario, alzavano il volume delle corde vocali.

Perché poi il problema non è solo “estetico” ma anche di “comprensione del testo”, oserei dire: le parole, si sa, “sono pietre” ma quando vengono scagliate alla pene di cane rischiano di confondere e smarrire coloro che le ascoltano, inducendo ad esempio “er glorioso popolo democratico e desinistra” ad organizzare una manifestazione oceanica a favore della UE, con balli, canti, sventolio di bandiere, discorsi appassionati dal palco, sfilata di esponenti della politica ,dello spettacolo e della migliore intellighentia progressista nonché di tutto il caravanserraglio che solitamente transuma per le strade in queste circostanze.

Tutto molto bello, molto emozionante, coinvolgente e commovente.

Ma fuori luogo.

L’Europa attaccata dalla Meloni, se dobbiamo attenerci strettamente alle sue parole, è solo quella di due dei tre “genitori” del Manifesto di Ventotene, ossia di Altiero Spinelli, comunista, e di Eugenio Colorni, socialista ( l’ultimo della “sacra triade”, ossia Ernesto Rossi, era liberale). Quella, cioè, che sognava la già citata “rivoluzione socialista” e l’avvento di un regime molto simile a quello sovietico: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”; “…la proprietà privata dovrà essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”; “…attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato”.

Niente a che vedere , quindi, con la UE turboliberista, e ora pure turbomilitarista, nata a Maastricht dopo la Caduta del Muro: vestale del Dio Mercato, consorteria gaudiosa di alta finanza, politica corriva e imprenditoria di rapina, affamatrice dei popoli dell’ovest, sfruttatrice di quelli dell’est e Moloch famelico molto poco democratico, con un Parlamento buono solo  a foraggiare lautamente i suoi membri  -  ma che in pratica conta nulla o quasi -   ed una Commissione, vera tolda di  comando della baracca, che nessuno può sfiduciare e che  i soldi che non vuole spendere o far spendere in welfare e servizi,  miracolosamente li trova per fabbricare missili, bombe, aerei da combattimento e carri armati.

E’ per questa UE che è sceso in strada a Roma “er glorioso popolo”? Per metà sì e per metà no. L’altra metà, che “er glorioso popolo” lo schifa (diciamo le cose come stanno), era composta da politici e simpatizzanti di quegli stessi partiti di centro consguardoadestra (ogni riferimento a Renzi o  a PiùEuropa è puramente casuale…) che attualmente stanno all’opposizione e i cui membri preferirebbero soffrire di dissenteria per sei mesi di seguito piuttosto che veder salire al potere, in Italia e in Europa, movimenti politici autenticamente di sinistra, portatori ed esecutori di programmi autenticamente di sinistra.

E dunque? Non avevano capito bene contro chi, con chi e per cosa si doveva manifestare? Ci sono stati errori di comunicazione, come nella sciagurata carica della cavalleria britannica a Balaklava? No, semplicemente c’è stato un fraintendimento: alla Meloni non piace l’Europa di Spinelli ma quella di Orban siamo certi che le piace da morire, invece partiti ed elettori del PD e “isole  comprese”, a partire dal promotore Serra, hanno capito che lei era “contro la (Dea) Europa” tout court. E così la frittata è stata servita.  Anzi, come scrive oggi sul F.Q. il portavoce di Potere al Popolo Giuliano Granato prendendo in prestito un’espressione del giornalismo d’oltre Manica, l’aringa -  intesa come “arma di distrazione” da altre questioni ben più importanti e imbarazzanti -  è stata servita e i deputati dell’opposizione, more solito, ci sono cascati. Urlatori e pure babbioni, insomma.

Ora vallo a dire fra un paio di lustri ai figli o ai nipoti che un giorno di tanti anni fa hai marciato, fiero ed entusiasta, a fianco di eroici europatrioti come Matteo Renzi, padre spirituale di quel sublime capolavoro di precarietà pro padronato noto come Job Act.

 

 

 

Ti piace?
francesco61dgl2 più di un mese fa

Articolo datato ma - ritengo - con alcuni spunti sempre attuali

 

SALVIAMO IL SOLDATO GIULI

Una volta pensavo a Giuli e la mente mi rimandava l’immagine di un garbato, colto ed elegante giornalista di destra nonché Presidente della Fondazione Maxxi; oggi penso a Giuli e la mente mi rimanda l’immagine di un  Des Esseintes fuori tempo massimo  o del Dott. Dieu (definizione di  Sarah Bernhardt) in vestaglia rossa, ossia del medico italo-francese Samuel – Jean Pozzi, immortalato in un famoso  quadro del pittore americano  di fine ottocento John Singer Sargent nonché celebrato, insieme ad altri protagonisti della Bella Epoque, in un recente romanzo dello scrittore inglese Julian Barnes, l’ autore del ben più noto Livelli di vita.

Oggi Giuli per me, ma non solo, è pertanto sinonimo di fumisterie oratorie, comunicazione involuta, periodare barocco infarcito di vocaboli ampollosi, metafore ardite, allegorie ermetiche.

Da ultimo il nostro eroe, non sazio delle (in fondo) benevoli “pernacchie” ricevute dopo le sue precedenti, dotte e indecifrabili prolusioni, pare persino che abbia scoperto l’acqua come principio primigenio del Creato, peccato però che ci fosse già arrivato un  certo Talete nel VI secolo A.C…

Il risultato di tanta produzione ad alto tasso di erudizione è che, dopo un profluvio di discorsi eccessivamente forbiti - quando non totalmente criptici e talvolta impossibili da interpretare persino per la Pizia del Santuario di Delfi - atteggiamenti mollemente decadenti, pause talvolta imbarazzanti e comunque sempre prodromiche all’ennesima perla linguistica in caldeo, Giuli,  bardo della destra digeribile, politicamente corretta  e biodegradabile, l’amico stimato di tanti colleghi e politici di sinistra, in poco tempo si sta giocando tutto l’ apprezzamento e il rispetto di avversari ed elettori e per motivi che, francamente, più che misteriosi sembrano sortiti da un personalissimo ed irrefrenabile cupio dissolvi, probabile figlio legittimo, oltre che dell’affaire Spano (polpetta avvelenata di sangiuliani, omofobi, neanderthal Pro Vita  e nostalgici del braccino teso),   del suo ingresso, in qualità di Ministro della Cultura, nel brodo primordiale della politica nazionale, una pentola in eterna ebollizione che scioglie  impietosamente chiunque, da debuttante “puro di spirito”, si affacci per la prima volta sul suo proscenio.

In effetti, a ben guardarlo, il caravanserraglio politico a cui appartiene Giuli abbonda da sempre di iene e tigri, più che di pacifici ruminanti. Iene e tigri per giunta molto meno stilisticamente eleganti dell’altra sponda politica, zeppa però, a sua volta,  di fighetti benpensanti e regolarmente muniti di patenti vidimate di democrazia, ma finora buoni solo a lamentarsi con l’attuale maggioranza per mancate  e sacrosante riforme sociali che avrebbero dovuto varare loro  in tutti gli anni in cui sono stati  in groppa al cavallo governativo (un esempio su tutti: la patrimoniale, riforma che la Schlein ora pretende dalla destra dopo che gli esecutivi di centro-sinistra l’han sempre sdegnata) , forse anche perché troppo impegnati nel patrocinio dell’accoglienza (un valore del cristianesimo) e dei diritti LGBTQ+  (un valore del liberalismo illuminato). Ma si sa, quando non puoi o non vuoi più farti  paladino di una causa, come nel mercato l’imprenditore  rivolge la sua attenzione al prodotto di tendenza, nella politica i partiti si gettano nella  difesa del valore di tendenza…

In ogni caso, lo spessore ectoplasmatico dell’opposizione non invalida l’ininficiabile postulato che descrive da anni i politici del centro-destra nazionale come un branco di affamati elefanti in cristalleria, insuperabili nel saper affettare, con piglio degno dei pizzicagnoli trasteverini, il grasso colante delle politiche interne, peraltro conformemente ai  desiderata  del ventre molle dell’elettorato moderato, in gran parte refrattario a spiegazioni complesse e arzigogolate dei problemi del Paese e delle loro possibili soluzioni.

In tutto questo il buon Giuli, autentica “barca nel bosco”, per citare la bravissima Paola Mastrocola, non ha trovato di meglio che rifugiarsi nel fraseggio esoterico, iniziatico, dei suoi interventi, un po’ per distinguersi, dannunzianamente, dal resto dei suoi colleghi (“come puteano questi barbari…”) e un po’ per far credere di essere posseduto dall’LSD o da qualche entità aliena.

Insomma, una via di fuga alla Amleto e un raffinato perculamento per far credere ai gonzi - amici e nemici -  che lui non è più compos sui, almeno fino a quando non deciderà di tornare ad essere il Giuli politicamente corretto e, soprattutto, comprensibile di prima o fino a quando il suo dannunzianesimo postmoderno non sarà digerito dalla platea e dal palco della politica nazionale, perché se crede che la Meloni, come fece Mussolini col Vate, gli regali un nuovo Vittoriale degli italiani, spiace deluderlo nonché metterlo in guardia: la leader di FdI, viste le attuali inopie di Cassa, al massimo potrà permettersi di incollargli dietro al deretano un’altra giovane ed affascinante infermiera pericolosamente simile a quella tedesca da sempre sospettata, dalla vox populi, di essere stata l’avvelenatrice dell’Immaginifico, notoriamente avverso all’alleanza dell’Italia con Hitler ed il nazismo.

Ci pensi soldato Giuli, inizi le manovre di atterraggio e rientri al più presto nel recinto dell’umano consorzio.

 

Ti piace?
francesco61dgl2 più di un mese fa

Articolo scritto nel mese di dicembre ma sempre attuale, purtroppo...

 

SCRIVI A GRAMELLINI

 

Insieme a te non ci sto più

Buongiorno caro Dott. Gramellini  (o buonasera, dipende da quando e se leggerà questa lettera), nella presente ‘epistola’ non troverà  disperate richieste d’aiuto  per rimettere in piedi storie d’amore al capolinea  o per svegliarne altre in  narcosi ormai perenne e neppure consigli sul come e perché si è tradito o si sta tradendo il partner o la partner (nella sua rubrica, ad  onor del vero, tiene banco più la prima opzione che la seconda: senza voler generalizzare, spesso le donne  certe situazioni della propria vita sentimentale le vivono in modo travagliato; gli uomini invece, soffrendo fin dalla nascita della sindrome dell’harem, con il piede in due scarpe…hic manebimus optime)

No, anche questa lettera in verità parla di un amore finito, ma di un amore ideologico, non fisico: l’amore per la sinistra di governo.

Lei dirà: abbiamo al potere, nel nostro Paese, da oltre 2 anni una coalizione di destra che a chiamarla impresentabile sembrerebbe quasi un complimento, eppure se la prende con l’opposizione? Sì e per un motivo molto semplice: la sua assoluta inconsistenza e, in qualche caso, anche la sua malafede. Due fattori di solito determinanti nella fine di un rapporto affettivo.

Ho l’età per ricordare quando è sbocciato in me il sentimento e tutte le sue evoluzioni.  M’innamorai di lei nel posto dove iniziano di solito tutti gli amori adolescenziali, ossia al liceo. Non fu un colpo di fulmine perché avevo già un retroterra familiare progressista: un padre comunista nonché ingenuamente convinto che l’U.R.S.S. fosse il paradiso dei lavoratori. Ci provò pervicacemente e per anni ad indottrinarmi, ma il mio innato scetticismo mi suggeriva che le cose non stessero proprio così e che quel tipo di comunismo non fosse poi tanto diverso, nei metodi, nelle protervie e persino nella stupidità (immenso Bulgakov…), dai fascismi e da tutte le altre autocrazie che questo povero pianeta ha conosciuto e continua a conoscere.

Ragion per cui mi innamorai sì, ma del socialismo democratico, pertiniano e lombardiano.

Peccato che, alle soglie della maggiore età, nel PSI arrivò Craxi e dunque fu giocoforza per me abiurare il partito di Turati e rivolgere l’attenzione di giovane riformista al PCI di Berlinguer, che già aveva avviato il suo processo di distacco dal regime sovietico.

Quando poi alla fine arrivò anche Mani Pulite, pensai: ci siamo, sta per sorgere il Sol dell’Avvenire. Invece cominciò quasi subito la sarabanda: il PCI che cambia mille volte denominazione fino a gettarsi nelle braccia di una parte dell’ex DC, il PSI sparito dai radar, l’estrema sinistra inutilmente velleitaria come al solito, l’altra che si scopre, nel corso del tempo, anch’essa non del tutto immunizzata dal virus della corruzione e della malversazione. 

Tutto ciò in mezzo a vent’anni di predominio berlusconiano, a parte le parentesi.

Ecco, arrivati alle parentesi siamo arrivati al punctum dolens: le parentesi dei governi guidati o partecipati dal centro-sinistra.  Negli ultimi trent’anni ce ne sono stati ben 9 (governo Prodi Uno 1996- 1998; governo D’Alema  1998- 2000; governo Prodi Due 2006-2008; governo Monti 2011-2013, appoggio esterno; governo Letta 2013-2014; governo Renzi 2014-2016; governo Gentiloni 2016-2018; governo Conte Due 2019-2021;governo Draghi 2021-2022). Che politiche di sinistra hanno perseguito o preteso dagli altri partner delle coalizioni? Lo chiedo con grande sincerità, perché io francamente non ricordo una, dicasi una, delle riforme - economiche soprattutto, ossia di equità sociale – varate dagli esecutivi ai quali ha preso parte il PD. Non parlo di riformette, quelle di cui s’incipriano puntualmente i parlamentari e i ministri di ogni colore, parlo di Riforme con la R maiuscola, quelle che cambiano in meglio il volto di un Paese: lotta all’evasione, lotta alle diseguaglianze (sociali, di genere ecc.), lotta alla disoccupazione, crescita di stipendi e salari, diritto alla casa, ecc. Provvedimenti che, se fossero stati varati, si sarebbero scolpiti nella memoria collettiva e di cui invece, una volta saliti sugli scranni dell’esecutivo di turno, i politici di sinistra si sono puntualmente dimenticati di adottare, di solito evocando altrettanto puntualmente, quando qualcuno glielo rimproverava, il Moloch insaziabile della malvagia UE liberista post Maastricht (in cui peraltro ci hanno infilato loro nel 93), un mostro con le fauci spalancate,  sempre pronte a sbranare i Paesi i cui bilanci deviano dalla retta via .

Ora se questa giustificazione nei primi tempi di governo della sinistra è potuta   sembrare perfettamente plausibile, con l’andar del tempo la pezza in questione - pur avendo il suo innegabile fondamento - è parsa sempre più un comodo ‘ipse dixit’ per liquidare la faccenda e mettere a tacere i mugugni degli elettori e gli sberleffi delle ali estreme del progressismo nazionale.

Tuttavia, non paga di ciò che non fa quando governa, per aumentare il tasso di fastidio la sinistra ‘di governo’, una volta all’opposizione, è insuperabile poi nel pretendere che i citati ‘impresentabili’ (che tali sono davvero, per carità) facciano quello che loro avrebbero dovuto fare e non hanno fatto.

E la chiudo qui.

Le ho scritto questa indigesta ‘mappazza’ telematica non per tediarla prima delle feste ma perché giorni fa, quando in tv ho visto la Schlein esigere, col solito piglio e il solito linguaggio accalorato simil-landiniano, che la destra varasse l’imposta sui grandi patrimoni, ho rischiato seriamente di morire.

Dal ridere.

Cordiali saluti, Francesco

Ti piace?
francesco61dgl2 più di un mese fa

Vecchio, sei diventato vecchio

 

Vecchio, sei diventato vecchio cantava a Sanremo tanti anni fa Renato Zero sulle note di quello splendido brano di Mariella Nava che è “Spalle al muro”. Ma se essere diventati vecchi e sentirsi la vecchiaia addosso per tanti è ancora un Rubicone parecchio arduo da attraversare e accettare - per gli uomini forse più che per le donne (creature superiori che di solito sanno mutare pelle e accogliere tutte le nuove stagioni della loro esistenza) - non meno travagliato è approdare all’anteprima della vecchiaia senza avvertire un certo senso di angoscia e smarrimento.

Ci accorge dello scorrere del tempo sulle nostre vite  non prima dell’approssimarsi dei sessanta anni. Fino ai cinquanta e oltre un uomo oggi – contrariamente al passato – solitamente può infatti vantarsi di avere ancora intatte tutte le energie e gli umori della gioventù, pregi e difetti compresi. Lo specchio d’altronde quasi sempre gli rimanda, se non la stessa immagine dei vent’anni, perlomeno quella dei trentacinque-quaranta.

Passati i sessanta però si coglie lo scatto assassino di un click interiore: cambia innanzitutto proprio il rapporto con lo specchio, declassato da amico fedele a nemico implacabile; si iniziano a notare le prime rughe; scemano i bollori, di qualunque tipo (fervore lavorativo, temperamenti e passioni) e subentra in molti un senso di noia e di stanchezza per il proprio quotidiano da far invidia ai seguaci di Sartre.

Ma a suscitar paura nel neo sessantenne non è tanto lo spleen in sé quanto la considerazione di se stessi, che precipita a livelli da temperature invernali nei fiordi norvegesi.

Tutto appare inutile, il proprio presente e il proprio passato (sul futuro meglio stendere il proverbiale…); terrorizza, invece di consolare, l’idea che ai settanta - se ci si arriverà - quasi certamente sarà pure peggio e ancor più terrorizza la prospettiva degli ottanta, perché inevitabilmente associata al rimbambimento o al catetere;  ci si rende conto di quante scelte si sono sbagliate e di quante occasioni si sono sprecate lungo il cammino mentre, dulcis in fundo, la prospettiva di riciclarsi come nonni non appare affatto lenitiva (al contrario di quel che accade alle gentili signore).

All’inizio, in verità, il neo sessantenne prova a reagire passando all’attacco: creme per il viso, per il contorno occhi, palestra, corteggiamenti fantozziani alla collega di lavoro trentenne o quarantenne, rinnovate esuberanze erotiche verso la propria consorte - destinate tuttavia ad aver in genere vita breve - pillole blu (peraltro ancora del tutto inutili a quella età, almeno nella maggior parte dei casi) e via discorrendo.

Ma sono solo imbarazzanti escamotage che sfumano impietosi nell’aria il giorno in cui ci si accorge che le tante pomate non sono servite a nulla, che le sole voglie rimaste sono quelle gastronomiche, e nemmeno tutte, e che il solo alzarsi al mattino così come l’addormentarsi la sera destano puntualmente un tale disagio da far sembrare Schopenhauer uno sconsiderato ottimista.

E a monte di tutto questo però ci si continua anche a chiedere: ma perché?

Perché non si hanno più stimoli al lavoro, la politica non appassiona più e gli hobby appaiono solo inutili perdite di tempo, comprese persino le buone letture?

Si finisce per contare i giorni che mancano al prossimo compleanno, ossia al   gradino successivo verso la vera e propria senescenza, e ci si scopre cinici e indifferenti.

Non tutti, lo so, si riconosceranno in questa “fotografia” del sessantenne. Non sono affatto pochi quelli che vivono benissimo il raggiungimento dei dodici lustri di vita ma ritengo che siano molti di più coloro che solo apparentemente non mostrano di soffrirli. 

La ricetta per curare questo male di vivere a scoppio ritardato? Non c’è, almeno per la gran parte degli esseri umani di questo pianeta.  I più fortunati, i ricchi, gli uomini di successo, hanno i loro antidoti: una gratificante attività di lavoro, un pingue conto in banca, la correlata possibilità di dedicarsi a passatempi preclusi al resto dei loro simili e di rompere la monotonia del quotidiano con viaggi e vacanze in giro per il mondo, una attrattività personale che solitamente prescinde del tutto  dalle loro fattezze (magia del denaro, dello status o del potere) e che li aiuta a mantenere livelli ottimali di autostima.

Gli altri invece vivono l’arrivo nel calendario della vita del loro “autunno” in maniera decisamente meno spensierata ma la maggioranza non l’ammetterebbe neppure sotto tortura.

Per pudore, per vanità, per orgoglio, perché la nostra è epoca ridanciana e festaiola che non tollera i musi lunghi, perché la prospettiva dell’“inverno” in fondo è ancora lontana e via discorrendo...

In ogni caso, soddisfatti o meno dei propri anni, la verità poi è che ben pochi, a mio avviso, sono quelli che oserebbero affermare: “anziano  è bello”, coscienti trattarsi di un motto da regalare al museo delle fesserie.

Pertanto bando alle scemenze: se la vecchiaia, per dirla con Philip Roth, è “un massacro”, l’anticamera della vecchiaia è il momento in cui si caricano i fucili…

 

Ti piace?
francesco61dgl2 più di un mese fa

Era già tutto previsto…

“Era già tutto previsto…” cantava anni fa Riccardo Cocciante e non c'è frase che meglio si attaglia alle sconcertanti prestazioni della nostra Nazionale di calcio in Germania. Scrivo volutamente prestazioni e non prestazione, con riferimento cioè alla sola debacle contro la Svizzera di ieri sera, perché tutte e quattro le partite disputate dagli azzurri sono state  a dir poco indecenti, a cominciare dal secondo tempo contro l’Albania.

Giornali, televisioni e youtubber stanno infatti concentrando da ieri sera il tiro delle loro frecce avvelenate contro Gravina, Spalletti e giocatori per la figuraccia rimediata a Berlino, ma a pensarci bene quello contro gli svizzeri altro non è stato che un ulteriore sequel horror dei tre precedenti incontri. L’equivoco che induce i commentatori a concentrarsi prevalentemente e inevitabilmente solo su quello dell’Olympia Stadium nasce da due fattori: era una sfida dentro o fuori e la tradizione vuole che le nostri nazionali, anche quelle perdenti, nelle partite ad eliminazione diretta in genere facciano emergere il meglio che possono esprimere in quel momento. 

Formazioni scadenti ma tignose, decise, al redde rationem, a vendere cara la pelle,  ogni  appassionato di calcio di una certa età certamente ne ricorderà parecchie (l'Italia di Conte, ad esempio), per cui  che stavolta si sia invece tristemente confermato il trend accidioso ed ectoplasmatico delle precedenti esibizioni la dice lunga sul livello attuale dei nostri calciatori, molto vicino allo zero termico.

Naturale pertanto ora chiedersi dov’era e cosa faceva Spalletti mentre i 26 convocati, a partire da Di Lorenzo, esibivano tutte le loro stupefacenti qualità nelle partite di campionato. C’è da sospettare, visti gli esiti tragici delle sue valutazioni, che il mister col pizzetto i fine settimana invernali li abbia trascorsi provando e riprovando alcuni di quegli incomprensibili pipponi con cui ha deliziato fino a ieri i giornalisti accreditati all’Europeo: minestroni infarciti di ragionamenti così astrusi e distanti dai puncta dolentia di cui i cronisti pretendevano un chiarimento, da indurre a credere per un attimo che dietro tali discorsi ci fosse l’estro “surreale” del bravissimo Corrado Guzzanti.  Per non parlare poi del "disco rotto" spallettiano sulla mancanza di "ritmo" dei nostri calciatori, neanche fossero ballerini di Salsa e Merengue...

Oggi Gravina  ha rassicurato opinione pubblica e giornali,  confermando che non ha alcuna intenzione di dimettersi e meno ancora di licenziare Spalletti. Meno male, ce stavamo a preoccupa’…A sua volta Spalletti, mettendoci il carico, ha confermato che anche lui non ha alcuna intenzione di mollare la cadrega, che farà tesoro delle lezioni ricevute da questi sciagurati Europei e che per il futuro… bam! … punterà di più sui giovani.

Notiziona. Chissà perché non ci ha pensato prima. Chissà perché lui e tanti altri C.T. che nel passato più o meno recente si sono fossilizzati, fino alla loro inevitabile Waterloo, nel convocare sempre e soltanto i soliti nomi, non hanno un invisibile genio della lampada personale che li avvisi per tempo, prima che arrivi la catastrofe. Invece no, bisogna prima bagnarsi nel fiume della vergogna, far incazzare decine di migliaia di tifosi italiani e rientrare a testa bassa nei propri appartamenti, altrimenti non c’è divertimento...

La testardaggine inconcludente, d’altronde, è da sempre una delle peggiori pecche di coloro ai quali, in Italia, a vario titolo viene affidato uno scettro del comando, basti pensare alle infinite liti da asilo mariuccia tra i generali La Marmora e Cialdini, che contribuirono non poco alla nostra ignominiosa sconfitta nella terza guerra d'Indipendenza o, peggio ancora,  alle disastrose strategie belliche di un Cadorna nel primo conflitto mondiale.

Ovviamente la testardaggine in divisa è molto più pericolosa e foriera di vere tragedie di quella in tuta da allenatore, ma il difetto di fondo è uguale, non per nulla il calcio, specie  quello delle competizioni tra squadre nazionali, è considerato da tempo l'unico e  credibile surrogato delle guerre, come ci è stato spiegato da tanti intellettuali nel corso del novecento (Orwell su tutti: "Lo spirito sportivo").

Speriamo dunque che Spalletti, di cui pare dovremo ancora sopportare  a lungo le dotte prolusioni eupalliche, tenga fede alla promessa e inizi a convocare anche lui giovani talenti tricolore, adeguandosi alle politiche adottate ormai da tempo nel resto d’Europa. Perché se è vero che le nostre squadre di serie A non li fanno giocare, preferendo mandare in campo calciatori stranieri, è anche vero che la bravura, quella autentica, non ha bisogno di timbrare cartellini.

 

 

Ti piace?
, , , , , , , , , , , , ,