Ho usato questo oggetto tante volte per descrivere un pensiero o un concetto, si lascia veicolare e metaforizzare docilmente, quasi ti seduce. Che vuoi? È sempre stato un oggetto che attrae e affascinata, che incatena e tormenta.
Lo specchio.
Dietro un riflesso c'è, sempre, un mondo e infinite prospettive.
Negli autoritratti lo specchio è più che un riflesso, l'artista impara ad andare oltre la superficie e cercare nelle espressioni il cuore delle emozioni.
In questi ultimi post si è scritto di giudizio, spesso nel giudicare una cosa ci lasciamo trascinare più dall'opinione che non dalla vera sostanza della cosa stessa, lo diceva Seneca.
È quel che accade davanti allo specchio, ci lasciamo plasmare del tempo che sfiora la superficie, fissando i contorni, senza oltrepassare il velo che definisce e limita l'orizzonte.
Perché? Sono i perché che ci rendono, alla fine, quel che siamo.
Dividerò questo pensiero in due parti.
Una parte sarà una riflessione su un articolo letto poco fa.
La seconda parte cercherà di essere un momento di bellezza.
L’articolo letto analizzava l’attuale situazione sociale e descriveva la vita di molti nostri concittadini, vite che conosco bene. Vivendo in un territorio ad alto tasso di povertà rivedo, quotidianamente, quello che ho letto, lo rivedo attorno a me e vicino a me, molti miei parenti sono costretti a situazioni simili.
[…] Già alle sei del mattino in tanti cominciano ad affollare quel marciapiede. Attendono l’apertura dei cancelli della struttura di Pane Quotidiano, l’Onlus che assicura generi alimentari di prima necessità a chi ne ha bisogno. Ad accoglierli trovano i numerosi volontari con le loro felpe arancioni: sacchetto alla mano percorrono le postazioni e ricevono pasta, latte, frutta e tutti i prodotti che quel giorno sono disponibili per la distribuzione. In quel via vai di persone c’è di tutto: giovani, adulti, anziani, stranieri, italiani, senza fissa dimora, famiglie, disoccupati, lavoratori e pensionati. Ci sono tutti i volti della povertà, da quella assoluta dei senzatetto a chi una casa ce l’ha e magari anche un’entrata economica ma non riesce più ad arrivare alla fine del mese. In quella coda c’è la vecchia e la nuova povertà. Entrare in un supermercato per alcuni di loro è impossibile, per altri sempre più difficile, quasi un lusso. Pochi giorni fa l‘Istat ha parlato ottimisticamente di “fase di rapido rallentamento” dell’inflazione. Ma il potere di acquisto dei consumatori precipita sempre più velocemente: il rincaro del cosiddetto “carrello della spesa“ (cioè i beni alimentari, per la cura della casa e della persona) è stato addirittura del 13% contro il 12% di gennaio. A chi è in coda in viale Toscana non serve però aver letto quel report per comprendere la complessità dell’attuale contesto economico. […] “Prima venivo meno, adesso vengo qui quasi tutti i giorni perché i prezzi sono aumentati e le bollette sono esorbitanti”, racconta Federica. “Fare la spesa è diventata ormai una cosa problematica e non si può vivere con 603 euro”, spiega. Ha 76 anni, è una ex commerciante e poi, chiusa l’attività, è stata anche dipendente ma “mi facevano contratti Co.co.co, a chiamata o a progetto”. “Sono fortunata rispetto a tanti altri – racconta – perché quando lavoravo sono riuscita ad acquistare una casa. Oggi però – aggiunge – per lo Stato avere un’abitazione di proprietà è una rendita, un sorta di lusso, senza però considerare quanto ti costa”. Così, nel corso degli anni, “quei pochi risparmi messi da parte” sono stati “fatti fuori” così come qualche orecchino e anello che possedeva: “Non si può andare avanti così”, conclude con un malinconico sorriso. […] Filippo ha 72 anni, tre bypass e diverse patologie. La sua pensione ammonta a circa 800 euro al mese dopo una vita di lavoro come cameriere. “Noi pensionati siamo molto in difficoltà – afferma – perché prima dobbiamo pagare le bollette, altrimenti tagliano la luce, poi le medicine e in mano rimane pochissimo. Non arrivo a fine mese, dovrei fare un’operazione all’anca ma la posticipo perché dovrei pagare le radiografie e gli esami”. “Oggi entrare al supermercato significa spendere almeno 50 euro. Non me lo posso permettere – spiega – e venire qui per me è fondamentale, così almeno riesco a mangiare tutti i giorni”. […] “È aumentato negli ultimi tempi il numero di pensionati, ma arrivano da noi anche coppie di giovani, una categoria che prima era difficile vedere”, racconta Claudio Falavigna, coordinatore dei volontari di Pane Quotidiano. “La percezione che abbiamo è che questo trend sia in costante aumento e ci preoccupa molto”, sottolinea. “C’è tanta gente che fino a due, tre anni fa riusciva con il proprio reddito a vivere senza particolari problemi, a mangiare e andare al supermercato, ma adesso non ce la fa più”. E sullo sfondo si prospetta anche un altro fattore che rischia di aumentare le code in strutture come quelle di Pane Quotidiano. “Uno tsunami in arrivo”, lo definisce Claudio Falavigna. “Se a giugno davvero a una certa percentuale di persone verrà tolto il reddito di cittadinanza sarà un dramma sociale”, sottolinea. “Non voglio pensare a cosa possa succedere soprattutto in regioni dove c’è più povertà e dove mancano strutture come la nostra”, aggiunge. “Noi speriamo e auspichiamo che vengano trovate per tempo delle soluzioni, altrimenti – conclude – siamo al dramma”. Fonte
Albert Einstein diceva che il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza fare nulla.
Ammetto che io non faccio tanto per essere utile alla società, a parte, forse, creare arte.
L’indifferenza è stata una mia difesa contro le violenze subite, fin d’adolescenza e non sono riuscito a 48 anni, lo ammetto, a uscire da quella emarginazione in cui sono stato scaraventato. L’esser gentili, persino generosi, tendere una mano a chiunque chieda aiuto non è la stessa cosa che, volontariamente, rendersi utili.
Mi è capitato di aiutare conosciuti e sconosciuti, avvertire l’esigenza e aiutare. Non mi sono mai tiravo indietro, sia con le parole che con le azioni, solo economicamente non ho potuto mai fare niente (ho sempre avuto poco.) questo, però, non è esser utili alla società, fare la differenza e ne prendo atto.
Mi ricordo un episodio. Una volta durante il terzo anni di accademia, corso di mass media (ancora lo ricordo), un tizio entra in classe, un ragazzo non più di 30 anni, armato di coltello e intima al professore di cambiare un voto di una allieva. Non c’ho pensato due volte, mi sono messo davanti alle colleghe (un pò incosciente lo sono sempre stato), per fortuna dopo un pò arrivò la polizia e tutto si risolse senza violenze.
Leggendo l’articolo non si può non restare indifferenti, nel bene o nel male qualcosa viene smosso dentro di noi. Mi vengono in mente le parole lette in un blog amico, leggendo queste storie da un certo punto di vista, si potrebbe accentuare una visione cupa della realtà e piano, piano spegnere i valori etici e morali che ci accompagnano, rassegnandosi alla vita che si vive. Una visione nichilista che ha un pregio, ha sempre avuto un pregio, evitare il caos spirituale, quel caos che porta alla sottomissione totale all’altare dei valori assoluti, perché la rassegnazione in molti casi ha un naturale sbocco nella rivoluzione, nel risorgimento dei valori relativi.
So che quello che cerco di esprimere è un concetto strano e forse decifrabile solo nella mia mente, ma il punto è, che nel bene o nel male gli estremi sono sempre un’occasione di cambiamento.
Nessuna superficie resiste alle pressioni in eterno, primo o poi la rottura è, inevitabile.
Quel che vedo attorno a me è una pressione sociale elevata e una pressione globale pericolosamente elevata, una rivoluzione è inevitabile, spero solo sia industriale e non sociale. La scienza a volte è riuscita ad evitare qualche catastrofe annunciata.
Come scritto la seconda parte sarà un momento di bellezza, l’unico modo che ho per creare bellezza è attraverso l’arte o la poesia.
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine, una lenta agonia… L’unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla.
A volte mi sento come un orologio rotto,
un orologio rotto in mezzo a migliaia di orologi integri.
Nonostante sia riuscito a ripararmi,
quei pochi secondi di ritardo,
mi rendono agli occhi di chi puntualmente ticchettia,
comunque e sempre un orologio rotto.
È tutto nella tua testa! Così esclama chi mi ama.
La solita teoria della diversità.
Sento spesso la frase: È molto facile accettare chi è uguale a noi, meno chi è diverso.
E altrettanto spesso: Se non ti senti accettato non è colpa del mondo, ma tua che non ti accetti.
Io sto bene con me stesso, ma non tanto bene, con il resto del mondo.
Com’è che la risposta a questa affermazione è, sempre, che non sto bene con me stesso?
Come ho scritto nel precedente pensiero amo le storie.
Un giorno un Maestro accolse tre candidati che volevano diventare suoi discepoli. Al primo incontro il Maestro iniziò a comportarsi in modo eccentrico a tavola, facendo discorsi assurdi e avendo atteggiamenti strani. Disse anche talune parolacce e mangiò il suo cibo con le mani, asciugandosi la bocca al polsino della camicia. Uno di questi tre discepoli se ne andò, scandalizzato di questo atteggiamento. Il secondo fa avvisato dai discepoli anziani (istruiti così dal Maestro) che questi era un truffatore, che si stavano organizzando per fargliela pagare e che lui doveva stare ben attento a fidarsi di un uomo così. Anche il secondo uscì dal gruppo. Al terzo il Maestro proibì categoricamente di prendere la parola ogni volta che la chiedeva e di porre qualsiasi tipo di domande. Anche il terzo se ne andò, sdegnato ed offeso. Quando il Maestro fu solo con i suoi allievi disse: “Il comportamento di coloro che se ne sono andati illustra tre validi concetti. Il primo “non giudicare a prima vista”. Il secondo “non giudicare cose di grande importanza da ciò che dicono gli altri”. Il terzo “non fare della tua percezione di stima ed apprezzamento altrui il metro per il tuo giudizio su di loro.”
Come disse Confucio: “Ogni cosa ha la sua bellezza, ma non tutti la vedono.”
Mi sono sempre piaciuti i racconti e le storie, per questo, forse, scrivo.
Anche nella pittura o nella scultura, si raccontano storie, è un modo per entrare in mondi sconosciuti. Le storie sono viaggi.
Louis Braille
Insegnante, Francia, 1809 – 1852
Da piccolissimo passava ore a osservare il papà che dava forma al cuoio. Ascoltava i rumori, seguiva l’ago robusto e il filo che legavano insieme stoffa, pelle conciata e paglia. Il risultato era ogni volta straordinario. E che gioia quando si andava a consegnare la sella finita al contadino o al mugnaio: spesso il padre portava con sé il piccolo Louis che salutava tutti curioso e fiero. Qualcosa, o tutto, cambiò molto presto. Aveva tre anni Louis quando, giocando con un arnese sottratto dal banco di lavoro paterno, si infortunò all’occhio sinistro. L’infezione che ne scaturì gli portò via dapprima l’occhio e, nel giro di qualche tempo, la perdita della vista fu totale. A dieci anni Louis entra all’Istituto per l’educazione dei giovani ciechi di Parigi. Ai ragazzi si insegna a leggere attraverso le dita con caratteri stampati messi in rilievo grazie a un filo di rame, ma la scrittura è preclusa; imparano lavori manuali, come impagliare sedie, e la domenica fanno una passeggiata, legati l’uno all’altro con una corda. Louis studia con impegno e a vent’anni è insegnante in quello stesso istituto. Proprio con gli studenti affina la grande invenzione della sua adolescenza: appena quindicenne, infatti, aveva ideato il codice alfabetico di scrittura e lettura tattile, formato dalla combinazione di sei punti in rilievo. Erano realizzati con un punteruolo e disposti, attraverso una
griglia, su due colonne. Si scrive da destra a sinistra e si legge, voltando
pagina, da sinistra a destra. A ispirarlo era stato Charles Barbier de la Serre, ufficiale d’artiglieria, inventore della “scrittura notturna”, un sistema adatto a trasmettere informazioni ai soldati in assenza di luce. Louis Braille è stato per i ciechi ciò che Gutenberg, l’inventore della stampa, è stato per l’umanità: ma morì senza saperlo.
Da: Vite straordinarie. Storie di donne e uomini che hanno fatto la differenza.
Oggi la vita ci morde l’anima e ci toglie fiducia e speranza a volte la vita stessa, lasciandoci sfiduciati e impauriti, senza più il desiderio di lottare per il futuro, si vive è basta aspettando l’inevitabile. Ho rischiato di perder la luce della vita quando ci vedevo bene e tutto era chiaro, così chiaro che tutto era diventato uguale, senza significato, oggi, che rischio di vivere nel buio, vedo le differenze e il valore dell’insignificante.
Bellezza, resistenza, tenacia e coraggio, queste le virtù di una piccola e candita pianta. Una piccola specie vegetale abituata a sopportare sbalzi termici e condizioni ambientali ostili, oltre ogni immaginazione. È lei, la stella alpina.
La conosciamo anche con il nome di edelweiss o zampa di leone.
Simbolo di resilienza.
Sulle Alpi si racconta che, tanto tempo fa, una montagna tanto triste piangeva lacrime di solitudine soffrendo talmente tanto che nessun fiore intorno a lei riusciva a consolarla. Fu così che, durante una notte, le stelle giocando tra loro si accorsero di questa montagna. Una stella allora scese giù dal cielo per posarsi tra le rocce gelide e consolare la triste montagna. Era freddo, la stella tremava ma la montagna triste non rimase indifferente di fronte a questo gesto e così l'avvolse in un manto bianco donandole radici profonde per legarla per sempre a sé. All'alba nacque la prima stella alpina.
Avevo bisogno di cambiare prospettiva e mondo, e perché no, identificarmi con qualcosa di meno problematico e distruttivo dell’essere umano.
Non sono un poeta, ma sentirmi come un poeta, a volte mi da fiducia nelle alternanze (per un’amica).
Piccola stella alpina, sei coraggiosa e non temi di crescere, lì, dove nulla riposa. Sembri fragile vestina di bianco, ma resisti al vento e al tocco gelido del più austero inverno. E non ti spaventa, neanche, la solitudine di una cima rocciosa, sai che dall’alta vetta di una montagna, timida vedi le stelle, di mille notti, compagne fedeli e sincere. Piccola stella alpina, insegnaci, ad esser puri e forti, in questo mondo a volte ostile e freddo, come il più rigido inverno.
I pensieri che dedico a fatti esterni alla mia quotidianità, come avete avuto modo di osservare (per chi mi legge), sono sporadici, a volte, però, non si può restare indifferenti e nel nostro piccolo un’opinione ce la creiamo, opinione pronta all’occorrenza per essere condivisa.
Una notizia di questi giorni mi ha, particolarmente, colpito.
Due tredicenni (di buona famiglia) che aggrediscono con una forbice una coetanea, a colpirmi l’età e le modalità d’aggressione, degne di un piccolo romanzo criminale, per l’età che hanno per lo meno.
Da poco in tv viene trasmessa una serie, alquanto bella, realistica, crudelmente realistica e di base profondamente decadente. Mare fuori.
Ho visto le puntate e la realtà descritta è, imbarazzante.
Non capisco come possa un giovanissimo o una giovanissima acquisire queste caratteristiche criminali?
O meglio, so come può accadere, ma l’idea mi terrorizza e mi lascia incredulo, perché è una sola la spiegazione possibile, la totale assenza di adulti a indicare un esempio positivo. È possibile?
È possibile, che un bambino, nato nella nostra società, non in medio oriente o in Africa, ma nel nostro paese, possa arrivare all’adolescenza con in testa l’idea che accoltellare è normale come mangiare un kebab?
In un post precedente, ho brutalmente descritto, come crescono certi bambini e cosa subiscono, quindi, è possibile.
Ciò che mi chiedo è: Dov‘è la famiglia? Dov’è la scuola? Dove sono le istituzioni?
Ma che cazzo me lo domando a fare?
Stavo per cancellare quello che avete appena scritto, perché riconosco di essere ripetitivo, ma non è mai stata contemplata la censura nel mio mondo.
Che dite forse è meglio ascoltare un pò di musica cosi i pensieri si calmano e l’anima si quieta.
Intervista rilasciata da Roberto Vecchioni al sole 24 ore: «Gli insegnanti italiani sono i più bravi del mondo. Certo, se venissero a mancare i genitori a scuola ci sarebbe meno sfacelo, secondo me», lo ha detto tra l'ilarità generale Roberto Vecchioni, parlando alla platea dei delegati intervenuti al secondo congresso della Uil scuola, in corso in questi giorni a Roma. «Bisogna credere - ha detto in un altro passaggio il cantautore - non si può vivere assolutamente atei, bisogna credere nella forza della propria umanità. Pasternak diceva: “questo mondo non è l'anticamera di una sala (che è il Paradiso), questo mondo è già un salone pieno di luci”. Già qui siamo nell'eternità, già qui dobbiamo fare il possibile per sentirci nobili, umani; poi se c'è Dio o non c'è, poco importa; abbiamo il dovere di essere uomini che fanno gesti grandi, belli, qui ed ora, in questo mondo. I valori - ha proseguito - sembrano una parola retorica, antica, invece sono qualcosa di interminabile, che non finisce mai: sono il bello, il vero e il bene, a quello dobbiamo tendere. La sensibilità al bello purtroppo è spesso deturpata, oggi, da qualcosa di facile. E la vita spesso non permette di avere giovani all'altezza del lavoro che vorrebbero avere: serve la cultura. Quando si insegna per 5 anni la grammatica e la letteratura greca, si insegna che ogni cosa ha sterminate espressioni. Quando escono dalla bellissima cerimonia che è al scuola, i ragazzi hanno una corazza solida e sanno come rispondere e trovare le differenze: la vita è fatta di una infinità di sfumature. La cultura è causa-effetto, sensibilità verso l'altro, inglobare un mondo in un pensiero, saperlo concepire, è pazienza, capire gli altri anche quando sbagliano o potrebbero dire altro. La cultura ci viene dalla scuola, non da altro».
Che dire? Nella quotidianità, nella nostra intimità, la realtà è quella che è, forse, più male che bene, ma in mondi come questo, in mondi dove si può essere liberi di scrivere, di dipingere, di creare musica, possiamo essere migliori del mondo che ci ospita.
Ieri ho litigato con la mia dolce metà, non tanto dolce in quell’occasione. :-)
Strano - ma non troppo - per le solite questioni o meglio una delle solite questioni.
Non so se capita anche a voi. Ma a me capita di litigare per motivi che si ripetono, periodicamente, nel tempo.
Sembra a volte di scivolare in un circolo vizioso in cui l’intelligenza si prende una vacanza.
Non ci siamo rivolti la parola per ore, praticamente, fino alla mattina seguente, cioè stamattina, che il linea di massima è, forse, il modo migliore per raffreddare gli animi, i silenzi calmano.
Al risveglio ci siamo comportanti come se nulla fosse successo, amorevolmente come sempre.
Questi litigi sono i più strani e in un certo senso i più insopportabili, perché potrebbero essere evitati, visto che sono questioni che conosciamo entrambi bene.
Non è neanche l’argomento in sé a scatenare l’irritazione, quando invece il sentirlo ancora una volta.
Per lo meno a me mi irrita questo, sentire ancora quelle parole, sostenere ancora quella posizione.
Ma di fatto se le posizioni non coincidono è inevitabile ed è solo questione di tempo, primo o poi il conflitto s’infuoca.
Mi riprometto, sempre, di non affrontare più l’argomento, ma puntualmente torna e mi sento stupido nel non riuscire a superare l’ostacolo. Anche quando si cerca di venirsi incontro, il calore, il tepore che di solito ci scalda e ci rende comprensivi l’uno verso l’altra, un pò si raffredda.
Siamo creature strana. In un commento, in un blog amico, ho scritto che non siamo, poi, così civilizzati.
Gli impulsi riescono ancora ad annebbiarci, non ci facciamo fisicamente del male, come accadde in molte altre famiglie, il peso delle parole dette e ricevute, io, però, lo sento, ed un peso che mi lascia piccole ferite.
Comprendo perché poi si passa parte della vita a provare che si è ancora pieni d'amore o cercare nei suoi gesti quello stesso amore. Perché un pò si resta male, ci si sente male tanto da mettersi in dubbio, mettere in dubbio la forza dell’amore che ci unisce.
Momento malinconico. :-)
Quel che voglio esprimere con questo pensiero è un concetto.
Ritengo il litigo, nella vita di una coppia, un momento per crescere e mettersi a nudo, un modo quindi per far conoscere parti di sé che non sempre vengono fuori. A volte, però, è difficile crescere.
In un mondo come questo poi.
A tal proposito voglio aprire brevemente una piccola parentesi e dedicare un pensiero, un piccolo pensiero al dramma che si è consumato a largo di Crotone.
63 vittime (non definitive). Rincuora (è ironico) vedere come, l’opinione pubblica, sia politica che popolare, reagisce a questa tragedia. Chiusa parentesi.
“Per fare una discordia, vi bisogna due. A perseverare in concordia, basta che uno de' due sia savio.” Leon Battista Alberti
La riflessione che intendo condividere, oggi, potrebbe sembrare strana, ma considerando che tutto è ispirazione e tutto può esser fonte per costruire un racconto, anche questo argomento potrebbe offrire qualcosa o donare qualcosa.
Lo spinta non è, stavolta, legata al mio passato, ma agli utenti di Libero, ad una categoria in particolare. Non me ne vogliano le donne, ma ad un particolare gruppo di utenti femminili.
Che per varie ragioni, molte, a me purtroppo chiare, altre, invece, più ambigue, si mostrano alla comunità mettendo in risalto una particolare parte del corpo.
Il seno! Grande o piccolo, in posa o intravisto, coperto o scoperto, semplicemente, seni. Ne ho colto alcuni fra i tanti e fra tutti i meno spudorati, i più timidi.
:-) Eh no!!! Ovviamente, non li mostro per rispetto, non spetta a me esibirli.
Non farò una critica alle sopracitate utenti, nonostante non condivida l’improprio utilizzato di questa, bellissima, parte anatomica come identificato o carta d’identità.
Mostrerò, invece, come l’arte ha saputo descrivere il seno, trasformandone il significato da mero oggetto di seduzione a simbolo di vita e riscatto verso una libertà che lontana è, ancora, dall’essere raggiunta ed emancipata.
L’arte e in generale la storia, ha sempre rappresentano il seno nelle sue virtù più riconoscibili, virtù celebrate dall’uomo e poco, forse, dalla donna. Queste virtù, tanto sospirate, elogiavano a volte l’erotismo del seno, altre la sua materna simbologia.
Erotismo e maternità, ecco, cosa è stato il seno, ecco, come è stato rappresentato per secoli. In entrambi i casi, sottoposto a censura oppure esibito senza riguardi e pudore, secondo le necessità e le più puerili esigenze.
Al di là delle concezioni personali o sociali, la cosa più bella che una donna può arrivare a sentire, a percepire, è che il seno sia qualcosa che appartiene a lei prima che agli altri, più e oltre il suo stesso simbolismo.
Per l’artista l’anatomia umana, è energia, è, appunto, simbolismo, ed in ogni opera, il corpo è, un mezzo per definire un’idea, costruire un pensiero che è, sempre, al servizio di un atto d’amore, verso la libertà, verso la comprensione e verso l’emancipazione, sia essa mentale o sociale.
Questa ultima immagine è emblematica e significativa per comprendere come, oggi, viene concepito il corpo e come l’arte contemporanea lo rappresenti. Credo valga la pena spendere due parole in più su questa ultima immagine. La foto ritrae una performance svolta in una stanza della Galleria Studio Morra di Napoli. 72 oggetti vennero disposti su un tavolo insieme ad delle istruzioni per i partecipanti della performance, queste le indicazioni:
1) Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate
2) Io sono l’oggetto
3) Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio
4) Durata: 6 ore (dalle 20:00 alle 2:00)
All’inizio non successe nulla, poi, gli oggetti iniziarono piano, piano ad esser impugnati, prima una piuma, poi una rosa coperta di spine, poi una catena, una lama, ed infine una pistola carica. Nonostante la tensione e la paura, l’artista rimase immobile per tutta la durata dell’evento, il cui scopo era mettere a nudo la relazione tra abbandono e controllo. L’arte viene messa alla prova, per descrivere un confine e mostrare la natura del nostro rispetto per il corpo umano. Fin dove può arrivare un essere umano a cui è concesso il potere di agire indiscriminatamente?
Durante gli anni di Accademia, ho ritratto, per mero esercizio il corpo umano (nudo), sia maschile che femminili. In quegli anni, hanno posato, per me e i miei collegi, ragazze e donne, che senza volgarità, hanno mostrato la bellezza del loro corpo per quella che è, non un oggetto da cui attingere bramosia, lussuria o violenza, ma un riflesso di quello che è la nostra intimità e libertà.
So che le buone intenzione hanno, sempre, un contraltare nella realtà, che molte e molti leggeranno retorica in questo pensiero. E lo è, retorico, come è retorica l’arte e la poesia. E come allo stesso modo è retorico il male e la violenza.
La comunicazione ha sempre avuto insito nel suo retaggio, l’arte della persuasione.
L’intero mondo si fonda su questo concetto, su questo subdolo comportamento. Regni, imperi e, poi, democrazie, hanno costruito il loro potere e il loro seguito sulla capacità, più o meno forzata, di persuadere un individuo o un popolo a seguirlo o sottomettersi. Questo è il confine tra bellezza e mostruosità, lo stesso confine che separa il seno dall’essere un simbolo di erotismo e maternità o un simbolo di appartenenza e libertà per ogni donna e uomo.
Cosa si rispetta?
Cosa vediamo quando davanti ai nostri occhi si materializza un seno?
So cosa potrebbe aver pensare Freud, quale pulsione lui assocerebbe prima al bambino e poi all’adulto. Uno spettro di percezioni che radicalizzano l’ossessione, trasformando la sessualità in un lotta per la sopravvivenza di un’interiorità in bilico tra desiderio e rassegnazione.
Lo stesso sangue, lo stesso respiro, lo stesso corpo, cioè appartenenza, l’appartenenza definita dalla diversità che ogni singolo pensiero, ogni singolo cuore, ogni singola anima ha nel suo essere unica e libera, nel loro essere unici e liberi.
Cosa si deve rispettare quando si ha davanti un seno?
Non la donna, né l’uomo, ma entrambi, solo quando un uomo vedrà nel corpo di una donna sé stesso e una donna vedrà nel corpo di un uomo sé stessa, si avrà rispetto e libertà.
Posso comprendere le vostre perplessità, la mia logica non è mai stata allineata e forse mai, totalmente, comprensibile o sensata.
L’uomo e la donna, raggiornano per luoghi comuni, per convenzione e precetti, lasciandosi da questi plasmare e indottrinare, la libertà di pensiero è una conquista ardua e prescinde ogni subornazione.
La mia compagna mi accusa (mi affido all’idea che sia amichevole questa accusa) di esser, sempre, sopra le righe, di elevare (senza mai riuscirci) troppo i miei discorsi e perdermi al loro interno, e con loro perdere la concretezza del loro impatto, senza, non si ha un fine, non si ha scopo.
Ho passato metà della mia vita in silenzio e l’altra metà cercando, disperatamente, di farmi capire, ed ho così trasformato la mia comunicazione che essa è diventata una linea infinita che non riesce a trovare sbocco.
Scrivo i miei pensieri e scrivendoli a volte sembra di naufragare in un oceano di parole.
Ma anche questo è parte di me, questo sono, un uomo che cerca di distillare i pensieri, un uomo che parte della bellezza del seno per esaltare la libertà dell’essere umano.
Perché questo dev’essere il compito dell’arte, della poesia e della filosofia, indicare la strada, anche se poi il mondo non la segue o non la vuole seguire.
Quando si racconta, è inevitabile, declinare il passato. Di fatto in, quasi, tutti i miei post, ho raccontato episodi del mio passato.
La natura del blogger è definita della storia e di conseguenza dal suo contenuto.
Nel mio blog è spiccata la natura biografica, anche se ancora, oggi, mi chiede e domando a chi possa interessare il mio passato?
Ieri è morto Maurizio Costanzo, con tutto il rispetto possibile, la notizia (spero i fan non me ne vogliano male) non mi ha suscitato alcun che, uno dei tanti necrologi che la tv celebra, negli ultimi anni ce n’è sono stati parecchi.
Ma se torno indietro e lascio volare i pensieri a 20 anni fa, devo riconoscere che, il Maurizio Costanzo Show, è stato un programma che mi ha tenuto tanta compagnia, soprattutto in quelle notti di studio e ripasso. Un sottofondo a volte allegro, a volte triste, a volte irritante. La Tv, come la musica, è stata un sottofondo rilevante nella mia vita, soprattutto adolescenziale e per buoni motivi.
Come ho scritto in passato, raccontando della mia infanzia e adolescenza, i miei genitori lavoravano l’intera giornata ed io e mia sorella eravamo, sempre, soli in casa, la Tv è stata di conseguenza, l’unica vera distrazione, di certo non la più sana, ma le alternative erano poche e a volte pericolose.
Raccontarle, oggi, è come leggere un libro, c’è distacco, un distacco emotivo forzato, che ha lo scopo di allontanare le emozioni, la tristezza e la rabbia.
Perché, sì, se ci penso, un pò di rabbia, arde nel cuore, per quel che banalmente si viveva come normalità e quotidianità, una quotidianità che era tutto tranne che normale.
Ad esempio; quando tornavo a casa con, mano nella mano, la mia sorellina, dovevo stare attendo ad evitare alcune zone, perché c’erano dei ragazzi a cui non dovevo dare confidenza, l’ordine dei miei genitori era chiaro e severamente punito se disubbidito. Dopo, ho scoperto il motivo di questa preoccupazione e questa severità, motivo che, sicuramente, potete immaginare. I ragazzi erano piccoli spacciatori legati alla cosche mafiose.
Mi fa tristezza pensare che, nonostante siano passati 30 anni, la situazione sembra non essere, poi, tanto cambiata.
Per questo motivo, la maggior parte delle volte i miei mi ordinavano di restare a casa e non uscire dopo la scuola e a casa l’unica distrazione era la Tv.
I cartoni animato sono stati un vero e proprio laboratorio per me. Potrei affermare, quasi con certezza che è stato grazie a loro che ho scoperto di avere il dono del disegno. Beh, loro e i fumetti, quei pochi fumetti che ho avuto la fortuna di poter comprare.
Li ho disegnati, quasi, tutti: Candy, Pollon, Lady Oscar, Licia, Lupin, L’uomo tigre, Spank, i Puffi, La stella della Senna, Mimi, Gigi, Creamy, Pinocchio, I Flintstones, Kimba, Mazinga, Jeeg Robot, La signora Minù, Lamu, Sampei, ecc. ecc.
La felicità nella vita è centellinata e in molti casi distillata da una realtà mutevole. Possiamo paragonarci a contadini, che raccolgono ricordi sotto forma d’esperienza. E questo incessante lavoro è logorante, la schiena si piega e giorno dopo giorno la vita si consuma, le ossa, i muscoli e l’anima si erode, è inevitabile. Ogni pizzico di felicità ci costa energia, tanta energia e vita, tanta vita, è il costo del vivere. Ma ogni costo, ha anche un ricavo, un bene che ci viene restituito e può disegnare, nel mio caso letteralmente, ponti, strade e porte.
Il passato per me è, sempre, stato, nel bene e nel male, importante e ricordarlo è, fondamentale per tracciare il futuro e distillare piccole gocce di felicità.
Inizio questo pensiero con una considerazione che è, già, stata sollevata da un blog amico, qualche giorno fa.
Oggi sono stato all’ASL e poi in ospedale per ritirare un referto.
Se non fosse per questi fogliettini:
Che ricordano quel che è stato, potrei pensare che nulla sia mai successo. Che quei tre anni non siano mai esistiti. Ogni tanto qualcuno indossa la mascherina, ma, quasi, passa inosservato.
Non so se sia un bene o un male, ma, personalmente, il distanziamento mi manca. Non rimpiango quel che abbiamo passato, ma a volte ho la sensazione che la memoria salti qualche pagina.
Una piccola osservazione, non penso l’unica, che apro e chiudo.
Avrei tanto da scrivere, su molti argomenti, vicini e lontani, ma mi incazzerei soltanto.
C’è una stupenda scenetta con protagonista Massimo Troisi.
Per chi non crede, so che è difficile immaginarla, e non chiedo di fare sforzi in tal senso, per chi al contrario ha fede o crede in qualcosa, qualunque cosa, può, con o senza sforzo, immaginare questa stupenda gag.
E magari mettersi, ironicamente, nei panni di Massimo e dialogare con la presunta entità che così tanto sarcasticamente e spiritosamente ci mette alla prova, per non dire che ci sta, proprio, a rompere il cazzo. :-)
Dai, siamo sinceri, a chi non è passata una volta nella vita, in testa, la domanda:
Ma perché proprio cu’mmè/proprio a me?
Il testo è geniale.
E credo sia uno specchio di quel che pensiamo e critichiamo.
Ascoltarlo è sublime, anche leggerlo, però, ha il suo fascino, magari, non per tutti, il dialetto napoletano non è semplicissimo da leggere.
Alcune parti sono esilaranti.
[…] Si ma tu ‘o ssaje quanto in fondo ti stimo! Vengo a messa tutte le domeniche, ogni domenica sto in chiesa… e vabbè aggio ‘juto a verè nu film spuorco… ma oggiggiorno i film so tutte quann accussì! Nun hai visto però che appena so ‘sciuto dal cinema duemila lire a chillu povero… duemila lira a chillu povero me pare a me ca… Aggio disubbidito a mio padre… chillu mio padre… o ma però tu mi controlli allora scusa! E non lo so! E mi stai ‘ngull ‘ngull! Si ma guarda nu poco pure all’ate, agg’ pacienza! Me pare ca cell’haje proprio cummè stu fatt! Si, ma guarda pure all’ate, nun guardà sul ammè! Si ma in fondo nisciun è perfetto, ognuno tene e’ cose… No, no lo so tu si’ perfett! No, stavo parlann’e nuje ccà, non ce l’avevo cuttè… no…A parte il fatto ca pure tu haje fatte i sbagli tuoi, eh… no, no, lascia sta che hai sbagliato pure tu, eh! No, certe cose le hai… lasciati pregare se ti dico che hai sbagliato hai sbagliato! E’ capitato certe volte… No, parla parla! No, “lasciati pregare” era un modo di dire, subbito te miett in posa! Non lo so! Ma no, era ‘rint ‘o discorso… no, parla! Si, era ‘rint ‘o discorso…No hai sbagliato! Certe cose le hai sbagliate… Haje fatt’ tutt’e cose buon tu? Tu non haje mai sbagliato? Cioè, secondo te l’ippopotamo è bello! Ja’… L’haje cumbinato ‘e chella manera l’ippopotamo! Lascia sta… lascia sta… Ma te pare bello ca chillo adda sta semp rint all’acqua cumbinato e chella manera… Ma è logico ca si lamenta! Poi bestemmia l’ippopotamo malamente… Ma si tu ‘o combini e’ chella manera….No, no, no… mica sulo l’ippopotamo! No, no tu pure ‘a foca haje sbagliato! No tu a foca l’haje fatta a metà! Ti si scurdato e c’fà e zampette a’a foca! Ma perchè adda camminà ‘ngoppa a panza ‘a foca, scusa? E’ scomodo, è scomodo, nun da retta! Ma no, è scomodo a camminà ‘ngoppa a panza!E si lamentano, giustamente, si la mentano… No! No, no, pure l’elefante! L’elefante l’aggio sentute proprio je ca si lamentava! E c’o fatto ca c’hai miss chella cosa annanz’all’elefante! Si ma perchè c’hai missi chillu coso annanz all’elefate? Eh, stu fatt che… Vuliv fa ‘o serpente, vuliv fa’?! E fatti prima gli esperimenti a parte, scusa! Ma no, per piacere…
[…] E vabbè, chillo so animali, so animali… Che significa “so animali”? …Che poi pure gli uomini si lamentano, eh!Si, l’aggio sentuti proprio je ca si lamentaveno… Eh, dicevano “però iss pure ha sbagliato…”Tu nun’è sient perchè chill’ parlano tutt’accussì… Si lamentano… Non lo so… ‘riceno ca tu hai fatto tutt’e cose a favore ‘ro ricco… C’ò povero è destinato a ‘jì all’inferno! O povero adda fa perforza peccati! Eh! ?o fatto dei comandamenti! “Non desiderare la roba d’altri!”… mo passa nu ricco allà e me vede: che tene ‘a desiderà chillo ‘e me, scusa?! ‘O uaje è semp’ ‘o nuost! Ma lascia sta’, so cose… “Non desiderare la donna d’altri”… Tu ‘a cunusc’a mia moglie no?No, siamo d’accordo! Siamo d’accordo: quist’ è nu fatto mio… me lo dovevo guardare prima io… siamo d’accordo!“Non fornicare”… che significa non fornicare? Tu saje ca je aggio fornicato senza sapè? No, je penzave ‘e furmiche! Eh! Penzave ‘e furmiche! E’ venuto nu periodo c’camminavo accussì!
[…] Ma chi è che capisce non fornicare, scusa? No… no, no, je so calm, guard… No, no je so calmissimo… no, no, no, ca’ se ci sta uno ca se sta innervosendo sì proprio tu! Eh, je te vec tutto arraggiato! Eh! Stai tutto innervosito! Eh, l’età, l’età, l’età… Lascia sta, lascia sta, ca tu pure quann’eri ggiovane eri accussì, eh! Subito t’innervosivi! Come no? Chella povera uagliona pe’ se’ mangià na mela facessi succedere n’ira di dio!
[…]
Non sono mai stato definito un tipo spiritoso, i timidi e riservati, poche volte, credo, sono anche divertenti e umoristici. E, invidio (senza cattiveria), un pochino, chi ha uno spiccato senso ironico, la battuta pronta e la capacità di far nascere un sorriso, anche, quando nulla ci sarebbe da ridere. La mia compagna è ferrea nella convinzione che io e l’ironia non ci siamo mai conosciuti.
Ma a me sembra di averla vista e di averci, pure, scambiato due parole.