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Quando le farfalle nello stomaco se ne vanno lasciano, inevitabilmente, le loro larve a banchettare...

 

 

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Mi descrivo

L'ordinarietà dei cataclismi emotivi, la loro mediocre conformazione, la dozzinale cedevolezza della loro struttura opaca arrendevole alla benché minima pressione, la consueta disposizione delle proposizioni stremate, il grossolano piano sequenza degli eventi illusori, la scadente ritualità dell'attesa, l'exitus farfugliante fandonie. In tutto questo sta la magnificenza estetica dell'esistenza

Su di me

Situazione sentimentale

-

Lingue conosciute

-

I miei pregi

-

I miei difetti

-

Amo & Odio

Tre cose che amo

  1. la leggerezza del pensiero incostante
  2. L'intransigenza anche immotivata ma indulgente
  3. Perdere il sonno per nostalgia

Tre cose che odio

  1. un qualsiasi accenno di verginità rifatta
  2. chi non si spaccia per chi è
  3. il comune senso del prudore

CANI

CANI

 

Quel tizio che aveva conosciuto sul posto di lavoro gli aveva portato il cane.

Un cucciolo di un paio di mesi… così, ad occhio.

Una specie di incrocio tra un labrador o un golden retriever e qualcos’altro, forse.

“L’ho trovato stamattina che girava nel cantiere della TAV qui vicino…” ha detto il tizio, con il cane in braccio.  “Non ha né collare, né targhetta…niente di niente. Credo che lo abbiano buttato via.” Ed intanto lo guarda e gli gratta il collo con le dita sporche di catrame.

L’animale pareva in buona salute, nonostante tutto.

“Potrebbe farti comodo. Sembra un cane da caccia…non sei uno che va a caccia tu?”

Si, ci andava…non spesso, ma ci andava.

Non spesso come avrebbe voluto.

Però quel cane sembrava più adatto a recuperare anatre e fagiani, aveva grosse zampe fatte per il fango dei canneti e per nuotare nella palude. Invece lui cacciava piccola selvaggina; merli, tordi, anche qualche cosa di non consentito.

“Magari ci puoi ricavare qualcosa di buono…chissà. Che ne dici?”

Ne disse che lo prese con sé, e quella sera ritornò a casa col cane.

Non gli diede neppure un nome…lo chiamò semplicemente cane.

Qualche mese dopo cominciò ad addestrarlo, ed a fargli imparare ad ubbidire ai vari comandi.

Lo portava in campagna, nella piana vicino, oppure sulle piccole colline che digradavano svogliate coperte di erba magra e rovi irti di spine.

Percorrevano a piedi la strada provinciale. Nelle piazzole di sosta c’erano sacchi di immondizia squarciati, mucchietti di mozziconi insanguinati di rossetto ed incarti scoloriti di preservativi.

I primi comandi furono “seduto” e  “terra”.

Teneva in tasca una piccola busta di plastica piena di pezzetti di wurstel, che gli sarebbero serviti per premiare il cane.

Un comando eseguito bene, un pezzetto di wurstel.

All’inizio l’animale non capiva cosa gli si chiedesse; era svogliato e distratto, e la maggior parte del tempo ciondolava attorno a lui, annusando per terra e pisciando ovunque.

Un poco alla volta apprese i rudimenti dell’addestramento, ma comunque si vedeva che non era tagliato per la caccia.

Tutto di quel cane parlava di gioco e rotolarsi nell’erba e rincorrere farfalle e cavallette; rispondere agli ordini non faceva per lui.

Così, la maggior parte dei giorni, ritornava a casa con il sacchetto delle ricompense quasi completamente inutilizzato.

I comandi “dietro” e  “via” furono una pena senza fine. Il cane non seguiva la sua voce, nemmeno quando la alzava e i suoi richiami risuonavano secchi e taglienti in tutta la boscaglia.

Ogni tanto gli scappava anche qualche colpo sulla schiena della bestia, che con il tempo si era fatta massiccia e muscolosa, oppure qualche bacchettata sul muso, ma la cosa non aveva alcun effetto pratico.

Il cane continuava a comportarsi senza alcuna disciplina, caracollando ottusamente al suo fianco, e sbavando.

Ma la cosa peggiore fu quando provò ad approcciare il comando “Vieni”.

Il cane, in questo caso, non solo lo ignorava, ma lo guardava da lontano, fermo sulle zampe…e sembrava quasi che… ecco, sembrava che lo prendesse per il culo.

Non ci fu nulla da fare.

Alla fine si rassegnò, e lo portò da un addestratore professionista.

Lui gli disse che sarebbero state necessarie una quindicina di lezioni di un’ora almeno, al prezzo orario di 20 euro.

300 euro gli parvero una somma considerevole, ma accettò comunque.

Quel cane doveva imparare.

Lo portava dall’addestratore la mattina del martedì e del venerdì; lo scaricava dall’automobile, lo consegnava al tipo, e poi andava in paese a fare le sue commissioni.

Tornava dopo circa un’ora, e vedeva l’ultima parte della lezione. Poi lo ricaricava in macchina, ed assieme tornavano a casa.

Alla fine della nona lezione il tipo, dopo avergli consegnato il cane, si fermò accanto alla portiera aperta.

“Potrei anche dirle che questo cane ha bisogno di altre lezioni” disse “più delle quindici che avevamo previsto, e quindi fotterle altri soldi. Ma siccome non sono una persona disonesta preferisco dirle subito la verità; questo cane ha delle grosse difficoltà ad eseguire i comandi...qualsiasi tipo di comando. Non so quale sia il motivo preciso, ma so che, per quanto mi riguarda, non diventerà mai un cane da caccia affidabile”.

Prese i suoi venti euro, voltò la schiena, e se ne andò, lasciandogli il guinzaglio in mano.

Lui lo guardò allontanarsi, e poi prese ad osservare il cane.

Sul suo muso era dipinta una smorfia sghemba.

Sembrava che ridesse.

 

 

Nel cortile aveva preparato una tinozza piena di acqua.

D’estate lavava il cane almeno una volta al mese con uno shampoo antiparassitario per evitare le infestazioni, e lui sembrava apprezzare questa cosa.

Infilò le dita sotto al collare e lo trascinò fino alla tinozza.

Il cane non fece resistenza, anche se sembrava meno contento del solito.

Forse lo stava spingendo con troppa violenza, e lui non voleva che l’animale presagisse qualcosa.

Così cercò di controllarsi, e tirò con meno forza.

Fece entrare il cane nella tinozza, e cominciò a bagnargli la schiena.

La tinozza era piuttosto grande, e l’acqua arrivava più o meno al ventre del cane.

Dopo qualche minuto iniziò ad accarezzargli la testa con la mano bagnata, ed avvertì chiaramente che la bestia rilassava i muscoli del collo e della schiena.

Fu allora che, con un movimento repentino, sprofondò il muso del cane nell’acqua della tinozza.

Dopo un primo istante di disorientamento, il cane cercò di divincolarsi, inarcando il dorso e cercando di sfuggire alla morsa che lo bloccava sott’acqua.

Lui ebbe chiara la percezione delle unghie delle zampe posteriori che grattavano la superficie del fondo della vasca.

Il cane iniziò anche a guaire, lanciando brevi lamenti striduli solo in parte soffocati dall’acqua.

Lui mantenne salda la presa, allargando le gambe e schiacciando con il suo peso il cane, che cominciava già a perdere energia.

Fu allora che, quando già credeva di averne vinto definitivamente la resistenza, la bestia fece un ultimo disperato scatto improvviso, e riuscì in qualche modo a liberarsi dalla stretta che lo imprigionava; ruotò il corpo massiccio nell’acqua e, dopo un breve istante, stava già correndo nel cortile, verso il varco che dava sulla campagna.

Poi, prima di raggiugere l’uscita, si fermò, scrollandosi in un effimero arcobaleno di spruzzi colorati.

Lui si guardava le mani insaponate e vuote, in cui erano rimasti impigliati ciuffi di pelo rossastro.

Aveva la faccia madida di sudore, che gli stava colando lungo il collo e la spina dorsale.

Rivolse la testa verso il cane, che era bloccato a pochi passi dalla strada, con il muso verso i campi di soia.

“Cane!”, urlò nella calura del pomeriggio d’estate. Non sembrava un richiamo, ma piuttosto un lamento, una specie di invocazione spezzata.

Il cane girò la testa ancora fradicia di schiuma bianca verso di lui, puntandogli contro gli occhi color nocciola.

Per un momento rimasero così, a fissarsi in faccia; gli occhi di un animale dentro agli occhi di un altro animale.

“Vieni!”.

Stavolta il tono era diverso. Asciutto, duro ed acuminato. Il richiamo fendeva l’aria come un proiettile.

Il cane esplose in un lungo guaito cupo, cercando di lottare contro una forza impercettibile.

Voltò ancora il muso verso la campagna e le sue farfalle, annusando forte il pomeriggio.

Di nuovo: “Vieni!”.

Il cane, allora, dopo un estremo attimo di esitazione, chinò il capo e cominciò a camminare, lentamente.

 

Dopo pochi minuti si sentivano solo le cicale, a cantare da sopra agli alberi di ciliegio ormai depredati di tutti i loro frutti.

 

 

 

Devi solo chiedermelo...

Stavano seduti, uno accanto all’altra, sul dondolo che stava nell’ombra del porticato che circondava tutta la casa.

Erano le undici passate, e faceva già molto caldo.

Nessuno, da giorni, dava da bere alle piante, che languivano esauste nei vasi di terracotta rossa.

Lui aveva preso una bottiglia di Dubonnet e una di gin dallo scaffale del suo studio; poi era salito in cucina, e dal frigorifero aveva cavato dell’acqua tonica ed un succo di frutta al mirtillo.

Il succo era per lei; un centrifugato.

Infine si era seduto vicino a lei, e le aveva dato un bicchiere.

“Non voglio che tu beva al mattino…lo sai che non voglio…” disse lei, allungandosi sul cuscino di cotone imbottito.

Lui stava guardando oltre il confine del giardino e della sua siepe di recinzione; il fianco della collina, il vigneto, i campi di mais e, in fondo, la cicatrice dell’autostrada che spaccava la linea dell’orizzonte.

C’era molto traffico.

La gente stava andando in vacanza, con automobili colme di biancheria intima e giocattoli, costumi da bagno, creme solari e scarpe da trekking.

Alcuni di questi oggetti erano stati acquistati di recente, roba da saldi estivi.

Come succedeva tutti gli anni, qualche cane abbandonato avrebbe risalito il pendio, in cerca d’acqua e di cibo.

“Come hai potuto farlo...” disse lui.

Non era una domanda.

Lei bevve un sorso, trattenendo il bicchiere su cui si erano formate delle piccole gocce di condensa.

Poi disse: “Guarda, credimi…non ci ho neppure pensato…”.

Rimasero così per un istante ininterrotto, liofilizzati nell’afa di mezzogiorno.

Poi lei si alzò e, per una piccola scossa mioclonica, rovesciò parte del succo di mirtillo sul cuscino del dondolo.

“Non è nulla...” disse lui, “non ti preoccupare…ci penso io…”.

“Se vuoi mi cambio ed usciamo…posso mettere il vestito che piace a te. Devi solo chiedermelo…” disse lei.

Grosse gocce di liquido violaceo cominciarono a cadere lentamente sulle piastrelle chiare del pavimento del portico.

“Va bene...ti aspetto qui…”.

Lei scomparve, divorata dal portoncino blindato dell’ingresso.

Un fluido denso e scintillante, a coagularsi al sole in una tumefazione raggrumata.

Lui finì il suo gin liscio, riflettendo spossato.

Quanto era incredibilmente incantevole ed avvincente l’idea di provare un dolore tanto acuto, tanto lancinante e debilitante da compromettere la capacità cognitiva, per un’azione che non aveva neppure richiesto lo sforzo necessario all’articolazione di un pensiero.

Rimase così, ad aspettare che lei arrivasse.

A chilometri di distanza in linea d’aria, sull’autostrada, si udì distintamente il lamento di uno pneumatico, seguito da uno schianto sordo e metallico.

Un reggiseno di pizzo bianco volò nell’aria, descrivendo una breve parabola, e finendo nella sterpaglia riarsa sul ciglio della carreggiata; l’etichetta con il prezzo era ancora attaccata, candida.

 

 

Give me your rules and I will subvert them
Give me your womb and I will quench my thirst
Give me your smell and I'll make it my home town
Give me your peel and I'll turn it into my playground
Give me your slavery and it will become my freedom

 

 

Dimmi che il peggio è passato...

Si alza dalla sedia, e si piega sulle ginocchia, come un pugile appoggiato alle corde dell'angolo.

Poi fa due passi verso il ventilatore, e lo spegne.

E' molto tardi, comunque.

Al lavandino si bagna le mani e la faccia.

C'è uno specchio e, nello spigolo in alto a sinistra, un'incrinatura.

"Ieri non c'era..." pensa.

Ma non ne è sicuro.

Sta affinando l'istinto di sopravvivenza: essere il primo ad intuire quando sarà il caso di andarsene e farlo, senza sbavature.

Sale le scale, attraversa la stanza, ed esce dalla porta d'ingresso.

Fuori si sta meglio, e l'erba del giardino è leggermente umida.

Si toglie le scarpe, le calze,  e ci cammina sopra.

Mentre si sdraia, i primi cani abbaiano al sole che sorge.

 

 

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