CANI
Quel tizio che aveva
conosciuto sul posto di lavoro gli aveva portato il
cane.
Un cucciolo di un paio
di mesi… così, ad occhio.
Una specie di incrocio
tra un labrador o un golden retriever e qualcos’altro,
forse.
“L’ho trovato stamattina
che girava nel cantiere della TAV qui vicino…” ha detto il tizio,
con il cane in braccio. “Non ha né collare, né
targhetta…niente di niente. Credo che lo abbiano buttato via.” Ed
intanto lo guarda e gli gratta il collo con le dita sporche di
catrame.
L’animale pareva in
buona salute, nonostante tutto.
“Potrebbe farti comodo.
Sembra un cane da caccia…non sei uno che va a caccia
tu?”
Si, ci andava…non
spesso, ma ci andava.
Non spesso come avrebbe
voluto.
Però quel cane sembrava
più adatto a recuperare anatre e fagiani, aveva grosse zampe
fatte per il fango dei canneti e per nuotare nella palude. Invece
lui cacciava piccola selvaggina; merli, tordi, anche qualche cosa
di non consentito.
“Magari ci puoi ricavare
qualcosa di buono…chissà. Che ne
dici?”
Ne disse che lo prese
con sé, e quella sera ritornò a casa col
cane.
Non gli diede neppure un
nome…lo chiamò semplicemente cane.
Qualche mese dopo
cominciò ad addestrarlo, ed a fargli imparare ad ubbidire ai vari
comandi.
Lo portava in campagna,
nella piana vicino, oppure sulle piccole colline che digradavano
svogliate coperte di erba magra e rovi irti di
spine.
Percorrevano a piedi la
strada provinciale. Nelle piazzole di sosta c’erano sacchi di
immondizia squarciati, mucchietti di mozziconi insanguinati di
rossetto ed incarti scoloriti di
preservativi.
I primi comandi furono
“seduto” e “terra”.
Teneva in tasca una
piccola busta di plastica piena di pezzetti di wurstel, che gli
sarebbero serviti per premiare il
cane.
Un comando eseguito
bene, un pezzetto di wurstel.
All’inizio l’animale non
capiva cosa gli si chiedesse; era svogliato e distratto, e la
maggior parte del tempo ciondolava attorno a lui, annusando per
terra e pisciando ovunque.
Un poco alla volta
apprese i rudimenti dell’addestramento, ma comunque si vedeva che
non era tagliato per la caccia.
Tutto di quel cane
parlava di gioco e rotolarsi nell’erba e rincorrere farfalle e
cavallette; rispondere agli ordini non faceva per
lui.
Così, la maggior parte
dei giorni, ritornava a casa con il sacchetto delle ricompense
quasi completamente inutilizzato.
I comandi “dietro”
e “via” furono una pena senza fine. Il cane non seguiva la
sua voce, nemmeno quando la alzava e i suoi richiami risuonavano
secchi e taglienti in tutta la
boscaglia.
Ogni tanto gli scappava
anche qualche colpo sulla schiena della bestia, che con il tempo
si era fatta massiccia e muscolosa, oppure qualche bacchettata
sul muso, ma la cosa non aveva alcun effetto
pratico.
Il cane continuava a
comportarsi senza alcuna disciplina, caracollando ottusamente al
suo fianco, e sbavando.
Ma la cosa peggiore fu
quando provò ad approcciare il comando
“Vieni”.
Il cane, in questo caso,
non solo lo ignorava, ma lo guardava da lontano, fermo sulle
zampe…e sembrava quasi che… ecco, sembrava che lo prendesse per
il culo.
Non ci fu nulla da
fare.
Alla fine si rassegnò, e
lo portò da un addestratore
professionista.
Lui gli disse che
sarebbero state necessarie una quindicina di lezioni di un’ora
almeno, al prezzo orario di 20 euro.
300 euro gli parvero una
somma considerevole, ma accettò
comunque.
Quel cane doveva
imparare.
Lo portava
dall’addestratore la mattina del martedì e del venerdì; lo
scaricava dall’automobile, lo consegnava al tipo, e poi andava in
paese a fare le sue commissioni.
Tornava dopo circa
un’ora, e vedeva l’ultima parte della lezione. Poi lo ricaricava
in macchina, ed assieme tornavano a
casa.
Alla fine della nona
lezione il tipo, dopo avergli consegnato il cane, si fermò
accanto alla portiera aperta.
“Potrei anche dirle che
questo cane ha bisogno di altre lezioni” disse “più delle
quindici che avevamo previsto, e quindi fotterle altri soldi. Ma
siccome non sono una persona disonesta preferisco dirle subito la
verità; questo cane ha delle grosse difficoltà ad eseguire i
comandi...qualsiasi tipo di comando. Non so quale sia il motivo
preciso, ma so che, per quanto mi riguarda, non diventerà mai un
cane da caccia affidabile”.
Prese i suoi venti euro,
voltò la schiena, e se ne andò, lasciandogli il guinzaglio
in mano.
Lui lo guardò
allontanarsi, e poi prese ad osservare il
cane.
Sul suo muso era dipinta
una smorfia sghemba.
Sembrava che
ridesse.
Nel cortile aveva
preparato una tinozza piena di acqua.
D’estate lavava il cane
almeno una volta al mese con uno shampoo antiparassitario per
evitare le infestazioni, e lui sembrava apprezzare questa
cosa.
Infilò le dita sotto al
collare e lo trascinò fino alla
tinozza.
Il cane non fece
resistenza, anche se sembrava meno contento del
solito.
Forse lo stava spingendo
con troppa violenza, e lui non voleva che l’animale presagisse
qualcosa.
Così cercò di
controllarsi, e tirò con meno forza.
Fece entrare il cane
nella tinozza, e cominciò a bagnargli la
schiena.
La tinozza era piuttosto
grande, e l’acqua arrivava più o meno al ventre del
cane.
Dopo qualche minuto
iniziò ad accarezzargli la testa con la mano bagnata, ed avvertì
chiaramente che la bestia rilassava i muscoli del collo e della
schiena.
Fu allora che, con un
movimento repentino, sprofondò il muso del cane nell’acqua della
tinozza.
Dopo un primo istante di
disorientamento, il cane cercò di divincolarsi, inarcando il
dorso e cercando di sfuggire alla morsa che lo bloccava
sott’acqua.
Lui ebbe chiara la
percezione delle unghie delle zampe posteriori che grattavano la
superficie del fondo della vasca.
Il cane iniziò anche a
guaire, lanciando brevi lamenti striduli solo in parte soffocati
dall’acqua.
Lui mantenne salda la
presa, allargando le gambe e schiacciando con il suo peso il
cane, che cominciava già a perdere
energia.
Fu allora che, quando
già credeva di averne vinto definitivamente la resistenza, la
bestia fece un ultimo disperato scatto improvviso, e riuscì in
qualche modo a liberarsi dalla stretta che lo imprigionava; ruotò
il corpo massiccio nell’acqua e, dopo un breve istante, stava già
correndo nel cortile, verso il varco che dava sulla
campagna.
Poi, prima di raggiugere
l’uscita, si fermò, scrollandosi in un effimero arcobaleno di
spruzzi colorati.
Lui si guardava le mani
insaponate e vuote, in cui erano rimasti impigliati ciuffi di
pelo rossastro.
Aveva la faccia madida
di sudore, che gli stava colando lungo il collo e la spina
dorsale.
Rivolse la testa verso
il cane, che era bloccato a pochi passi dalla strada, con il muso
verso i campi di soia.
“Cane!”, urlò nella
calura del pomeriggio d’estate. Non sembrava un richiamo, ma
piuttosto un lamento, una specie di invocazione
spezzata.
Il cane girò la testa
ancora fradicia di schiuma bianca verso di lui, puntandogli
contro gli occhi color nocciola.
Per un momento rimasero
così, a fissarsi in faccia; gli occhi di un animale dentro agli
occhi di un altro animale.
“Vieni!”.
Stavolta il tono era
diverso. Asciutto, duro ed acuminato. Il richiamo fendeva l’aria
come un proiettile.
Il cane esplose in un
lungo guaito cupo, cercando di lottare contro una forza
impercettibile.
Voltò ancora il muso
verso la campagna e le sue farfalle, annusando forte il
pomeriggio.
Di nuovo:
“Vieni!”.
Il cane, allora, dopo un
estremo attimo di esitazione, chinò il capo e cominciò a
camminare, lentamente.
Dopo pochi minuti si
sentivano solo le cicale, a cantare da sopra agli alberi di
ciliegio ormai depredati di tutti i loro
frutti.