Victor Hugo
“foliis ac frondibus” (tra foglie e rami)
Quel giardino abbandonato così a se stesso da più di mezzo secolo era divenuto straordinario e incantevole.
I passanti di circa una quarantina d’anni fa, si fermavano per contemplarlo senza certo sospettare i segreti che nascondeva dietro le spesse e verdi fronde. Più di un sognatore a quell’epoca ha lasciato penetrare indiscretamente lo sguardo e il pensiero attraverso le sbarre dell’antico cancello chiuso a lucchetto, contorto, traballante e sostenuto da due pilastri verdi e muschiosi, bizzarramente coronato da un frontone di arabeschi indecifrabili.
C’era un sedile di pietra in un angolo, una o due statue coperte di muffa, alcuni pergolati schiodati dal tempo che marcivano sul muro; non più viali, né aiole, ma della gramigna ovunque. Il giardinaggio era scomparso ed era tornata la natura. Le erbacce vi abbondavano, avventura ammirevole per un povero angolo di terra. La festa dei garofani era splendida. Nulla in quel giardino si opponeva allo sforzo sacro delle cose verso la vita; lo sviluppo venerabile era in casa sua. Gli alberi si erano abbassati verso i rovi, i rovi erano saliti verso gli alberi, la pianta si era arrampicata, il ramo si era piegato, ciò che striscia sulla terra era andato a trovare ciò che si espande nell’aria, ciò che si agita nel vento si era curvato verso ciò che si trascina nel muschio; tronchi, rami, foglie, fibre, cespugli, viticci, sarmenti, spini, si erano mescolati, attraversati, uniti, confusi; la vegetazione, in un abbraccio stretto e profondo, aveva celebrato e compiuto là, sotto l’occhio soddisfatto del Creatore, in quel recinto di trecento piedi quadrati, il santo mistero della sua fratellanza simbolo della fratellanza umana. Quel giardino non era più un giardino, era un colossale intrico; cioè qualcosa di impenetrabile come una foresta, popolato come una città, fremente come un nido, cupo come una cattedrale, odoroso come un mazzolino, solitario come una tomba, vivente come una folla.
In primavera, quell’enorme intrico, libero dietro il cancello e fra quelle quattro mura, entrava in amore nel sordo lavoro della germinazione, trasaliva al sole quasi come una bestia che aspiri gli effluvi dell’amore cosmico e che senta la linfa dell’aprile salire e bollire nelle sue vene; e, scuotendo al vento la prodigiosa capigliatura verde, seminava sulla terra umida, sulle statue corrose, sulla scala cadente del padiglione, fino al selciato della strada deserta, fiori come stelle, rugiada come perle, la fecondità, la bellezza, la vita, la gioia, i profumi. A mezzogiorno, mille farfalle bianche vi si rifugiavano, ed era uno spettacolo divino vedere turbinare in fiocchi, là nell’ombra, quella neve vivente dell’estate. Là, in una di quelle gaie tenebre della verzura, una folla di voci innocenti parlavano dolcemente dell’anima, e i ronzii completavano ciò che i gorgheggi avevano dimenticato di dire. A sera un vapore fantastico si sprigionava da giardino e l’avvolgeva; un lenzuolo di bruma, una tristezza celeste e calma lo coprivano; l’odore così inebriante dei caprifogli e dei convolvoli usciva da ogni parte come un veleno squisito e sottile; si sentivano gli ultimi richiami dei picchi e delle cutrettole che si assopivano sotto i rami, vi si sentiva quell’intimità sacra dell’uccello e dell’albero; di giorno, le ali rallegravano le foglie, di notte, le foglie proteggevano le ali.
D’inverno la boscaglia era nera, bagnata, fumante e lasciava vedere poco la casa. Invece dei fiori tra i rami e della rugiada nei fiori si scorgeva il lungo nastro d’argento dei lumaconi sul freddo e spesso tappeto di foglie gialle; ma, in tutti i modi, sotto tutti gli aspetti, in ogni stagione, primavera, inverno, estate, autunno, quel piccolo recinto respirava la malinconia, la contemplazione, la solitudine, la libertà, l’assenza dell’uomo, la presenza di Dio; e il vecchio cancello arrugginito aveva l’aria di dire: “Questo giardino è mio”.
Il selciato di Parigi aveva un bell’esserci là attorno, le palazzine classiche e splendide di rue Saint-Dominique avevano un bel girare festosamente nelle vicinanze; gli omnibus gialli, bruni, bianchi, rossi avevano un bell’incrociarsi nel quadrivio vicino; rue Plumet era il deserto; e la morte degli antichi proprietari, una rivoluzione che era passata, il crollo delle antiche fortune, l’assedio, l’oblio, quarant’anni di abbandono e di vuoto, erano bastati per ricondurre in quel luogo privilegiato le felci, i tassobarbassi, le cicute, le achillee, le alte erbe, le grandi piante marezzate dalle larghe foglie verde pallido, le lucertole, gli scarabei, gli insetti inquieti e rapidi per fare uscire dalla profondità della terra e comparire fra quelle quattro mura non so quale grandezza selvaggia e feroce; poiché la natura, che sconcerta i meschini disegni dell’uomo e prorompe sempre tutt’intera là dove si espande, tanto nella formica che nell’aquila, si sviluppa in un giardinetto parigino con altrettanta virulenza e maestà che in una foresta vergine del Nuovo Mondo. Nulla è piccolo, in realtà; chiunque sia avvezzo a compenetrarsi a fondo nella natura lo sa. Benché non sia data nessuna soddisfazione assoluta alla filosofia, non più di circoscrivere la causa che di limitare l’effetto, il contemplatore cade in estasi senza fondo a causa di queste decomposizioni di forze che sfociano nell’unità.
Tutto contribuisce al tutto.
L’algebra si applica alle nubi; l’irradiazione dell’astro è proficua alla rosa; nessun pensatore oserebbe dire che il profumo del biancospino sia inutile alle costellazioni. Chi può dunque calcolare il tragitto di una molecola? Che ne sappiamo noi se le creazioni di mondi non siano determinate da cadute di granelli di sabbia? Chi conosce il flusso e il riflusso reciproco dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, il rimbombo delle cause nei precipizi dell’essere e le valanghe della creazione? Un insetto ha la sua importanza, il piccolo è grande, il grande è piccolo, tutto è in equilibrio nella necessità; spaventosa visione per lo spirito. Fra gli esseri e le cose vi sono relazioni prodigiose; in questo inesauribile insieme, dal sole al moscerino, non c’è disprezzo; hanno bisogno gli uni degli altri. La luce non porta nell’azzurro i profumi terrestri senza sapere ciò che fa; la notte distribuisce le essenze delle stelle ai fiori addormentati. Tutti gli uccelli che volano hanno alla zampa il filo dell’infinito. La germinazione si complica della nascita di una meteora e del colpo della rondinella che spezza l’uovo, e mette di fronte la nascita di un verme e l’avvento di Socrate. Dove finisce il telescopio, il microscopio comincia. Quale dei due ha la vista più grande? Scegliete. La muffa è una pleiade di fiori; una nebulosa è un formicaio di stelle. Identica promiscuità, più meravigliosa ancora delle cose dell’intelligenza e dei fatti della materia. Gli elementi e i princìpi si mescolano, si cambiano, si sposano, si moltiplicano gli uni con gli altri, al punto di far giungere il mondo materiale e il mondo morale alla stessa luce. Il fenomeno è perpetuamente ripiegato su se stesso. Nei vasti mutamenti cosmici, la vita universale va e viene in quantità sconosciute, amalgamando tutto nell’invisibile sonno, seminando qua un animaletto, frantumando là un astro, oscillando e serpeggiando, facendo della luce una forza e del pensiero un elemento, disseminata e invisibile, dissolvendo tutto all’anima-atomo, facendo sbocciare tutto in Dio; allacciando, dalla più alta alla più bassa, tutte le attività nell’oscurità di un meccanismo vertiginoso, attaccando il volo di un insetto al movimento della terra, subordinando, chissà? non fosse che per l’identità della legge, l’evoluzione della cometa nel firmamento al turbinio dell’infusore nella goccia d’acqua. Macchina fatta spirito. Ingranaggio enorme, di cui primo motore è il moscerino e motore ultimo è lo zodiaco.